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lunedì 21 maggio 2012

La Città del Sole




Sorge nell'alta campagna un colle, sopra il quale sta la maggior parte della città; ma arrivano i suoi giri molto spazio fuor delle radici del monte (…) dentro vi sono tutte l'arti, e l'inventori loro, e li diversi modi, come s'usano in diverse regioni del mondo...

Tommaso Campanella, La città del Sole, 1602



Zemanlandia torna in serie A: il profeta anabattista boemo dopo sette anni di esilio torna a fondare una nuova Città del Sole sulle rive del mare Adriatico; a sette più sette anni di distanza dalla tiepida notte romana di mezza estate in cui la sacra inquisizione pallonara, rispondendo al sacerdote boemo che durante l’officio di un orgiastico rito di festa pronunciò il coraggioso monito “il calcio deve uscire dalle farmacie”, emanò la bolla papale Licet ab initio, con la quale ufficializzò la caccia spietata all’eretico. Così da Roma giunse l’investitura a chiunque facesse parte delle istituzioni del pallone e a sua imperitura gloria votava il proprio impegno di non avere pietà del monaco guerriero di Praga.

“Diamo ad essi il potere di ricercare coloro che si allontanano dalla via di Dio e dalla vera fede cattolica, o la praticano in modo sbagliato, o siano in un modo qualunque sospetti di eresia, e contro i seguaci, i fiancheggiatori, e difensori, e contro chi presta loro aiuto, consiglio, favori, sia apertamente che di nascosto, a qualunque stato, grado, ordine, condizione e rango appartenga” scrisse il sommo pontefice Luciano III con il sangue dei primi resistenti; catturati in quella tragica notte di sangue e di fuoco, in cui le fiamme delle stalle bruciate dall’inquisizione salirono nel cielo formando in quel lembo di terra che dal nord dell’Europa - che stava forgiando la sua prima moneta unica in nome del dio unico - attraversava il mediterraneo e puntava diretto verso l’Africa, un curioso geroglifico di provenienza sconosciuta.


Un simbolo che da lì a pochi secoli avrebbe marchiato a fuoco l’intero continente e facendosi carne e sangue sarebbe diventato la costituente materiale e spirituale della sua fondazione. Per chi, in viaggio insieme alla Luna con Urano verso il Leone, quella notte d’estate avesse avuto la ventura di volgere lo sguardo in basso verso il globo terracqueo e focalizzarsi su quella penisola dalla curiosa forma di stivale, l’emblema di una croce uncinata sarebbe stato il sacro simbolo che i fuochi dell’inquisizione stavano disegnando su quel lembo di terra emersa. La svastika si apprestava a marchiare a fuoco l’intera mandria dell’homo europeus nei secoli dei secoli e il calcio italico per gli anni a venire. Da quella sera di agosto l’anabattista boemo e i suoi discepoli furono inseguiti, catturati, torturati e dannati alle pene dell’inferno in terra della sacra inquisizione pallonara.

“L’accusato o il sospetto d’eresia, contro il quale sia sorto un sospetto grave e veemente riguardo a questo crimine, se nel processo ha abiurato l’eresia, ma successivamente ricade nella stessa, deve essere giudicato come recidivo (...) anche se prima della sua abiura il crimine d’eresia non sia stato pienamente provato contro di lui. Se invece questo sospetto è stato lieve e modesto, sebbene per questa ricaduta debba essere punito più gravemente, tuttavia non gli deve essere inflitta la pena che si applica ai recidivi nell’eresia...”


Il sommo sacerdote anabattista boemo fu espulso, scacciato; esiliato al confino. Il suo verbo fatto di terzini che spingono, fuorigioco sulla linea del centrocampo, triangoli laterali sovrapposti, incursioni e rientri fu proibito; i testi dell’eresia bruciati nelle piazze; la parola sacra 4-3-3 bandita nel linguaggio ufficiale e taciuta anche nelle conversazioni da osteria. Tolta la farina ai mugnai sospetti di credere che un altro calcio fosse possibile; espropriati i campi ai contadini colpevoli di lottare per il paradiso in terra senza dover aspettare la salvifica morte che avrebbe premiato altrove una vita di stenti terreni; arsi vivi sul rogo i bambini che, con una pallone sferico costruito con viscere di maiale, correvano felici prendendolo a calci cercando di segnare un gol in più degli avversari, invece che proteggere il dogma mariano della verginità della propria porta erigendo una barriera a difesa dell’imene e rinunciando al gioco.

Ma sulle montagne, riparati nei boschi e nascosti nelle grotte, organizzati dal basso e disorganizzati nel cuore, fedeli alla linea e infedeli al precetto, oltre il ponte, un manipolo di ribelli ripeteva a memoria la litania eretica perché la parola non fosse dimenticata e il fuoco del verbo del maestro fosse più potente del rogo fatuo della croce uncinata monetaria e monoteista. Nell’orgia e nell’ambrosia, nell’oppio e nello studio, nell’allucinazione e nella preghiera, il desiderio immanente che solo poteva percepire l’energia multipla della sfera perfetta e del rettangolo verde, resisteva alle persecuzioni e alle devastazioni.


La vita sopravviveva alla morte, l’eterno presente sopravanzava il futuro e prevedeva il passato: dopo tredici anni, come tredici sono le lune che segnano la stagione dei campi e del pascolo, la transumanza ebbe fine; e l’anabattista boemo, a suo agio nascosto tra orde dei disperati, dal mare Adriatico tornò a bordo di una scialuppa sul litorale della penisola. E proprio nei giorni in cui nella terra d’Abruzzo muratori che aborrono la squadra ed il compasso cominciano a costruire le inesistenti mura che mai circonderanno la Città del Sole, nella penisola l’inquisizione mai domata si rimette al lavoro con le armi che le sono proprie: il terrore e i tribunali. Esplosioni nelle strade, fuochi fatui di morte e terrore, portano alla ribalta il finto profeta dell’effimera protesta, il sacerdote totalitario dell’obbedienza e del millenarismo tecnocratico che nel giudizio del tribunale assoluto vede il giorno del giudizio che libera l’umanità dai peccati e redime la politica dall’imperfezione umana.

Un’escatologia totalitaria che agogna nell’apocalisse la redenzione di un’umanità futura eletta e superiore che, igienizzata dal desiderio e dal peccato, in un futuro anteriore orwelliano, attraverso la digitazione del sordido click sulla macchina perfetta, deciderà dell’unica libertà possibile e disponibile; la piazza, sobillata da questo oscuro profeta della restaurazione, corre nelle urne a denudarsi, per scoprire poi sulla propria pelle il marchio infame della croce uncinata; fuoco sacro, eugenetica, caccia all’inferiore e al diverso, selezione della specie, tecnocrazia concentrazionista tornano le parole d’ordine del tribunale supremo dell’inquisizione. Chissà se la risata silenziosa dell’anabattista boemo riuscirà a seppellire anche l’angelo dell’apocalisse...

lunedì 21 novembre 2011

Zdenek Zeman: il gusto della questione

Come in una schermaglia amorosa, qualche volta mi capita di non vedere deliberatamente una partita sia pure importante, non so se per istinto polemico o perché necessito di una distrazione. In una di queste forche del mercoledì sera, mi è capitato, tempo fa, di imbattermi nell’intervista di un cuoco fiorentino dalle note simpatie politiche e dalla folta barba bianca. Disse questo cuoco che rivendicava per sè il carattere “alchemico” della cucina. Subito dopo pronunciò una frase che suonava più o meno così: “io non sono un cuoco che sovrappone, io sono un cuoco che cucina”.
Per farsi un’idea della distinzione tra cuochi che sovrappongono e cuochi che cucinano non è necessario un tour gastronomico; basta guardare i menu dei ristoranti più rinomati d’Italia, quasi tutti reperibili on-line. Accidentalmente, ci si può anche convincere dell’esistenza di un peculiarissimo genere letterario, ma qui credo che interessi più l’aspetto culinario, cioè l’aspetto calcistico, il gusto della questione.
Proprio ripensando a questa vecchia intervista, mentre guardavo i due documentari su Zdenek Zeman, corredati da libro (G. Sansonna, Il ritorno di Zeman, Minimum Fax, 2011), ho capito cos’è che mi lega profondamente, e veramente, all’allenatore boemo.
Di certo, non si tratta dell’aura da Don Chisciotte che certi media in pessima fede gli hanno voluto spandere attorno. Anche se talvolta cade nell’agiografia, il documentarista è acuto nel mostrare perfino il fastidio che Zeman prova quando gli chiedono un’opinione sull’ennesima sconcezza.
A parte le deformazioni che il personaggio è costretto a subire, per lungo tempo ho pensato che il fascino di Zeman fosse basato sulla luminosità dei luoghi in cui allena. Zeman lavora in genere in posti caldi, meglio se in riva al mare, dove la sua ermeticità contrasta con il clamore delle cadenze meridionali. E Roma, per quanto mi riguarda, è una città di mare, lo provano i gabbiani che volano sul Portico di Ottavia.
In realtà, come emerge dai documentari, Zeman è soprattutto una persona conviviale, che ama starsene in fondo al pullman della squadra a giocare a carte coi collaboratori. Per inciso, mi sono ormai convinto che requisito fondamentale per un allenatore sia, oltre alle sigarette, il fatto di destreggiarsi nello scopone scientifico o affini. Ma meridionalità d’adozione, simpatia, ironico confrontarsi con le superstizioni, il gusto per il gesto simbolico, non sono mai bastati a fornirmi una spiegazione adeguata.
Il punto è che Zeman è uno dei pochi allenatori che può rivendicare il carattere alchemico della sua professione. In lui questo aspetto emerge in massimo grado, anche perché gli elementi da cui parte sono quasi sempre misconosciuti e grezzi, mentre -per dire- Ancelotti partiva pur sempre da Pirlo. Il documentario mostra con intelligenza che il suo vero capolavoro non fu tanto il famoso primo anno di serie A con il Foggia di Signori, Rambaudi e Baiano (che comunque lui era riuscito a far diventare Signori, Rambaudi e Baiano), ma il secondo, in cui si presentò in attacco con Bresciani e Mandelli (Bresciani e Mandelli).
Nella sua magistrale esecuzione de “Il silenzio degli innocenti”, J. Demme utilizza come chiave per l’identificazione dell’assassino alcune riflessioni, affidate al diabolico A. Hopkins, sul legame profondo tra desiderio e trasformazione. Il fascino dell’allenatore alchemico, o dell’allenatore che cucina, sta proprio, almeno credo, nella proiezione che ciascuno di noi -fruitori- compie sul mutamento dei connotati tecnici dell’atleta. In questa attenuazione dell’individualità è possibile insinuarsi idealmente e abbandonarsi alla commovente illusione di poter non essere più quello che si è, rimuovere l’ingombro della propria monotonia e, per incanto, saper toccare bene la palla di esterno, capire l’attimo in cui lanciarsi nello spazio, calibrare il ritmo da impartire al fraseggio.
Non che non ci siano allenatori che sovrappongono di altissimo livello, Mourinho probabilmente su tutti, ma, spiace dirlo, rimane sempre la sensazione di un’accuratezza nel disporre ingredienti costosi, tipica delle squadre a tifo maggioritario, in cui quello che conta è la ristorazione dei tifosi, il compiacimento di essere seduti a quella tavola imbandita, la vittoria e non la cucina, appunto.
Invece, ciò che mi ha costretto a seguire con trepidazione le sorti del Lecce o dell’Avellino è la sempre latente possibilità che accada qualcosa, il principio di un mutamento in cui si nasconde anche un sottile pudore, perché in quel momento si è senza difesa, come in fondo ogni sua squadra.
Poi arriverà la mitica flessione di Gennaio, potrà pure perdere il Pescara partite scellerate o si fermerà a tre punti dalla promozione, sicuramente un giorno Sansovini e Insigne si dimenticheranno degli scaloni dell’Adriatico e delle ripetute di mille, ma una cosa per me è certa: se c’è un motivo calcistico per tornare a casa dopo essersene dette di tutti i colori, aspettando anche ore sull’uscio con una rosa, questo motivo esiste, ed è veder di nuovo giocare una squadra di Zeman.

giovedì 3 novembre 2011

Inglourious Glories, Ch. VIII, Borussia Verein für Leibesübungen 1900 Mönchengladbach

 

Lo sguardo assente oltre il finestrino. La mente timorosa ancora rivolta agli errori dal dischetto con Eintracht Francoforte e Bayern Monaco. Rigori maledetti e la pioggia che cade sulla strada verso la Baviera. Il contratto firmato proprio con il Bayern Monaco è solo un timido tepore a confronto degli urli a Giuda dei mesi precedenti.Lothar Matthaus ha la mascella tirata come sempre. Ventidue anni, i capelli mori spessi e l'ambizione in testa. Davanti la squadra più vincente di Germania. Alle spalle l'ennesimo titolo scivolato via per un soffio e la gloria dei puledri. Die Fohlen. Il Borussia Verein für Leibesübungen 1900 Mönchengladbach o, meglio, la più spavalda espressione calcistica di sempre. E la sua maledizione.
 
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Mönchengladbach è una città del distretto governativo di Dusseldorf, nella regione Nord Reno-Westfalia. A metà strada tra Düsseldorf e il confine olandese e la sua storia inizia con la costruzione dell'abbazia di Gladbach, voluta dall'arcivescovo di Colonia Gero nel X secolo d.C. La città ha dato i natali a Joseph Goebbels e Joseph Pilates ed ospita da sempre le forze britanniche in Germania. Il Borussia Mönchengladbach nacque nell'agosto del 1900 e già nel 1912 si qualificò per la finale della Verbandsliga, il campionato della Germania Occidentale (sconfitta per 0-1 con il Kölner BC, squadra antenata dell'attuale 1. FC Köln). 8 anni dopo, la rivincita ai danni dello stesso Kölner, di nuovo nella finale del campionato, e questa volta è il Borussia ad imporsi per 3-1 nei tempi supplementari, diventando campione della Verbandsliga e acquisendo, pertanto, il diritto ad accedere agli spareggi per il titolo nazionale. Il confronto con le altre compagini si rivelò tuttavia impari: eliminazione al primo incontro per la pesante sconfitta per 0-7 contro lo Spielvereinigung Fürth.

Seguirono tonfi in Bezirksklasse, l'attuale ottava categoria tedesca, e relative promozioni nella Gauliga. Poi la Seconda Guerra Mondiale e la riorganizzazione delle serie tedesche. Il Borussia dovette ripartire da una serie minore. Da lì, il club inanellò una serie di promozioni consecutive, culminata nel 1950 con il passaggio dalla Zweite Liga Ovest all'Oberliga Ovest. Al tempo, la massima divisione nazionale. Gli anni Cinquanta furono tuttavia tutt'altro che esaltanti. Il Borussia occupò stabilmente le zone medio-basse della classifica e retrocesse due volte: nel 1951 e nel 1957, anche se in entrambe le occasioni la permanenza in Zweite Liga durò solo una stagione. Negli anni Sessanta arrivarono i primi successi. La vittoria in finale di Coppa della Germania Occidentale contro il Colonia permise al Gladbach di accedere alle semifinali di Coppa di Germania (la DFB-Pokal). Il gol di capitan Alex Brulls, esperienze anche a Modena e Brescia dopo l'Oberliga, spianò la strada contro l'Amburgo catapultando il Borussia alla finale di Dusseldorf. Avversario il Karlsruhe. I bianconeri - il verde nelle maglie comparse solo a partire dagli anni Settanta - partirono bene: al 5' del primo tempo Brulls mise Mulhausen davanti alla porta avversaria per l'1 a 0. Il pareggio del KSC arrivò però subito, dopo appena un quarto d'ora, ad opera del centrocampista Hermann. Fu Ulrich Kohn a riportare gli uomini di mister Oles davanti. E i biancoblu del Baden-Wurttemberg trovano di nuovo l'equilibrio con Schwarz prima di spegnersi drammaticamente al gol, l'ennesimo della stagione, di Brulls. Il Borussia alzò così il suo primo trofeo, facendo capolino nel calcio tedesco che contava. Nel 1963 una nuova riorganizzazione del calcio tedesco diede vita alla Bundesliga, ma il Borussia non riuscì a qualificarsi per la serie maggiore e dovette ripartire dalla Regionalliga Ovest. ll mese di aprile del 1964 fu invece il punto di rottura nella storia del Gladbach. La dirigenza decise di sostituire Fritz Langner alla guida della squadra con un allenatore proveniente dal Viktoria Colonia, una delle società calcistiche più vecchie di Germania: Hennes Weisweiler.
 
Hennes Weisweiler
Con il primo posto nel girone e la vittoria dei successivi incontri di spareggio, nel 1965, Weisweiler trovò subito la prima storica promozione in Bundesliga. Nel frattempo, iniziò con passo leggero a predicare il suo credo ad una banda di sbarbati: attaccare, attaccare e attaccare. Un pensiero eretico in Germania, una religione pericolosa tra tanta tattica e difesa. I vari Gunter Netzer, Herbert Wimmer, Berti Vogts e Jupp Heynckes, però, in cerchio in mezzo al campo di allenamento, ascoltavano. E piano piano, iniziarono a mettere in pratica i preziosi insegnamenti. Nelle successive stagioni di Bundesliga il Borussia tenne un passo tranquillo. Salvezza comoda nella stagione '65/'66 ed ottavo posto l'anno successivo, che vide campione l'Eintracht Braunschweig. Il terzo posto del '68 - senza Heynckes, partito per un esperienza all'Hannover - alle spalle di Norimberga e Werder Brema, e la conferma agli stessi livelli l'anno dopo (con il Bayern campione e un Gerd Muller da 30 gol) furono il preludio ai futuri successi. Il 4-3-3 del Borussia aveva già iniziato ad atteggiarsi a macchina da gol: quelle stagioni videro gli uomini di Weisweiler stritolare parecchie squadre, tra cui lo Schalke (6 a 2) e l'odiato Koln (10 a 0). Sia Laumen che Meyer, i due attaccanti titolari, chiusero sempre in doppia cifra in classifica cannonieri.
 
Gunter Netzer
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Il balzo decisivo nella stagione '69/'70. Weisweiler puntella la difesa con gli innesti di Muller e Sieloff e dà fiato all'attaco con l'acquisto di Ulrick Le Fevre, venticinquenne nazionale danese proveniente dal Vejle. Già alla seconda giornata il Borussia cambia passo, ottenendo la prima vittoria della sua storia contro il Bayern di Monaco. E fino a dicembre una serie interminabile di successi. Dopo la sosta invernale, però, Netzer e compagni si complicano la vita perdendo per 3 volte di fila e, di fatto, riaprendo il campionato a vantaggio di Bayern, Hertha Berlino e Koln. A quel punto, al Borussia servono punti per tenere a distanza Gerd Muller. Le Fevre ci mette le marcature e in un lampo arrivano sette vittorie consecutive. Alla penultima, ospite è l'Amburgo, che ne incassa quattro nel primo tempo e ne restituisce solo tre nella ripresa. Il Borussia è così campione di Germania per la prima volta nella sua storia e la Bundesliga è costretta a spalancare gli occhi di fronte alle marcature strette di Vogts, Muller e Sieloff, alla classe di Netzer e Dietrich e alle tre punte sempre. I ragazzi di Weisweiler diventano per tutti Die Folhen. I Puledri. L'anno dopo Weisweiler è chiamato a confermarsi in Bundesliga e a presentarsi in Coppa dei Campioni. Per farlo, richiama alla base il giovane ormai cresciuto Jupp Heynckes. Le cose vanno bene in campionato: pur a fatica il Borussia riesce a vincere la resistenza del Bayern e a laurearsi nuovamente campione. Tutt'altro discorso la Coppa dei Campioni, dove il Borussia cade agli Ottavi per mano dell'Everton. Poco male: quell'anno in Coppa non ci sarebbe stata storia. Un olandese aveva deciso di cambiare il calcio e tanto valeva farsi da parte.
 
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L'eliminazione contro gli inglesi venne drammaticamente replicata nel '72. Dopo un agevole esordio contro gli Hibernians di Cork, il Gladbach affrontò agli Ottavi l'Internazionale di Oriali, Burgnich e Facchetti. L'andata si giocò al Bökelbergstadion e dopo venti minuti l'Inter era già sotto 2 a 1 grazie alle marcature di Heynckes e Le Fevre. Poi una lattina venne lanciata dagli spalti e Boninsegna cadde a terra alla bandierina del calcio d'angolo. Urla e spintoni e Mazzola a consegnare un'altra - diversa - lattina all'arbitro. Boninsegna, perfettamente ripresosi, venne inspigabilmente sostituito e la partita continuò. E continuarono a segnare i ragazzi di Weisweiler. Fini 7 a 1 ma l'Inter non ci stette: facendo leva sull'identità del tifoso che lanciò la lattina e afferrando il concetto di responsabilità oggettiva, ottenne la ripetizione dell'incontro, in campo neutro. Al ritorno si imposero i nerazzurri per 4 a 2 e, un mese più tardi, a Berlino, con le barricate e le parate di Bordon gli uomini di Invernizzi bloccarono il Borussia sullo 0 a 0, guadagnandosi così l'accesso ai Quarti. A frastornare l'Inter e vendicare il Borussia ci pensarono poi Cruyff e compagni.
 
La partita della lattina
Quell'anno, neanche il campionato sorrise ai Puledri, che chiusero terzi alle spalle di Bayern Monaco (Muller si fermò solamente una volta a quota 40 in 34 gare) e Schalke 04. A fine stagione partì Le Fevre e per dare continuità al ciclo Weisweiler fu costretto a portare qualcosa in bacheca. Acquistò Allan Simonsen e scelse la strada più impervia: la Coppa Uefa, lasciando perdere la Bundes. Il Borussia passò agevolmente Trentaduesimi e Sedicesimi contro, rispettivamente, Aberdden e Hvidore per poi imporsi nel doppio derby agli Ottavi e ai Quarti contro l'odiato Koln ed il Kaiserslautern. In Semifinale i Puledri sommersero di gol anche il Twente apprendista del calcio totale. Ma qualsiasi sogno di gloria si infranse su un tempio chiamato Anfield e sui gol in Finale di Kevin Keegan. Troppo lontano il Liverpool nella gara di andata e insufficiente la doppietta di Heynckes al ritorno. L'Europa iniziò così a diventare un problema. Il Borussia segnava tanto, ma si scioglieva, complice l'inesperienza, di fronte agli ostacoli decisivi. La stagione venne salvata dalla vittoria in Coppa di Germania. Contro il Colonia e grazie ad un gol di Gunter Netzer: scambio con Bonhof ai quaranta metri e tiro secco dal limite dell'area. Fu il saluto del fuoriclasse ai suoi tifosi. L'ultima volta da capitano prima del Real Madrid.

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Orfano del suo giocatore di maggior prestigio il Gladbach visse un'altra stagione insapore, con la Bundes sfuggita per un soffio nonostante i 30 centri di Heynckes e la Coppa delle Coppe amara per l'eliminazione contro il Milan di Trapattoni (poi battuto in Finale dal Magdeburgo). Hennes Weisweiler meditava di mollare. Il suo calcio spumeggiante portava applausi ma pochi titoli. Volle però concedersi un'ultima chance, un'altra volta in Coppa Uefa. Nonostante i nastri di partenza della Coppa '74/'75 fossero infarciti di squadre di altissimo livello, i Trentaduesimi ed i Sedicesimi non si rivelarono un problema per i Puledri, che abbatterono sia l'FC Waker Innsbruck che l'Olympique Lyonnais. Gli Ottavi presentarono poi il Real Saragozza, una buona squadra che tuttavia non fu all'altezza delle bocche da fuoco tedesche. Heynckes e Simonsen avevano già caldi i motori: al Rheinstadion di Dusseldorf (il Borussia Mönchengladbach a partire dai primi Settanta dovette abbandonare il Bokelbergnstadion per ragioni di capienza) finì 5 a 0 e in Aragona 4 a 2. Poco da aggiungere. Sempre Heynckes fu decisivo per la vittoria all'andata dei Quarti contro i cecoslovacchi del Banik Ostrava e al ritorno in Germania. Il Borussia era di nuovo in Semifinale e per l'ennesima volta incontrava i rivali di sempre: il Koln. Ci pensarono Allan Simonsen e Dietmar Danner, arrivato qualche anno prima dal Manheim, a regalare la Finale ai bianconeroverdi. Ancora una volta, contro il Twente apprendista, fresco giustiziere di Amburgo e Juventus. All'andata, in casa, il Borussia pagò l'emozione. Gli olandesi di Kohn giocarono attenti e imposero lo 0 a 0, rinviando ogni decisione alla gara di ritorno tra le mura amiche. In un tardo pomeriggio di fine maggio, a Enschede, la decisione sulla Coppa Uefa stagione '74/'75 venne presa da Jupp Heynckes. Che già al 10' replicò la rete in apertura di Simonsen e ad inizio ripresa devastò per altre due volte le distanze tra i centrali del Twente. Il gol in chiusura sempre di Simonsen fissò il risultato sullo 0 a 5. Weisweiler in panchina rideva nascosto dietro i larghi occhiali a goccia. Vogts alzava al cielo la maledizione sconfitta. La bellezza aveva rovesciato il mondo. A suon di gol. Quella stagione i Puledri si imposero anche in Bundesliga e Weisweiler annunciò il suo passaggio al Barcellona.
 
Allan Simonsen
 
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L'addio di Weisweiler portò la dirigenza a scegliere Udo Lattek, nato a Bosemb e già campione d'Europa sulla panchina del Bayern Monaco. L'allenatore che aveva rotto l'incantesimo di Rinus Michels stravolse le logiche tattiche del Borussia, imponendo il credo dell'attenzione in difesa e della disciplina. I risultati in Bundesliga arrivarono subito sia nel '76 che nel '77. Amare furono invece le partecipazioni alla Coppa dei Campioni. La rabbia segnò la doppia sfida ai Quarti del Settantasei contro il Real Madrid (due errori dell'arbitro Van Der Kroft spinsero avanti le merengues) mentre nel Settantasette in Finale il Liverpool si rilevò di nuovo troppo lontano. Il Gladbach non riuscì a ricordare il sogno di qualche anno prima. Al di fuori di ogni possibilita e naturalezza non ne ricordò i lineamenti e la semplice vicenda. La ragione lo aveva abbandonato. Tenendo lontane scaltrezza e astuzia. Non riuscì ad ingannare il nemico del sogno di qualche notte prima. Perdendo, per i gol di McDermott, Smith e Neal. Di nuovo la maledizione europea, di nuovo le mosche in mano. Lattek aveva consolidato il dominio in Germania ma non era stato capace di correggere i residui di timidezza del Gladbach nelle competizioni internazionali. E anche la stagione '78/'79 non portò vittorie, se non il Pallone d'Oro ad Allan Simonsen. All'uomo della Prussia dell'Est serviva un'affermazione di peso perché si il Borussia era squadra cambiata nei suoi elementi portanti ma assolutamente competitiva e ciò imponeva di chiudere il decennio con una vittoria continentale.

Udo Lattek
L'occasione propizia arriva con la Coppa Uefa '78/'79. Per l'occasione, il Borussia torna alla religione che sempre aveva predicato: attaccare. Già ai Trendaduesimi il malcapitato Sturm Graz ne incassa 7 mentre ai Sedicesimi il Benfica regge solo all'andata, cadendo invece in Germania (Bruns e Klinkhammer). L'avversario agli Ottavi è lo Śląsk Breslavia, incapace di affrontare l'urto dell'attacco tedesco. E di quell'urto ne sanno qualcosa anche il Manchester City e il Duisburg, i successivi avversari. Avere di fronte i Puledri è come essere in testa alla valanga. Una forte botta e la totale perdita dell'orientamento. Il Gladbach vola in Finale, dove lo aspetta un'insolita Stella Rossa di Belgrado. Nessun nome famoso ma un cammino fino a quel giorno importante. Ancora una volta, l'ennesima, però, gli uomini del Land scendono in campo a Belgrado straniti da una solita paura e prendono gol. Il Borussia non riesce ad essere micidiale come sa. E' bloccato e solo un autogol del difensore avversario Jurisic rimette in careggiata i bianconeroverdi. Finisce 1 a 1 e la sfida si sposta a Dusseldorf. Udo Lattek, la fronte ampia e i capelli già cenere, è in camicia a quadri e cappotto di panno rincalzato alle maniche. I Puledri sono eleganti in maglia bianca con sottili striscie neroverdi sulle maniche. Come all'andata, però, i ruoli si invertono. La Stella Rossa attacca a testa bassa e il Borussia è chiuso in difesa. A decidere è l'arbitro italiano Michelotti, che a metà del primo tempo assegna un rigore ai tedeschi. Simonsen è sicuro dal dischetto e calcia per il vantaggio. I rossi accusano il colpo e il Borussia può gestire la gara in tutta tranquillità. Per la seconda volta è campione d'Europa. Per la seconda volta Vogts alza al cielo Coppa e spettri. Chiudendo un racconto di dieci anni. La bellezza è all'apice un attimo prima di spegnersi. L'ultimo respiro prima del sonno.
 
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Lothar Matthaus doveva essere la stella del Borussia Mönchengladbach dopo la bellezza. L'anima per cui i cuori sugli spalti continuavano a battere. Voltò le spalle alla religione di Weisweiler e alle tattiche di Lattek. Voltò le spalle alle favole per sposare certezze. Il suo rigore sbagliato contro l'Eintracht si rivelò un baratro. Quello contro il Bayern in finale di Coppa di Germania un vile tradimento. Il Borussia non vincerà più, preferendo lottare contro i demoni della retrocessione. Lui invece vincerà tanto, pur rimanendo marchiato. Vincerà tutto, giocando libero con il 10. Costringerà Gary Lineker, nell'estate del 1990, a dichiarare che il calcio "è un gioco semplice in cui 22 uomini inseguono un pallone per novanta minuti e, alla fine, vincono sempre i tedeschi". Ma non vincerà la sorte, che non volle affrontare e battere in maglia bianconeroverde. Che in una sporca notte a Barcellona lo privò dell'ultimo trofeo per completare un'infinita collezione. Togliendogli tutto. E maledicendolo.