Dopo il grande successo di Roberto Bolaño, prosegue l'incursione di Lacrime di Borghetti nella letteratura calcistica di qualità con uno dei racconti più divertenti mai ambientati in un curva - in questo caso, la Sud dello Zini di Cremona. Quella che segue è la prima parte (sabato uscirà la seconda) di "Un pomeriggio allo Zini", magistrale racconto di Andrea Cisi apparso nell'antologia "Ogni maledetta domenica. Otto storie di calcio", pubblicata nel 2010 da Minimum Fax e curata da Alessandro Leogrande. La classica domenica da stadio grigiorossa (ma così simile a così tanti altri colori), popolata da gente bizzarra, caffè Borghetti, cori poco comprensibili e misteriose apparizioni del mito Alviero Chiorri; e anche, per noi, un modo per rendere omaggio alla Cremonese, una squadra che ha segnato la nostra infanzia (chi non ha sognato i capelli alla Dezotti?) e di cui da troppo tempo non abbiamo notizie. Buona lettura, non prima però di aver ringraziato sentitamente per averci concesso i diritti e per la collaborazione sia gli amici di Minimum Fax, in particolare la fantastica Lorenza Pieri, che la Berla & Griffini Rights Agency.
***
"Un pomeriggio allo Zini"
Cremona
è inghiottita da una nebbia densa e odorante di pioggia.
Mi
muovo sicuro per le strade acciottolate del centro in direzione Foro Boario, la
sciarpa legata al collo sotto il bavero, bene attento a evitare i posti di
blocco dei vigili, anche se sono in bici. È primo pomeriggio ancora, ma il
borgo è sulla sponda sinistra del Po, sotto corrente, tempo che finisce la partita
la nebbia non se n’è andata, sicuro come l’oro.
Oggi
dalle paludose risaie piemontesi, sempre se trovan la strada, arriva il Novara
a battagliare per la serie B. Il piazzale del Foro Boario è un muro grigio di
foschia, lo Zini vi appare dentro a macchie, come una visione onirica un po’ confusa.
Rebecchi
e io ci troviamo alle biglietterie della Sud.
«Oh...»,
lo saluto.
«Oh...»,
mi saluta lui.
«Com’è?»,
chiedo.
«Come
cazzo vuoi che sia?»
Rebecchi
è edicolante, lavora sei giorni e mezzo su sette, dalle 6 alle 19.45. D’inverno
gela anche con la stufetta, d’estate gli si scioglie la faccia dal caldo, nel
gabbiotto. Una notte gli han pitturato dei cazzi arancioni sulla serranda con scritto
«sfogliami questi edikolante di merda» e c’è un vigile incagnito che da due
anni gli sfonda i testicoli perché parcheggia lo scùter portagiornali sul
marciapiede. Vuol vendere l’edicola ma non ci riesce.
«È
bello vendere giornali?», gli ho chiesto una volta.
«No»,
ha detto. «Son diventato ultras per colpa dell’edicola, mica per fede».
Sì,
perché l’ultras è un animale che a volte nasce per implosione nervosa.
Alle
casse io faccio la coda e prendo il biglietto. Rebecchi ha l’abbonamento,
perché l’ultras ha l’abbonamento, a volte deve seguire i ragazzi in trasferta.
Domenica
scorsa è andato a Pavia, match d’alta classifica, c’era ancora la neve raccolta
a bordocampo. È partito con uno dei pullman del coordinamento insieme al
Macellaio e a Sabani. Il Macellaio lavora all’Esselunga, Sabani si chiama così
perché fa le imitazioni, di solito le fa male. Fa soprattutto cartoni animati e
parenti, parenti suoi.
«A
Pavia ha imitato sua mamma», fa Rebecchi ridacchiando, «uno spasso...»
Cremona-Pavia
son quaranta minuti di strada. I pullman degli ultras, domenica, son partiti
quattro ore prima.
«Noi
ultras, lo sai bene», spiega, «anche per un’ora di strada dobbiam comunque
ubriacarci e fumare, fermarci a pisciare e cagare e vomitare dappertutto, due
soste al Grill, ingurgitare un Camogli una birra e un Concertino, lasciare i segni
sui muri dei sottopassi con lo spray, rubare si deve, rubare...sennò che ultras
di merda siamo?»
«Avete
fatto bene, avete fatto», dico sincero.
Mi
chiama al cellu Popoìto l’Etrusco, dice che ci vediamo dentro, nebbia
permettendo, che se riesce mi porta il phon che gli ho prestato ieri al
calcetto.
«In
curva me lo porti?», polemizzo.
«Sì,
tanto alla perquisa riesco a portarlo dentro, basta che butto gli accendini».
L’accendino
in effetti è sempre l’unico snodo cruciale.
Entrando
incrociamo Marrachèsc, un ragazzo marocchino che lavora con me alla fabbrica,
c’è tutto il suo clan intorno a lui, tutti giovani, alti e magri, color
muschio, tutti cugini, facce da galera, pizzaioli e piastrellisti, tifosi grigio
rossi di brutto. Ci abbracciamo.
Lo
sbirro appostato dietro il tornello valuta me e loro, quindi si concentra truce
su di me. È meridionale, cattivo, in assetto, sigaretta marrone in bocca,
visiera, manganello e spray.
Clint
Eastwood.
«T’hanno
già fatto?», digrigna violento.
Faccio
di sì con la testa, automa.
Mi
fa passare senza toccarmi. A saperlo portavo dentro cento chili di tritolo,
così per il gusto di provarci.
All’edicolante
Rebecchi invece gli fan rivoltare anche le asole dei bottoni, sarà la sua aria
da bravo ragazzo che non convince. Gli trovano sette accendini, uno ce l’aveva
in bocca, glieli fan buttare. Lui ne aveva otto, l’ultimo non gliel’hanno
visto, ce l’aveva stretto in mano.
«È
sempre più dura fregarli», mi fa.
«Non
fumi neanche».
«Lo
tiro».
Dentro
l’atmosfera è miracolosa, non c’è un filo di nebbia,da curva a curva è tutto
nitido. Lo Zini è una perla luminescente in fondo al mare scuro.
C’è
il solito caos umano, gente che va di qua, gente che va di là, chi sale, chi
scende, piumini, torsi nudi, occhiali da sole, sciarpe di lana per i rognosi,
sciarpe di raso per i fighetti, tatuaggi, profumo di ganja, volantini ombrelli
birre nei bicchieri di plastica giornali borsine maniche fatte su e una calura congenita
che ristagna sotto l’apparente frescura, un’afa che sale dal cemento, anni di
pelle sudata e culi seduti che mantengono torrida la temperatura di questo
microambiente con qualsiasi stagione.
Ci
sistemiamo, posizione centrale, sopra il nucleo ultras, raggiungendo Sabani e
il Macellaio che stanno già parlando di cose serie, la figa e le bistecche di
scamone. Sabani sta imitando il cuoco Marrabbio, papà di Kiss me Licia. In tre
lì intorno ridacchiano.
Il
panorama è sempre quello, bello colorato a tinte forti, il cielo grigio di
nebbia che non scende, il manto verdissimo che ci fa onore, i raccattapalle
minorenni in casacchina rossa che palleggiano, i fotografi con la pettorina
gialla, il fallo di plastica rosa enorme con su scritto «ciao mamma» che un tifoso
sventaglia allegro. Le maglie dei nostri son belle grigiorosse, stan da dio sul
verde, quelle blu elettrico del Novara invece sono un po’ troppo psichedeliche.
La Sud è pienotta, il rettilineo dei Distinti si sta riempiendo piano piano, la
tribuna coperta si riempirà cinque minuti prima del fischio, la curva Nord
invece è completamente deserta.
«Se
non hanno il satellitare...», dice l’Orlando dubbioso.
Con
l’Orlando c’è la Samànta. Lui è un ex sindacalista Cisl-Fim, nonché ex tossico
delle casermone popolari del Borgo Loreto, uno che ancora s’infiamma per nulla,
che porta molti anelli di bigiotteria e la cui età va sui quaranta ma non è
certa sotto la pelle rugosa. Lei vive di Cremo, smalto per le unghie e musica
melodica. Si son conosciuti da piccoli in colonia a Torre Pedrera, son sempre
rimasti insieme nonostante il passato burrascoso di lui.
Ci
raggiunge anche Maschio, col suo passo da carrarmato e quella barba e quei
capelli da cavernicolo piantagrane. Una quercia con gli occhi.
«Oh...»,
ci saluta.
«Oh...»,
rispondiamo tutti.
«Com’è?»,
gli butto lì.
«Alla
cazzo», fa nervoso. Ha la sciarpa legata al polso e stringe le labbra.
«La
Daria?», chiedo.
«La
stronza? Tre mesi ormai che sta dai suoi...»
«E
la bimba?»
«La
bimba sta con lei».
Resto
zitto, a corto di risposte. Gli altri ascoltano in silenzio pure loro, hanno
con lui meno confidenza di me, e Maschio è uno che è meglio non fare alterare.
«Qualcosa
dovevate pur fare», azzardo, «erano più le volte che vi mettevate le mani
addosso che quelle in cui andavate d’accordo».
Maschio
non risponde, abbassa gli occhi sul terreno di gioco. Manovra carriponte al
tubificio, un lavoro da cazzuti. Se c’è da spaccare acciaio a colpi di mazza
lui è il primo, sgobbare non lo spaventa, ma parlare della sua bambina che non
vede più troppo spesso lo spegne.
Lasciam
cadere la cosa e torniamo a guardarci intorno. Vedo tutta la ciurma dei
compagni del calcio amatoriale, ex compagni di scuola, colleghi di lavoro e i
soliti affezionati, il Villetta Grùp e la loro aria brigante, il taciturno
Vusamìa (non gridare!) arroccato nel suo «clan Castelleone», il tizio detto
BusNavetta perché guida i pullman, il Morobiondo, i fasci inquietanti del ROV e
uno che chiamano Chìcula (piccolo cappero da narice), che a volte prendono a
sberle sul coppino ma solo gli amici intimi possono, se lo fai te ti prendono in
venti e ti spaccano di botte. Individuo anche Popoìto con basette etrusche e
birretta in mano, il valchirio Adès-Adès (OraOra) e Flo, il «liutaio albino»,
mentre giù alle ringhiere la Uoma, un curioso incrocio tra un ultras e una
donna, sta strangolando con la sciarpa invernale di lana un vecchio inerme.
Pare sia il suo papà.
C’è
pure un sacco di sbarbatelli con le sciarpette di raso, tutti presi bene,
pettinati con la piastra. Ce ne sono quattro in fila di fianco a noi. Uno
magrino e alto sui dodici anni sputa in terra come un cammello, il più basso e
vicino a noi invece ne avrà quattordici, ha i baffi da ometto, la panza da
camionista e una Coca-Cola in mano, ci fa le bolle dentro. Son teneri da
vedere, se li guardi due volte però si fanno minacciosi.
«Quando
noi avevamo la loro età in panca c’era Mondonico...», s’immalinconisce Sabani
facendo la voce di Calimero.
«Eh...»,
geme il Macellaio, «...davanti avevi Alviero e Nicoletti, mica Campolonghi e La
Cagnina come oggi».
Solo
a sentir nominare Alviero Chiorri tutti gli ultras intorno a noi si fanno
devoti un segno della croce, uno sbaglia lo fa al contrario, un altro dopo
bestemmia, un terzo dice anche amen.
Poi
sento l’urlo di un megafono, giù nel «nucleo».
Quindi
lo vedo.
Töna!
Un
soprannome che non vuol dire assolutamente nulla.
È
lui, è rientrato nei ranghi! La sua sciarpa avvolta fino alle labbra, la sua
pelle di un roseo provato dalle ingiustizie della vita di provincia, la sua
vaga somiglianza a Max Pezzali ma più bello. Il ritorno della leggenda, il
maestro di tutti i capi ultras, il dio dell’entusiasmo da spalto, l’uomo della
scissione. Della sua vita privata nulla trapela, la sua vera identità è un mistero
per il borgo, chi dice faccia il gelataio, chi il dog-sitter per danarosi, chi
invece sia uno scrittore affermato e abbia localini sulle spiagge di tutto il
mondo. Oggi rientra in seno alla famiglia. A mesi dalle incomprensioni interne
tra fazioni grigiorosse, oggi finalmente c’è il ritorno del condottiero.
«La
senti l’agitazione dei gladiatori maschi della curva?», chiedo all’Orlando.
«Sì».
«Lo
senti l’ormone che viaggia come un fiume in piena?»
«Sì,
m’innervosisce».
«È
la presenza magnetica di Töna!»
«No»,
fa lui, «mi sa che in tribuna c’è Luisa Corna...»
Tutti
a spingersi come bestie ai recinti per guardare verso la tribuna coperta, dove
di solito si sistemano i siùri locali e gli ospiti di riguardo. Della Corna
nemmeno l’ombra dei capelli. «Potrebbe essere quella là di spalle», azzarda
Maschio, «quella in bianco...»
«Quella
là è mio zio Oreste», dice uno dei quattro sbarbatelli, con l’apparecchio in
bocca.
Restiamo
così, un po’ tutti pensierosi.
«Tuo
zio Oreste ha un bel culo», commenta poi diretto Sabani.
L’ometto
diventa tutto rosso.
La
Samànta telefona intanto a un tipo per sapere se le ha masterizzato il cd di
Tiziano Ferro. Sorride, annuisce e mette giù.
«Io
mi inchino, a Tiziano...», mi fa poi cerbiatta, per giustificarsi.
Ha
gli occhi color discarica, come il suo smalto per le unghie.
«Chissà
come si gioca?», ci si chiede. «Chissà se mister Roselli usa lo schema “ad
abete” del Milan?... chissà quanti gol prende il Grosseto in Liguria?... chissà
se ho le ferie per andare ad Amsterdam a chiavare le russe in vetrina, come l’anno
scorso?» Le domande che girano in curva, tra i tifosi,
son
sempre più articolate.
Un
gruppetto sparuto di quarantenni vestiti bene uguali, tipo bancari, inizia
subito a insultare arbitro e carabinieri. I «sergenti» di Töna, con classe, intimano
loro il silenzio, minacciandoli col segno della gola tagliata. I bancari
smettono subito.
Giunge
il momento della coreografia, la voce di Töna inizia a tuonare, chiama gli
schemi sugli spalti, mentre lo speaker dà le formazioni in campo, da cui apprendiamo
che anche oggi il bomber Gioacchino Prisciandaro è in panca, reduce da un
infortunio.
Töna
è già cattivo al punto giusto, pretende sbattimento dalla curva, pretende
voglia. Nessuno però ha ancora neanche per le balle di cantare.
Töna
guarda la Sud dal basso in alto, da destra a sinistra, sconcertato.
«CHI
NON CANTA DA LEONE», urla bestiale, «GLI VIENE IL CAGONE!»
Tutti
a cantare a squarciagola, chi i cori da stadio e chi pezzi a caso, uno anche
«Se bruciasse la città» di Ranieri, applaudita a furor di popolo.
Poi
i sergenti invocano il silenzio di tomba con dei ssshh…ssshh! che presto dilagano nel mucchio della Sud come un
virus, si propagano all’infinito e obbligano i più fragili, tra cui il
Macellaio, a una fuga disonorevole giù ai cessi.
«Mi
ricorda il rumore dell’olio azzurro che scivola a terra dai cavi dei
carroponte, di notte, quando prendi a mazzate il coil...», commenta Maschio con
occhi assenti, «...come se l’acciaio sanguinasse...»
Pelle
d’oca da timore a tutti i presenti.
Coreografia:
bandierone grigiorosso con sopra lo stemma per i 102 anni di vita della società
a coprire la Sud intera, sotto tutti noi zitti e nascosti con le sciarpe
spiegate e le bandiere svolazzanti, celati a far finta che non ci siamo e
invece ci siamo.
«Stiamo
sotto il bandierone», penso, «come Cremona sta nella nebbia. Sepolti...»
Si
inizia a tirare giù il pesante bandierone a colpi di dita levate, gridando un
crescente «oooooooo...» di massa. Un tizio zoppo su in alto sbaglia i tempi e
prende a cantare in anticipo: «Squadròoon, squadròoon, squadrone uno solooo...»
Töna
lo fa prendere da due dervisci glabri, muscolosi e tatuati e scaraventare giù
dallo spalto più alto, sul retro. Scompare nella foschia ma sentiamo il ciocco
tipo melone maturo sul cemento del parcheggio.
La
curva ammutolisce.
Ma
è un attimo. Si riprende urlando e cantando a ritmo, quando tiriamo giù del
tutto il bandierone la partita è cominciata, ci dimentichiamo invasati del
corpo e delle sirene di ambulanza giù dabbasso e sventoliamo le sciarpe, le stiamo
sventolando in dieci, mi vergogno anche di farlo, dopo un po’.
Grigiorossa
la Cremo, blu elettrico il Novara. Il nostro portierone Mondini si distingue,
un arancione-nero che stona, sembra un elettrauto.
Mi
concentro sul gioco, ma dietro di noi passa la Uoma. Si ferma, con la mano
scruta l’orizzonte della curva, cerca qualcuno di nome MaDài. Si domanda a voce
alta dove sia quel gran bastardo, ma in modo molto meno fine. Quando se ne va
torno al gioco, ma la voce di Töna è un martello che non si può ignorare.
«Dai
rega, oh!», grida selvaggio. «Fuori la voceee, oooh! Dobbiamo andare in serie B
(bestemmia)! Dobbiamo metterci la
voglia, dobbiamo gridare (bestemmia)!
Dai, oooh!»
La
partita ha già il binario giusto, tanti recuperati in campo per noi, compreso
il redivivo Benin che giostra a metà campo.
«Chi
è quello là?», chiede una tipa tosta smanicata a un tipo moscio occhialuto.
«Benin».
«Benigni?»
«Benin,
bestia!», urla lui sistemandosi la montatura sul setto. Nasce una piccola rissa
localizzata, lei gli strappa le lenti e punta dritto agli occhi, avrà la meglio
di brutto.
La
Cremo, con Priscia in panca, parte davanti con la solita coppia di capelluti,
Campolonghi e Taddei, la cieca potenza e l’imprevedibile estro.
L’edicolante
Rebecchi ricorda nostalgico al gruppo il gol che segnò Alviero su punizione al
Messina, anni fa, in serie B, alzatosi dalla panca proprio per tirare il calcio
piazzato. Un sette preciso preciso, con quel sinistro velenoso dal calzettone abbassato
sotto il polpaccio. Preghiera ultras di gruppo in fervente devozione.
Il
Macellaio per non sfigurare ricorda allora commosso anche il bellissimo weekend
a mignotte sul parmense con Sabani, che per tutta risposta fa l’imitazione di
Buzzanca nel Merlo maschio. Poi
ridono, solo loro due.
Vedo
l’Orlando incupirsi, fissare qualcuno metri e metri sulla nostra sinistra. Mi
dà di gomito.
«Oh,
ma quello là?», mi fa, indicando un ricciolone abbronzato di profilo.
Guardo
bene. Diavoli, pare davvero Chiorri. I capelli, la postura. In Sud... tra gli
ultras!
«Se
non è lui è Sandy Marton», faccio carico.
«Impossibile»,
ci smonta Rebecchi. «Che so io, Alviero vive a Cuba da anni».
Titubanti
lasciamo perdere, l’edicolante è la saggezza della curva, se queste cose non le
sa lui che legge...
Sotto,
su una predella di legno, immerso tra megafoni, microfoni e amplificatori,
aggrappato all’asta di un bandierone con su un teschio con uno spinello tra i
denti, tipo pennone di nave pirata, Töna è in forma strepitosa. Si muove col suo
megafono come Achab nella tempesta. Gira voce che il mitico sia arrivato in
scùter digrignando i denti e con occhialoni da aviatore crucco, con addosso
bombe a mano finte, in spalla cartelloni con su cessi disegnati, tra le gambe stelle
filanti color Novara da bruciare, in tasca scritte e quant’altro, ma che
accortosi poi dell’assoluta nudità della curva ospite abbia pianto come un
bimbo. Tifosi novaresi zero, nemmeno uno. Dalle strade piemontesi nessuna
automobile, nessun pullman, dagli sterrati nessun camper. Dalle risaie nessuna
piroga.
Töna
allora si è seduto, le mani in faccia, poi ha deciso che ci voleva un capro
espiatorio, qualcuno con cui sfogarsi, i pulotti basta, non fan più notizia, ci
voleva un nome nuovo.
La
sorte ha voluto che il portiere avversario, tal Franzese, cominciasse nella
porta sotto la Sud.
Se
l’è presa con lui.
«Franceeeeseee»,
ha iniziato fetido col megafonino, «ci sentiii?»
Un
tipo basso con la sciarpa dei RedGrey Supporters e con un brufolo grasso
nell’occhio ha fatto timidamente notare al dio della Sud che il nome corretto
era Franzese.
Töna
stizzito l’ha fatto prendere dai due dervisci e buttare nella grotta tossica
dei giardini pubblici di piazza Roma.
La
curva muta ha potuto udire portati dalla nebbia i lamenti del malcapitato in
balia delle unghie zozze dei derelitti del piazzale.
«Seppelliranno
i suoi resti sotto l’altalena...», ricorda nostalgico l’Orlando.
«Franceeeeseee»,
ha ripetuto Töna, «ci sentiii?»
Franzese
si è voltato di sghembo.
«FIGLIODIPUTTÀAAAAANAAA!»,
gli ha urlato la Sud all’unisono.
Il
portierone ha scosso il capo, deluso dalla maleducazione del tifoso cremonese
medio, evidentemente s’aspettava dei ragazzini tutti a modo.
«Franceeeeseee»,
ha ripetuto Töna ipnotico, «ci sentiii?», e ogni volta era un insulto al povero
numero uno.
Il
portiere non l’ha capito che si trattava di un gioco, che la curva lo mandava a
quel paese ma per divertimento, che gli insultavamo madre e sorella ma in
amicizia, che gli si augurava la morte violenta ma con cuore fraterno, non l’ha
mica capita.
Si
è offeso.
Restando
di spalle tra i pali ha alzato il dito medio guantato.
La
curva ha smesso di amarlo e ha iniziato a ferirlo con cattiveria, inducendolo a
giocare il primo tempo dieci metri fuori dall’area piccola: l’oggetto meno
strambo piombato in porta erano i jeans Avirex smunti di un ultras detto Petèra
(cavallo basso del pantalone), con
dentro ancora portafogli e chiavi di casa. Petèra è rimasto in curva con gli
anfibi e il costume da bagno aderente dell’Arena, anche quello a vita bassa.
© minimum fax, 2010
«Un pomeriggio allo Zini»: © Andrea Cisi.
Published by arrangements with Berla & Griffini Rights Agency
Tutti i diritti riservati
«Un pomeriggio allo Zini»: © Andrea Cisi.
Published by arrangements with Berla & Griffini Rights Agency
Tutti i diritti riservati
meraviglioso
RispondiEliminaleggo solo oggi con colpevole ritardo.
RispondiEliminafantastico.