Giovedì sera, guardando la Roma su un canale slovacco trasmesso in streaming, ho visto una cosa decisamente preoccupante per le sorti della squadra per cui - da ex abitante della Capitale - simpatizzo ormai da qualche annetto. Non mi riferisco certo alla partita in sé e all'assurda eliminazione contro una squadra, lo Slovan Bratislava, tanto mediocre da risultare persino difficile da definire; ché, per quanto successo nelle due partite, il copione della doppia sfida sembrava ricalcare quello di una tragedia greca, con un destino deciso cioè da dèi distanti e lontani dagli uomini, sordi a ogni loro lamento e ciechi davanti alle loro opere, cui non sono interessati e che non premiano né puniscono. La Roma ha perduto dunque perché doveva perdere, perché il filo si era esaurito; questo è quanto deciso in ambienti molto altolocati, ove non ha alcuna influenza la commovente passione estiva di un Olimpico piuttosto pieno: lassù, infatti, non hanno ancora avuto accesso le idee rivoluzionarie di un profeta persiano (il quale sostiene che gli uomini verranno ricompensati per le loro buone azioni), perciò la Roma di giovedì è ancora e sempre un'ombra discesa nell'Ade senza sorpresa e senza proteste.
Allo stesso modo, non mi ha colpito la clamorosa imprecisione di Bojan Krkić, perché tutto fa parte del piano; né mi hanno stupito l'immaturità a certi livelli di Viviani o la sorridente sicurezza di Caprari, due facce della stessa medaglia chiamata gioventù.
E non mi ha sorpreso la decisione dell'allenatore di schierare Totti, perché i suoi piedi a Roma e in Italia non ce li ha nessuno, né quella di toglierlo per dare spazio alla potenza di Okaka (che infatti ha regalato a Bojan, semplicemente appoggiando il suo fisico su un difensore slovacco, un bellissimo pallone da sprecare), perché nel secondo tempo si leggeva nell'immobilità del capitano l'età e la mancanza di tenuta.
Però ho notato con sgomento, e mi hanno fatto paura, i pantaloni bianchi leggeri indossati da Luis Enrique, e le scarpe senza calzini: una mise vacanziera, da uomo tranquillo e perfino distratto, da uno che ha in testa pochi pensieri. E non va bene, caro Luis: non va bene perché non sarà un uomo coi pantaloni bianchi a resistere a quell'onda di "Te l'avevo detto io...", "Ma tanto adesso pigliamo...", "Non ha il polso della squadra...", che scorre da sempre nelle cloache della città di Roma e che torna in superficie a ogni passo falso, a ogni sostituzione eccellente, a ogni bivio nel destino della squadra giallorossa, propagandosi nei bar, nei giornali, nelle radio. Quest'onda ha sempre ragione perché sceglie da sé i termini della questione, pone le domande e si fa le risposte, decide i dogmi e vi si nasconde dietro, e chiama col glorioso nome del cinismo romanesco la vigliaccheria di chi alza la testa e affonda il colpo solo quando è trionfante. Caro Luis, hai idee buone, seppure un po' confuse, ma non è con i calzoni bianchi che le porterai avanti, perché allenare la Roma non è stare semiaddormentati sotto l'ombrellone, in attesa solo della fetta di cocco che senti annunciare all'orizzonte; allenare la Roma, caro Luis, è più una materia da scarponi pesanti e pantaloni anti-vipera, perché si va per sentieri ripidi e sassosi in cerca di rare radure.
Buona camminata, Luis, e cambiati i pantaloni.
E non mi ha sorpreso la decisione dell'allenatore di schierare Totti, perché i suoi piedi a Roma e in Italia non ce li ha nessuno, né quella di toglierlo per dare spazio alla potenza di Okaka (che infatti ha regalato a Bojan, semplicemente appoggiando il suo fisico su un difensore slovacco, un bellissimo pallone da sprecare), perché nel secondo tempo si leggeva nell'immobilità del capitano l'età e la mancanza di tenuta.
Però ho notato con sgomento, e mi hanno fatto paura, i pantaloni bianchi leggeri indossati da Luis Enrique, e le scarpe senza calzini: una mise vacanziera, da uomo tranquillo e perfino distratto, da uno che ha in testa pochi pensieri. E non va bene, caro Luis: non va bene perché non sarà un uomo coi pantaloni bianchi a resistere a quell'onda di "Te l'avevo detto io...", "Ma tanto adesso pigliamo...", "Non ha il polso della squadra...", che scorre da sempre nelle cloache della città di Roma e che torna in superficie a ogni passo falso, a ogni sostituzione eccellente, a ogni bivio nel destino della squadra giallorossa, propagandosi nei bar, nei giornali, nelle radio. Quest'onda ha sempre ragione perché sceglie da sé i termini della questione, pone le domande e si fa le risposte, decide i dogmi e vi si nasconde dietro, e chiama col glorioso nome del cinismo romanesco la vigliaccheria di chi alza la testa e affonda il colpo solo quando è trionfante. Caro Luis, hai idee buone, seppure un po' confuse, ma non è con i calzoni bianchi che le porterai avanti, perché allenare la Roma non è stare semiaddormentati sotto l'ombrellone, in attesa solo della fetta di cocco che senti annunciare all'orizzonte; allenare la Roma, caro Luis, è più una materia da scarponi pesanti e pantaloni anti-vipera, perché si va per sentieri ripidi e sassosi in cerca di rare radure.
Buona camminata, Luis, e cambiati i pantaloni.