giovedì 5 settembre 2013

"Un pomeriggio allo Zini", di Andrea Cisi | prima parte

Dopo il grande successo di Roberto Bolaño, prosegue l'incursione di Lacrime di Borghetti nella letteratura calcistica di qualità con uno dei racconti più divertenti mai ambientati in un curva - in questo caso, la Sud dello Zini di Cremona. Quella che segue è la prima parte (sabato uscirà la seconda) di "Un pomeriggio allo Zini", magistrale racconto di Andrea Cisi apparso nell'antologia "Ogni maledetta domenica. Otto storie di calcio", pubblicata nel 2010 da Minimum Fax e curata da Alessandro Leogrande. La classica domenica da stadio grigiorossa (ma così simile a così tanti altri colori), popolata da gente bizzarra, caffè Borghetti, cori poco comprensibili e misteriose apparizioni del mito Alviero Chiorri; e anche, per noi, un modo per rendere omaggio alla Cremonese, una squadra che ha segnato la nostra infanzia (chi non ha sognato i capelli alla Dezotti?) e di cui da troppo tempo non abbiamo notizie. Buona lettura, non prima però di aver ringraziato sentitamente per averci concesso i diritti e per la collaborazione sia gli amici di Minimum Fax, in particolare la fantastica Lorenza Pieri, che la Berla & Griffini Rights Agency



***
"Un pomeriggio allo Zini"

Cremona è inghiottita da una nebbia densa e odorante di pioggia.
Mi muovo sicuro per le strade acciottolate del centro in direzione Foro Boario, la sciarpa legata al collo sotto il bavero, bene attento a evitare i posti di blocco dei vigili, anche se sono in bici. È primo pomeriggio ancora, ma il borgo è sulla sponda sinistra del Po, sotto corrente, tempo che finisce la partita la nebbia non se n’è andata, sicuro come l’oro.
Oggi dalle paludose risaie piemontesi, sempre se trovan la strada, arriva il Novara a battagliare per la serie B. Il piazzale del Foro Boario è un muro grigio di foschia, lo Zini vi appare dentro a macchie, come una visione onirica un po’ confusa.

Rebecchi e io ci troviamo alle biglietterie della Sud.
«Oh...», lo saluto.
«Oh...», mi saluta lui.
«Com’è?», chiedo.
«Come cazzo vuoi che sia?»
Rebecchi è edicolante, lavora sei giorni e mezzo su sette, dalle 6 alle 19.45. D’inverno gela anche con la stufetta, d’estate gli si scioglie la faccia dal caldo, nel gabbiotto. Una notte gli han pitturato dei cazzi arancioni sulla serranda con scritto «sfogliami questi edikolante di merda» e c’è un vigile incagnito che da due anni gli sfonda i testicoli perché parcheggia lo scùter portagiornali sul marciapiede. Vuol vendere l’edicola ma non ci riesce.
«È bello vendere giornali?», gli ho chiesto una volta.
«No», ha detto. «Son diventato ultras per colpa dell’edicola, mica per fede».
Sì, perché l’ultras è un animale che a volte nasce per implosione nervosa.
Alle casse io faccio la coda e prendo il biglietto. Rebecchi ha l’abbonamento, perché l’ultras ha l’abbonamento, a volte deve seguire i ragazzi in trasferta.
Domenica scorsa è andato a Pavia, match d’alta classifica, c’era ancora la neve raccolta a bordocampo. È partito con uno dei pullman del coordinamento insieme al Macellaio e a Sabani. Il Macellaio lavora all’Esselunga, Sabani si chiama così perché fa le imitazioni, di solito le fa male. Fa soprattutto cartoni animati e parenti, parenti suoi.
«A Pavia ha imitato sua mamma», fa Rebecchi ridacchiando, «uno spasso...»
Cremona-Pavia son quaranta minuti di strada. I pullman degli ultras, domenica, son partiti quattro ore prima.
«Noi ultras, lo sai bene», spiega, «anche per un’ora di strada dobbiam comunque ubriacarci e fumare, fermarci a pisciare e cagare e vomitare dappertutto, due soste al Grill, ingurgitare un Camogli una birra e un Concertino, lasciare i segni sui muri dei sottopassi con lo spray, rubare si deve, rubare...sennò che ultras di merda siamo?»
«Avete fatto bene, avete fatto», dico sincero.
Mi chiama al cellu Popoìto l’Etrusco, dice che ci vediamo dentro, nebbia permettendo, che se riesce mi porta il phon che gli ho prestato ieri al calcetto.
«In curva me lo porti?», polemizzo.
«Sì, tanto alla perquisa riesco a portarlo dentro, basta che butto gli accendini».
L’accendino in effetti è sempre l’unico snodo cruciale.
Entrando incrociamo Marrachèsc, un ragazzo marocchino che lavora con me alla fabbrica, c’è tutto il suo clan intorno a lui, tutti giovani, alti e magri, color muschio, tutti cugini, facce da galera, pizzaioli e piastrellisti, tifosi grigio rossi di brutto. Ci abbracciamo.
Lo sbirro appostato dietro il tornello valuta me e loro, quindi si concentra truce su di me. È meridionale, cattivo, in assetto, sigaretta marrone in bocca, visiera, manganello e spray.
Clint Eastwood.
«T’hanno già fatto?», digrigna violento.
Faccio di sì con la testa, automa.
Mi fa passare senza toccarmi. A saperlo portavo dentro cento chili di tritolo, così per il gusto di provarci.
All’edicolante Rebecchi invece gli fan rivoltare anche le asole dei bottoni, sarà la sua aria da bravo ragazzo che non convince. Gli trovano sette accendini, uno ce l’aveva in bocca, glieli fan buttare. Lui ne aveva otto, l’ultimo non gliel’hanno visto, ce l’aveva stretto in mano.
«È sempre più dura fregarli», mi fa.
«Non fumi neanche».
«Lo tiro».
Dentro l’atmosfera è miracolosa, non c’è un filo di nebbia,da curva a curva è tutto nitido. Lo Zini è una perla luminescente in fondo al mare scuro.
C’è il solito caos umano, gente che va di qua, gente che va di là, chi sale, chi scende, piumini, torsi nudi, occhiali da sole, sciarpe di lana per i rognosi, sciarpe di raso per i fighetti, tatuaggi, profumo di ganja, volantini ombrelli birre nei bicchieri di plastica giornali borsine maniche fatte su e una calura congenita che ristagna sotto l’apparente frescura, un’afa che sale dal cemento, anni di pelle sudata e culi seduti che mantengono torrida la temperatura di questo microambiente con qualsiasi stagione.
Ci sistemiamo, posizione centrale, sopra il nucleo ultras, raggiungendo Sabani e il Macellaio che stanno già parlando di cose serie, la figa e le bistecche di scamone. Sabani sta imitando il cuoco Marrabbio, papà di Kiss me Licia. In tre lì intorno ridacchiano.
Il panorama è sempre quello, bello colorato a tinte forti, il cielo grigio di nebbia che non scende, il manto verdissimo che ci fa onore, i raccattapalle minorenni in casacchina rossa che palleggiano, i fotografi con la pettorina gialla, il fallo di plastica rosa enorme con su scritto «ciao mamma» che un tifoso sventaglia allegro. Le maglie dei nostri son belle grigiorosse, stan da dio sul verde, quelle blu elettrico del Novara invece sono un po’ troppo psichedeliche. La Sud è pienotta, il rettilineo dei Distinti si sta riempiendo piano piano, la tribuna coperta si riempirà cinque minuti prima del fischio, la curva Nord invece è completamente deserta.
«Se non hanno il satellitare...», dice l’Orlando dubbioso.
Con l’Orlando c’è la Samànta. Lui è un ex sindacalista Cisl-Fim, nonché ex tossico delle casermone popolari del Borgo Loreto, uno che ancora s’infiamma per nulla, che porta molti anelli di bigiotteria e la cui età va sui quaranta ma non è certa sotto la pelle rugosa. Lei vive di Cremo, smalto per le unghie e musica melodica. Si son conosciuti da piccoli in colonia a Torre Pedrera, son sempre rimasti insieme nonostante il passato burrascoso di lui.
Ci raggiunge anche Maschio, col suo passo da carrarmato e quella barba e quei capelli da cavernicolo piantagrane. Una quercia con gli occhi.
«Oh...», ci saluta.
«Oh...», rispondiamo tutti.
«Com’è?», gli butto lì.
«Alla cazzo», fa nervoso. Ha la sciarpa legata al polso e stringe le labbra.
«La Daria?», chiedo.
«La stronza? Tre mesi ormai che sta dai suoi...»
«E la bimba?»
«La bimba sta con lei».
Resto zitto, a corto di risposte. Gli altri ascoltano in silenzio pure loro, hanno con lui meno confidenza di me, e Maschio è uno che è meglio non fare alterare.
«Qualcosa dovevate pur fare», azzardo, «erano più le volte che vi mettevate le mani addosso che quelle in cui andavate d’accordo».
Maschio non risponde, abbassa gli occhi sul terreno di gioco. Manovra carriponte al tubificio, un lavoro da cazzuti. Se c’è da spaccare acciaio a colpi di mazza lui è il primo, sgobbare non lo spaventa, ma parlare della sua bambina che non vede più troppo spesso lo spegne.
Lasciam cadere la cosa e torniamo a guardarci intorno. Vedo tutta la ciurma dei compagni del calcio amatoriale, ex compagni di scuola, colleghi di lavoro e i soliti affezionati, il Villetta Grùp e la loro aria brigante, il taciturno Vusamìa (non gridare!) arroccato nel suo «clan Castelleone», il tizio detto BusNavetta perché guida i pullman, il Morobiondo, i fasci inquietanti del ROV e uno che chiamano Chìcula (piccolo cappero da narice), che a volte prendono a sberle sul coppino ma solo gli amici intimi possono, se lo fai te ti prendono in venti e ti spaccano di botte. Individuo anche Popoìto con basette etrusche e birretta in mano, il valchirio Adès-Adès (OraOra) e Flo, il «liutaio albino», mentre giù alle ringhiere la Uoma, un curioso incrocio tra un ultras e una donna, sta strangolando con la sciarpa invernale di lana un vecchio inerme. Pare sia il suo papà.
C’è pure un sacco di sbarbatelli con le sciarpette di raso, tutti presi bene, pettinati con la piastra. Ce ne sono quattro in fila di fianco a noi. Uno magrino e alto sui dodici anni sputa in terra come un cammello, il più basso e vicino a noi invece ne avrà quattordici, ha i baffi da ometto, la panza da camionista e una Coca-Cola in mano, ci fa le bolle dentro. Son teneri da vedere, se li guardi due volte però si fanno minacciosi.
«Quando noi avevamo la loro età in panca c’era Mondonico...», s’immalinconisce Sabani facendo la voce di Calimero.
«Eh...», geme il Macellaio, «...davanti avevi Alviero e Nicoletti, mica Campolonghi e La Cagnina come oggi».
Solo a sentir nominare Alviero Chiorri tutti gli ultras intorno a noi si fanno devoti un segno della croce, uno sbaglia lo fa al contrario, un altro dopo bestemmia, un terzo dice anche amen.
Poi sento l’urlo di un megafono, giù nel «nucleo».
Quindi lo vedo.
Töna!
Un soprannome che non vuol dire assolutamente nulla.
È lui, è rientrato nei ranghi! La sua sciarpa avvolta fino alle labbra, la sua pelle di un roseo provato dalle ingiustizie della vita di provincia, la sua vaga somiglianza a Max Pezzali ma più bello. Il ritorno della leggenda, il maestro di tutti i capi ultras, il dio dell’entusiasmo da spalto, l’uomo della scissione. Della sua vita privata nulla trapela, la sua vera identità è un mistero per il borgo, chi dice faccia il gelataio, chi il dog-sitter per danarosi, chi invece sia uno scrittore affermato e abbia localini sulle spiagge di tutto il mondo. Oggi rientra in seno alla famiglia. A mesi dalle incomprensioni interne tra fazioni grigiorosse, oggi finalmente c’è il ritorno del condottiero.
«La senti l’agitazione dei gladiatori maschi della curva?», chiedo all’Orlando.
«Sì».
«Lo senti l’ormone che viaggia come un fiume in piena?»
«Sì, m’innervosisce».
«È la presenza magnetica di Töna!»
«No», fa lui, «mi sa che in tribuna c’è Luisa Corna...»
Tutti a spingersi come bestie ai recinti per guardare verso la tribuna coperta, dove di solito si sistemano i siùri locali e gli ospiti di riguardo. Della Corna nemmeno l’ombra dei capelli. «Potrebbe essere quella là di spalle», azzarda Maschio, «quella in bianco...»
«Quella là è mio zio Oreste», dice uno dei quattro sbarbatelli, con l’apparecchio in bocca.
Restiamo così, un po’ tutti pensierosi.
«Tuo zio Oreste ha un bel culo», commenta poi diretto Sabani.
L’ometto diventa tutto rosso.
La Samànta telefona intanto a un tipo per sapere se le ha masterizzato il cd di Tiziano Ferro. Sorride, annuisce e mette giù.
«Io mi inchino, a Tiziano...», mi fa poi cerbiatta, per giustificarsi.
Ha gli occhi color discarica, come il suo smalto per le unghie.
«Chissà come si gioca?», ci si chiede. «Chissà se mister Roselli usa lo schema “ad abete” del Milan?... chissà quanti gol prende il Grosseto in Liguria?... chissà se ho le ferie per andare ad Amsterdam a chiavare le russe in vetrina, come l’anno scorso?» Le domande che girano in curva, tra i tifosi,
son sempre più articolate.
Un gruppetto sparuto di quarantenni vestiti bene uguali, tipo bancari, inizia subito a insultare arbitro e carabinieri. I «sergenti» di Töna, con classe, intimano loro il silenzio, minacciandoli col segno della gola tagliata. I bancari smettono subito.
Giunge il momento della coreografia, la voce di Töna inizia a tuonare, chiama gli schemi sugli spalti, mentre lo speaker dà le formazioni in campo, da cui apprendiamo che anche oggi il bomber Gioacchino Prisciandaro è in panca, reduce da un infortunio.
Töna è già cattivo al punto giusto, pretende sbattimento dalla curva, pretende voglia. Nessuno però ha ancora neanche per le balle di cantare.
Töna guarda la Sud dal basso in alto, da destra a sinistra, sconcertato.
«CHI NON CANTA DA LEONE», urla bestiale, «GLI VIENE IL CAGONE!»
Tutti a cantare a squarciagola, chi i cori da stadio e chi pezzi a caso, uno anche «Se bruciasse la città» di Ranieri, applaudita a furor di popolo.
Poi i sergenti invocano il silenzio di tomba con dei ssshh…ssshh! che presto dilagano nel mucchio della Sud come un virus, si propagano all’infinito e obbligano i più fragili, tra cui il Macellaio, a una fuga disonorevole giù ai cessi.
«Mi ricorda il rumore dell’olio azzurro che scivola a terra dai cavi dei carroponte, di notte, quando prendi a mazzate il coil...», commenta Maschio con occhi assenti, «...come se l’acciaio sanguinasse...»
Pelle d’oca da timore a tutti i presenti.
Coreografia: bandierone grigiorosso con sopra lo stemma per i 102 anni di vita della società a coprire la Sud intera, sotto tutti noi zitti e nascosti con le sciarpe spiegate e le bandiere svolazzanti, celati a far finta che non ci siamo e invece ci siamo.
«Stiamo sotto il bandierone», penso, «come Cremona sta nella nebbia. Sepolti...»
Si inizia a tirare giù il pesante bandierone a colpi di dita levate, gridando un crescente «oooooooo...» di massa. Un tizio zoppo su in alto sbaglia i tempi e prende a cantare in anticipo: «Squadròoon, squadròoon, squadrone uno solooo...»
Töna lo fa prendere da due dervisci glabri, muscolosi e tatuati e scaraventare giù dallo spalto più alto, sul retro. Scompare nella foschia ma sentiamo il ciocco tipo melone maturo sul cemento del parcheggio.
La curva ammutolisce.
Ma è un attimo. Si riprende urlando e cantando a ritmo, quando tiriamo giù del tutto il bandierone la partita è cominciata, ci dimentichiamo invasati del corpo e delle sirene di ambulanza giù dabbasso e sventoliamo le sciarpe, le stiamo sventolando in dieci, mi vergogno anche di farlo, dopo un po’.
Grigiorossa la Cremo, blu elettrico il Novara. Il nostro portierone Mondini si distingue, un arancione-nero che stona, sembra un elettrauto.
Mi concentro sul gioco, ma dietro di noi passa la Uoma. Si ferma, con la mano scruta l’orizzonte della curva, cerca qualcuno di nome MaDài. Si domanda a voce alta dove sia quel gran bastardo, ma in modo molto meno fine. Quando se ne va torno al gioco, ma la voce di Töna è un martello che non si può ignorare.
«Dai rega, oh!», grida selvaggio. «Fuori la voceee, oooh! Dobbiamo andare in serie B (bestemmia)! Dobbiamo metterci la voglia, dobbiamo gridare (bestemmia)! Dai, oooh!»
La partita ha già il binario giusto, tanti recuperati in campo per noi, compreso il redivivo Benin che giostra a metà campo.
«Chi è quello là?», chiede una tipa tosta smanicata a un tipo moscio occhialuto.
«Benin».
«Benigni?»
«Benin, bestia!», urla lui sistemandosi la montatura sul setto. Nasce una piccola rissa localizzata, lei gli strappa le lenti e punta dritto agli occhi, avrà la meglio di brutto.
La Cremo, con Priscia in panca, parte davanti con la solita coppia di capelluti, Campolonghi e Taddei, la cieca potenza e l’imprevedibile estro.
L’edicolante Rebecchi ricorda nostalgico al gruppo il gol che segnò Alviero su punizione al Messina, anni fa, in serie B, alzatosi dalla panca proprio per tirare il calcio piazzato. Un sette preciso preciso, con quel sinistro velenoso dal calzettone abbassato sotto il polpaccio. Preghiera ultras di gruppo in fervente devozione.
Il Macellaio per non sfigurare ricorda allora commosso anche il bellissimo weekend a mignotte sul parmense con Sabani, che per tutta risposta fa l’imitazione di Buzzanca nel Merlo maschio. Poi ridono, solo loro due.
Vedo l’Orlando incupirsi, fissare qualcuno metri e metri sulla nostra sinistra. Mi dà di gomito.
«Oh, ma quello là?», mi fa, indicando un ricciolone abbronzato di profilo.
Guardo bene. Diavoli, pare davvero Chiorri. I capelli, la postura. In Sud... tra gli ultras!
«Se non è lui è Sandy Marton», faccio carico.
«Impossibile», ci smonta Rebecchi. «Che so io, Alviero vive a Cuba da anni».
Titubanti lasciamo perdere, l’edicolante è la saggezza della curva, se queste cose non le sa lui che legge...
Sotto, su una predella di legno, immerso tra megafoni, microfoni e amplificatori, aggrappato all’asta di un bandierone con su un teschio con uno spinello tra i denti, tipo pennone di nave pirata, Töna è in forma strepitosa. Si muove col suo megafono come Achab nella tempesta. Gira voce che il mitico sia arrivato in scùter digrignando i denti e con occhialoni da aviatore crucco, con addosso bombe a mano finte, in spalla cartelloni con su cessi disegnati, tra le gambe stelle filanti color Novara da bruciare, in tasca scritte e quant’altro, ma che accortosi poi dell’assoluta nudità della curva ospite abbia pianto come un bimbo. Tifosi novaresi zero, nemmeno uno. Dalle strade piemontesi nessuna automobile, nessun pullman, dagli sterrati nessun camper. Dalle risaie nessuna piroga.
Töna allora si è seduto, le mani in faccia, poi ha deciso che ci voleva un capro espiatorio, qualcuno con cui sfogarsi, i pulotti basta, non fan più notizia, ci voleva un nome nuovo.
La sorte ha voluto che il portiere avversario, tal Franzese, cominciasse nella porta sotto la Sud.
Se l’è presa con lui.
«Franceeeeseee», ha iniziato fetido col megafonino, «ci sentiii?»
Un tipo basso con la sciarpa dei RedGrey Supporters e con un brufolo grasso nell’occhio ha fatto timidamente notare al dio della Sud che il nome corretto era Franzese.
Töna stizzito l’ha fatto prendere dai due dervisci e buttare nella grotta tossica dei giardini pubblici di piazza Roma.
La curva muta ha potuto udire portati dalla nebbia i lamenti del malcapitato in balia delle unghie zozze dei derelitti del piazzale.
«Seppelliranno i suoi resti sotto l’altalena...», ricorda nostalgico l’Orlando.
«Franceeeeseee», ha ripetuto Töna, «ci sentiii?»
Franzese si è voltato di sghembo.
«FIGLIODIPUTTÀAAAAANAAA!», gli ha urlato la Sud all’unisono.
Il portierone ha scosso il capo, deluso dalla maleducazione del tifoso cremonese medio, evidentemente s’aspettava dei ragazzini tutti a modo.
«Franceeeeseee», ha ripetuto Töna ipnotico, «ci sentiii?», e ogni volta era un insulto al povero numero uno.
Il portiere non l’ha capito che si trattava di un gioco, che la curva lo mandava a quel paese ma per divertimento, che gli insultavamo madre e sorella ma in amicizia, che gli si augurava la morte violenta ma con cuore fraterno, non l’ha mica capita.
Si è offeso.
Restando di spalle tra i pali ha alzato il dito medio guantato.
La curva ha smesso di amarlo e ha iniziato a ferirlo con cattiveria, inducendolo a giocare il primo tempo dieci metri fuori dall’area piccola: l’oggetto meno strambo piombato in porta erano i jeans Avirex smunti di un ultras detto Petèra (cavallo basso del pantalone), con dentro ancora portafogli e chiavi di casa. Petèra è rimasto in curva con gli anfibi e il costume da bagno aderente dell’Arena, anche quello a vita bassa.

© minimum fax, 2010
«Un pomeriggio allo Zini»: © Andrea Cisi.
Published by arrangements with Berla & Griffini Rights Agency
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