"L'ultimo minuto", di Marcelo Backes (Del Vecchio Editore, 2014) |
"In fin dei conti, e lui sapeva come girare la cosa a proprio favore, l'allenatore di calcio era uno dei pochi dèi rimasti nel mondo dissacrato di oggi. Era lui a manovrare i fili del destino di quel centravanti figlio di puttana e di un'altra ventina di mortali, titolari e riserve, senza contare il fatto che, indirettamente, interveniva anche sulle sorti di una manciata di investitori finanziari, per tacere dei destini di migliaia di investitori sentimentali, i tifosi".
Il lui in questione, protagonista del bellissimo romanzo del brasiliano Marcelo Backes "L'ultimo minuto" (Del Vecchio Editore, 2014) e attore del monologo che innerva l'intero libro insieme al seminarista che l'ascolta a volte perplesso e a volte complice, è João il Rosso, nato Yannick o Iànic in una famiglia patriarcale ai limiti della civiltà e del Brasile, in una colonia russa stabilitasi nell'entroterra della regione meridionale del Rio Grande do Sul, e finito in carcere per un reato che non sarò certo io a svelare (si rimane col fiato sospeso fino all'ultimo secondo, come in una partita ferma sullo zero a zero). In modo non sempre lineare, ma denso e polveroso, e per questo accattivante, con uno stile che mi ha ricordato la spigolosità e il rigore dei monologhi di autori d'area tedesca come Thomas Bernhard e Thomas Brussig (di cui consiglio sempre i due libretti pubblicati da 66thand2nd), Backes racconta implacabilmente la sua storia dura come pietra, ma piena di umanità ("Quando hai capito che il mondo non finiva in una montagna, ma continuava dopo che il verde si era unito all'azzurro, nel punto in cui il cielo e l'oceano si toccano in un'eccitazione infinita? Eh sì, io sono scoppiato in lacrime, mormorava, senza più provare a nascondere le sue emozioni. Di nascosto al mondo, ma sono scoppiato in lacrime"), che si snoda tra le miserabili terre natie ("Perfino i fili dell'illuminazione rurale, cicale elettriche, a volte cantavano la miseria di quei luoghi, ronzando in un lamento infinito, mentre gli alberi piangevano la loro resina e il sole testava il terreno, addestrando la pazienza di chi era nato per resistere e conosceva il dolore di ammazzare a sangue freddo dei gattini che avrebbero solo dato fastidio, perché non c'erano abbastanza topi per tutti quei felini, perchè si riproducevano come conigli, ma non erano conigli, che almeno si potevano mangiare"), la diffidenza di una fredda Rio de Janeiro, l'emigrazione in Svizzera, la carriera da allenatore in giro per il Brasile, fino a quel gesto finale, definitivo, sanguinoso, lubrificato in oltre duecento pagine dal senso di colpa per
aver abbandonato il figlio e non essere riuscito ad amarlo, data la sua
assoluta incapacità come giocatore. E dire che aveva pure tentanto di porre rimedio alle sue mancanze inserendolo nella formazione ed eliminando un talentuoso
centravanti...Non so dire se il monologo di Yannick è una cosiddetta lettura per l'estate, ma posso dire con certezza che è molto di più, è una lettura per ogni momento dell'anno, perchè è un libro non di calcio ma che ha il calcio in filigrana per tutto il suo scorrere, un libro che non parla di calcio ma attraverso il calcio parla di un paese e della sua umanità, di storie regionali e di tragedie familiari, un libro che addirittura si permette il capriccio di regalarci un piccolo e lucidissimo trattato di antropologia calcistica, l'oggetto del capitolo che pubblichiamo oggi, per gentile concessione dell'editore, che ringraziamo.
***
Quando ormai mi chiamava colorato, un sorriso rado
sul volto, insisteva col dire che il calcio rappresentava da sempre una
metafora formidabile, un paragone che come nessun altro restituiva le
potenzialità della vita reale. Il calcio era il vero teatro dell’esistenza, il
più grande circo di tutti i tempi, l’ultima rappresentazione sacra della
contemporaneità. Un rito, in fondo, la religione popolare di
coloro i quali non si erano ancora rozzamente affidati al neoevangelismo, e
bevevano il proprio pane e il proprio vino in dosi abbondanti di birra e
stuzzichini guardando il pallone rotolare.
Il calcio era l’esperanto popolare, il linguaggio
universale in cui le persone potevano plaudire al prezzo del biglietto
d’ingresso, e poi assistere, per di più, a un concerto del quale inusitatamente
comprendevano ogni singola nota. Sì, il calcio era l’unico luogo in cui perfino
al più maschio fra gli uomini era permesso di farsi vedere isterico, secondo
lui, una delle poche occasioni in grado di mostrare fedelmente un bel pezzo di
universo.
Sebbene il calcio stesso, il suo calcio, il suo
amato calcio, fosse sempre più dissacrato dagli interessi reconditi del denaro
e dei negoziatori, una bella partita continuava a essere un’imitazione del
mondo, con le sue regole, le sue uniformi, i suoi alleati e i suoi nemici,
divisi in squadre. Proprio come nella vita, nel calcio si correvano rischi, era
necessario osare, mostrare solidarietà, calma, perfino capacità di rinuncia e
di sacrificio oggettivo in favore di
una squadra. Perfino Lula, Luiz Inácio, lo sapeva, e anche Angela Merkel con le sue gonnelle da orripilante matrona approfittava della potenza metaforica del calcio per raccogliere adepti facilmente convertibili in voti.
una squadra. Perfino Lula, Luiz Inácio, lo sapeva, e anche Angela Merkel con le sue gonnelle da orripilante matrona approfittava della potenza metaforica del calcio per raccogliere adepti facilmente convertibili in voti.
Il calcio era sempre la lotta uno contro uno per la
stessa cosa, il pallone, quel pezzo di cuoio arrotondato fra due leoni, da cui
scaturivano tutta la barbarie e allo stesso tempo tutta quella gloria, forse
ancora di più che in una lite qualunque, quando l’attacco era diretto, faccia a
faccia, e non c’era niente in mezzo a scatenare la disputa. Dal tipico
comportamento di un uomo che insultava la madre dell’arbitro allo stadio e non
si sarebbe mai sognato di far fuori l’idraulico inetto che gli aveva inondato
il bagno, fino al vai e vieni segreto del denaro del mercato internazionale, il
pallone faceva appello ai sentimenti più intimi degli spettatori in una grande catarsi
collettiva, e al contempo strappava il velo di ogni tipo, più o meno sottile,
che ricopriva le anime delle persone e degli affari.
Se ci facevo caso, diceva, e l’antropologia del
discorso iniziava a piacermi, era possibile perfino comprendere meglio il
comportamento di certi paesi osservando che genere di calcio praticassero, e non era necessario
essere né diplomatici né statisti per rendersi conto che era proprio così.
Perché, il tipico stile olandese da arancia meccanica non aveva forse a che
vedere con il concetto di spazio nei Paesi Bassi e con la necessità storica di
guadagnare terreno al mare attraverso dighe e canali costruiti con una logica
estremamente geometrica e strategica, che portava avanti la linea di difesa per
arraffare spazio? E a che serviva venirsene fuori con il Barcellona e roba
analoga se i maestri erano olandesi, a cominciare da Johan Cruyff, sorta di
padre del già menzionato Pep, Guardiola del calcio, e oltretutto gli sembrava
sufficiente ricordare che non era la prima volta, neanche per sogno, bastava
ragionare in maniera dialettica e conoscere gli insegnamenti della storia, che
la Spagna invadeva e conquistava terre batave.
E la Germania, allora? Anche in sua madre, dona
Maria di tante nostalgie, intravedeva lo stesso spirito tenace, quell’obbligo
di vincere sostentato da un uso ottimizzato delle forze, e un uso ottimizzato
con raziocinio, va detto. Così era anche per lui, con il cinquanta per cento
del sangue che aveva ricevuto e un vincolo atavico che con la madre forse era più
forte. O almeno era così che l’aveva pensata per un bel po’, adesso sapeva che
forse le cose non stavano proprio così.
E non per niente si attribuiva a più di un uomo, in
Germania a Gary Lineker, l’attaccante inglese, in Brasile a Jorge Valdano,
l’attaccante argentino, la sentenza per la quale il calcio è un gioco di undici
contro undici in cui alla fine vince la Germania. Quando stava in Svizzera, gli
avevano detto che in Germania il calcio era così importante che molti
sostenevano la tesi secondo la quale erano stati i campionati mondiali del 1954
e il cosiddetto Miracolo di Berna
a restituire un’identità alla nazione e ai suoi cittadini dopo la tragedia della seconda guerra mondiale. Nei più volte menzionati mondiali del 2006, che aveva tentato di seguire dai nascondigli della sua fuga disperata, nei bar di Aquidauana, nei ristoranti di Pedro Juan Caballero, nei motel di Santa Ana de Chiquitos, obbligato a sostituire il mate con il tererê, quell’identità tedesca aveva cominciato perfino a far sventolare le bandiere.
a restituire un’identità alla nazione e ai suoi cittadini dopo la tragedia della seconda guerra mondiale. Nei più volte menzionati mondiali del 2006, che aveva tentato di seguire dai nascondigli della sua fuga disperata, nei bar di Aquidauana, nei ristoranti di Pedro Juan Caballero, nei motel di Santa Ana de Chiquitos, obbligato a sostituire il mate con il tererê, quell’identità tedesca aveva cominciato perfino a far sventolare le bandiere.
Allo stesso modo, il calcio poteva spiegare molto
bene e con gli esempi migliori la cosiddetta globalizzazione, e chiarire perché
i tifosi lanciassero ancora le banane ai cosiddetti atleti di colore in
campionati come la Libertadores e le nazionali non fossero più seguite come un
tempo, con il risultato che i tifosi parteggiavano sempre più per le squadre
cittadine, dimenticando la loro patria. L’identità nazionale, il vincolo con la
nazionale del proprio paese, sarebbe stato ucciso a poco a poco, mentre di pari
passo aumentava la fedeltà ai propri club, rintuzzando fra l’altro movimenti
xenofobi nelle associazioni di antica tradizione razzista. Lo sapevo, per caso,
ma non lo sapevo di sicuro, che c’erano due fratelli Boateng, anche bravini, e
uno giocava nella nazionale tedesca mentre l’altro, che si guadagnava da vivere
in Italia, difendeva i colori del Ghana?
Perfino nella patria brasiliana si era smesso di usare le scarpette da calcio, anche perché la maggior parte dei suoi rappresentanti non giocava neanche più nel paese ed era inoltre ben lungi dal rappresentare la benché minima caratteristica brasiliana o una qualsiasi cosa in termini di peculiarità nazionale. E le rare eccezioni che avrebbero meritato una risata, una lacrima, non venivano contemplate, offuscate com’erano dal business che avvolgeva lo sport,
scommesse milionarie che viziavano i risultati e che conquistavano spazio, sempre ai margini, manipolatori virtuali che facevano in modo che un ibis marocchino battesse l’araripina colombiano con un gol calcolatamente piazzato al quarantatreesimo minuto del secondo tempo, senza contare gli eterni faccendieri che uccidevano la passione a forza di interessi.
Perfino nella patria brasiliana si era smesso di usare le scarpette da calcio, anche perché la maggior parte dei suoi rappresentanti non giocava neanche più nel paese ed era inoltre ben lungi dal rappresentare la benché minima caratteristica brasiliana o una qualsiasi cosa in termini di peculiarità nazionale. E le rare eccezioni che avrebbero meritato una risata, una lacrima, non venivano contemplate, offuscate com’erano dal business che avvolgeva lo sport,
scommesse milionarie che viziavano i risultati e che conquistavano spazio, sempre ai margini, manipolatori virtuali che facevano in modo che un ibis marocchino battesse l’araripina colombiano con un gol calcolatamente piazzato al quarantatreesimo minuto del secondo tempo, senza contare gli eterni faccendieri che uccidevano la passione a forza di interessi.
Un giorno di quelli gli era persino capitato di
leggere quello che gli era parso un grande teorico dell’arte, tedesco di nome,
i tedeschi erano davvero bravi in queste cose, iniziavano a ragionare partendo
da circa otto secoli prima, e solo a quel punto approdavano alla realtà
presente, un certo Alfons, Alfonso, Afonso, forse Alonso, gli sembrava che si
chiamasse Afonso Hugo. Aveva anche ritagliato l’articolo. Insomma,
quell’Afonso, o Alonso, diceva che il tema del calcio era sempre in bilico fra
identità nazionale e globalizzazione, e che non erano poche le squadre che si
trasformavano in globalplayers e, nel caso mettiamo che fossero inglesi, colonizzavano tifoserie
africane.
Secondo quell’Afonso, sì, Afonso, non era un caso
se lo spirito dell’epoca aveva fatto sì che il trasferimento di Cristiano
Ronaldo dal Manchester United al Real Madrid costasse la stessa cifra esatta di
un’opera d’arte straordinaria, una scultura, gli sembrava, tipo un uomo che
marciava di un certo Alberto Giacometti. Poco più di cento milioni di dollari
ciascuno, giocatore e opera.
Non era forse interessante, mi chiedeva, e magari
gli sarebbe piaciuto che aggiungessi qualcosa, ma ormai mi ero abituato al mio
silenzio senza risposte e non dissi nulla, sebbene avessi voglia di giurargli
in un sussurro che un grido, se ben dipinto, poteva essere ancora più caro.
Quando il testo del sopracitato Afonso aveva iniziato a delineare alcune tesi
sull’aura in un mondo di riproduzioni, lui si era un po’ perso e aveva pensato
che non c’era bisogno di continuare a leggere per capire quello che diceva. Ad
Anharetã, tutti imparavano ancora in fasce a capire che Cisco era Francisco.
In più, il calcio era e continuava a essere uno dei
sistemi più efficaci per consentire l’ascesa sociale a chi senza di esso non
avrebbe mai potuto, trasformando gli abitanti di un paese come il Brasile in
veri e propri brics dell’individualità, nel concedere loro, attraverso il
pallone, una crescita economica incomparabile, la distribuzione delle rendite
in seno alla famiglia e la possibilità dinamica di salire i gradini cachettici
della vita. Non che questo precario calcio alla stagnazione dicesse o
risolvesse tutto. E lui chiese, lo faceva sempre più spesso, se avessi
realizzato che gli arbitri e gli allenatori in Brasile erano tutti bianchi,
quasi tutti bianchi, e i giocatori erano tutti neri, quasi tutti neri. Per fare
l’arbitro o il tecnico bisognava studiare, e studiare bene, in certo qual modo,
e già questo rispondeva chiaramente alla questione, nonostante molti andassero
avanti rubando o sbagliando in modo maldestro. Bastava tutto questo per
rendersi conto del disordine sociale che continuava a comandare nel paese e per
sbugiardare un pugno di persone a cui piaceva parlare di giustizia nel calcio,
farci una bella figura e riempirsi la bocca col politicamente corretto, dicendo
che almeno in campo il razzismo non c’era.
Ma se il calcio aiutava a riequilibrare certe
situazioni offrendo una rappresentazione parzialmente civilizzata della guerra,
che ai mondiali permetteva poi di vedere i paesi in lotta gli uni contro gli altri, faceva ben di
più, nonostante il tradimento messo in atto da certi faccendieri, capaci fra
l’altro di guadagnare la fedeltà del giocatore al denaro del club, lottando per
fargli abbandonare la sua nazionale lontana, pur lucrando al contempo sul fatto
che quello stesso giocatore venga riconosciuto come eroe nazionale. E diceva
che in Africa spesso si è pensato alla pace solo per poter assistere a una
partita di calcio, e sopravvissuti di paesi come il Togo o l’Angola potevano
all’improvviso considerarsi cittadini soltanto perché le loro patrie
partecipavano a un campionato del mondo. E che il compianto Yekini, il quale
ricordava anche un po’, lui sì, il centravanti di riserva, sebbene fosse più
scuro, quando aveva segnato il primo gol nigeriano nella più importante delle
competizioni internazionali nel 1994 era corso alla meta, aveva afferrato la
rete scuotendola con aria allucinata e aveva fatto commuovere l’intero pianeta
gridando come se volesse farsi ascoltare da tutto il popolo del suo problematico paese. Ma in un mondo in
cui i bambini giocavano ancora a palla con le teste di altri bambini alla
minima baruffa, il problema era tutt’altro che risolto.
Se l’America Latina per molto tempo era stata un
grosso bacino di reclutamento sfruttato dalle grandi squadre europee, posizione
verso la quale sempre di più il Brasile marciava oggi in maniera imperialista, si diceva che
nei Balcani a volte smettevano di farsi la guerra, che serbi e croati dicevano
stop alla carneficina domestica per farsi una partitella di qualche ora, finché
qualcuno non si rimetteva a sparare. Aveva letto a proposito un brillante
capitolo di un romanzo che per caso una volta era capitato fra le mani del
figlio, per via di un reportage su una rivista di musica rock. Il libro, il
figlio aveva subito smesso di leggerlo, parlava, nel titolo, di un soldato che
aggiustava un grammofono.
Ma se l’ONU ricreativa del calcio era in grado di
fornire servizi maggiori di quelli di qualsiasi esercito di caschi blu, era
anche vero che albergavano fra le sue truppe alcune delle figure più corrotte
al mondo, sempre disposte a riciclare denaro, spolpare, massimizzare i guadagni
in affari giganteschi che lievitavano vantaggiosamente nei continenti più
poveri, portando avanti uno sfruttamento da sempre così fondamentale alla
sopravvivenza del capitalismo. Una squadra di calcio aveva diritti che le altre
imprese non avevano, e spesso sopravviveva solo ed esclusivamente grazie alla
sua gestione truffaldina. Ed era quello il mondo in cui lui, fin dall’inizio
niente più che un appassionato, João, il Rosso, aveva versato il proprio
sangue, aveva bevuto il suo sangue…
Ah, i Balcani.
Quando era bambino, ai mondiali teneva per la
Iugoslavia, e non per via del suo cinquanta per cento di sangue slavo, anche
perché l’Unione Sovietica gli era molto più vicina, ma perché gli piaceva il
nome. Iugoslavia… Adulto, si era accorto che gli iugoslavi giocavano bene per
davvero, e lo aveva addolorato che le partite dovessero interrompersi per così
tanto tempo, essendo il paese dilaniato da una guerra piena di interessi.
© 2014 Del Vecchio Editore