Visualizzazione post con etichetta Andrea Masiello. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Andrea Masiello. Mostra tutti i post

giovedì 3 ottobre 2013

Breve resoconto sulla tragedia dell'AS Bari stagione 2010-2011

 
 
Prologo

Il 29 agosto 2010 era una domenica pomeriggio di fine estate. In quel periodo dell’anno fa ancora molto caldo e quelli, forse, sono i giorni migliori per andare a mare. Meno gente e meno confusione. Ma quel pomeriggio del mare non me ne fregava niente. Poche ore dopo sarebbe cominciato il campionato di Serie A e il Bari avrebbe fatto il suo esordio casalingo contro la Juventus.
Me ne stavo seduto a fumare fuori casa mia aspettando che mio padre mi passasse a prendere. Eravamo abbonati all’AS Bari, in tribuna est, ininterrottamente dal 1990 e quella era la nostra ventesima stagione. Una stagione che si prospettava particolare per mille motivi, vuoi perché l’anno prima il Bari aveva disputato il miglior campionato di Serie A che io ricordi, finendo con 51 punti - e tanti complimenti- al decimo posto, vuoi perché la primavera precedente si era portata via mia madre ma mi aveva anche regalato la mia prima figlia.
Lo strepitoso campionato precedente aveva creato in città un’attesa spasmodica, con folle giubilanti a salutare i calciatori e Mr. Ventura (ormai per tutti Mr. Libidine) di ritorno in città dopo il ritiro in montagna. E poi la campagna acquisti non era stata nemmeno malvagia, abituati, come sempre eravamo, a vedere partire i nostri calciatori migliori dopo la prima stagione buona. Il nuovo Direttore sportivo Guido Angelozzi aveva riconfermato parecchi big dell’anno prima tra cui Barreto e Almiron; avevamo smantellato solo - per modo di dire - la difesa, cedendo Ranocchia e Bonucci. Ma avevamo fiducia nel Mister: lui avrebbe saputo come fare. E poi tutti, giornalisti compresi, erano convinti che eravamo una buona squadra e avremmo dato del filo da torcere.
La follia collettiva che stavamo vivendo era cominciata un anno prima quando guidati dal tandem d’attacco Sforzini-Kutuzov pareggiammo 1-1 a San Siro contro l’Inter scudettata, dimostrando, contrariamente a tutti i pronostici, che non saremmo retrocessi a febbraio.
Quel 29 agosto arrivammo allo stadio in anticipo di almeno un paio d’ore. Quando c’è la Juventus, con tanto di pienone allo stadio, la situazione in tangenziale o ai tornelli è ingestibile e il concetto di fila viene spesso superato dalla logica schizofrenica dell’assembramento. Conviene arrivare in largo anticipo; nel frattempo ti siedi al tuo posto e ti godi, guardando l’orologio ogni cinque minuti, lo spettacolo, facendo due chiacchiere con i vicini di posto, che anno dopo anno sono sempre gli stessi, magari giusto qualche anziano in meno.
Comincia la partita. La Juventus si presentava con Gigi Del Neri in panchina e il neo-arrivato Krasic, subito in campo. Giochiamo da dio. Almiron corre, ringhia sugli avversari e apre il gioco con lanci di 40 metri. Le ali del famigerato 4-2-4 di Ventura graffiano e davanti Barreto e Kutuzov impostano il loro balletto di finte e uno-due. L’infortunio di Gazzi sembra la manna piovuta dal cielo. Il suo sostituto Donati, infatti, poco prima dell’intervallo s’inventa la prodezza che decide la partita. Alvarez scende sulla destra, converge verso il centro, tocca per Donati che qualche passo fuori l’area di rigore difende palla sul pressing di Marchisio e poi lascia partire un sinistro violento che sbatte sul palo e termina in rete.

Il tiro appena scoccato dal sinistro di Donati
Tutti quanti, durante la felicità di quegli attimi, credemmo fosse l’inizio di qualcosa di meraviglioso.
Era, invece, il tragico canto del cigno. La fine dell’AS Bari è cominciata proprio allora.
Se fosse venuto qualcuno a dirmi che qualche anno dopo il San Nicola sarebbe stato un mausoleo di cemento, popolato solo da cartacce e qualche pensionato che non si è ancora reso conto, come i giapponesi nella jungla, che la guerra è finita, l’avrei preso per pazzo. Invece è andata proprio così.

Parodo

Riavvolgere il nastro dei ricordi è triste. Il dolore prima o poi passa. La tristezza rimane.
Per la verità, dopo quell’esordio pazzesco la favola continuò ancora un po’. La giornata successiva eravamo di scena al San Paolo contro il Napoli. Ci presentammo spavaldi come al solito. La caratteristica di quel Bari che più ci faceva impazzire era la voglia di imporre il nostro gioco dovunque andassimo; noi provinciali che per destino siamo costretti a difenderci e provare ogni tanto qualche ripartenza. Al 90’, sotto 2-1, pareggiamo andando in porta con quattro tocchi di prima. Le telecamere inquadrano Giampiero Ventura che si lascia andare ad un urlo sinistro: “Questo è calcio”.
Alla sesta giornata abbiamo 8 punti e siamo nella parte sinistra della classifica. Giochiamo a Marassi contro il Genoa. I rossoblu conducono 1-0 ma pareggiamo su rigore e contestuale espulsione di uno dei loro. Si aprono praterie per i nostri attacchi. Siamo veloci e siamo ancora forti. Arriviamo diverse volte uno contro uno con il portiere. Perdiamo a tempo scaduto con un colpo di testa di Toni in mischia su calcio d’angolo. Avessimo vinto saremmo andati al quarto posto in classifica. A fine partita accadono degli strani litigi nello spogliatoio. L’allenatore pare si scagliò contro qualche giocatore rimproverandolo di brutto. Li derubricammo ad incidenti di percorso; erano invece i sinistri scricchiolii che annunciavano l’imminente disastro.
La piega che presero gli eventi da quella giornata in poi è il classico deja vù delle stagioni finite male. Ne ho viste tante, forse troppe. Quando ero più piccolo, nonostante avessimo infiniti punti dall’ultima posizione utile, passavo pomeriggi interi a studiare la classifica e gli incontri, convinto che, se si fossero avverati certi risultati, avremmo potuto recuperare evitando la retrocessione. Più tardi ho capito che la possibilità statistica che si verifichino certi risultati dipende da come gioca la squadra. Se gioca male non c’è probabilità che tenga. E quando si gioca male capita sempre, chissà perché, che si sbaglino i rigori decisivi, si verifichino infortuni a catena, lo spogliatoio si disunisca, l’ambiente si deprima, i tifosi si incazzino e minaccino i giocatori. Insomma tutto quello che capita in una stagione finita male.
Nel nostro caso andammo anche oltre. Dopo la sconfitta a Marassi ne collezionammo altre cinque in sei partite cominciando la lunga marcia a ritroso verso il fondo della classifica. Il fatto che a novembre schierassimo in Serie A giocatori praticamente disoccupati o fuori rosa (gente, con tutto il rispetto, come Gianluca Galasso e Nicola Strabelli), richiamati frettolosamente per supplire ad una campagna acquisti al risparmio - quella stessa che avevamo erroneamente giudicato dignitosa - fu la cosa meno grave. Peggiore fu il comportamento dello staff sanitario che, con la stessa faciloneria di un Alberto Sordi nel medico della mutua, combinò disastri in serie, contribuendo a mettere fuori uso un numero enorme di giocatori. Quell’esercito raffazzonato, nonostante tutto, seguiva ancora il proprio allenatore, impegnandosi allo stremo e giocando dignitosamente. Ovviamente veniva regolarmente battuto da un gol in fuorigioco o da una cagata della difesa a pochi minuti dalla fine.
Arrivammo a dicembre ormai alla canna del gas. L’estrema speranza era rivolta alla campagna acquisti di gennaio che dal presidente fino all’ultimo degli uscieri era stata sbandierata come la scossa che ci avrebbe fatto svoltare in campionato. Ma nel frattempo stava accadendo qualcosa di strano.
Almiron, uomo simbolo di quella squadra, era praticamente scomparso. Non si allenava o lo faceva poco e male. In campo sembrava un fantasma. Era infortunato? Malato? Depresso? Che cosa gli stava succedendo? Come lui molti altri, infortunati lungodegenti, si erano allontanati dalla città con la scusa di curarsi fuori. Furono tutti bollati come vigliacchi e traditori. Oggi forse dovremmo, carta stampata in testa, comprare delle pagine per chiedergli scusa, perché avevano semplicemente deciso di allontanarsi dal mostro che nel frattempo si era mangiato tutto lo spogliatoio.

Come i cani randagi che di notte si avvicinano alla città deserta per rovistare intorno ai cassonetti alla ricerca di qualche avanzo, così quella squadra si trovò circondata da un’accolita di scommettitori, faccendieri, criminali e perfino sedicenti tifosi che nel clima di sfiducia generale, di mancanza di controllo da parte di chi vi era preposto e con la complicità di qualche elemento all’interno dello spogliatoio, si avventò sulla squadra per divorarne ciò che restava. Cominciò così la serie di partite aggiustate, quasi sempre a nostro danno, grazie alle quali questi personaggi ricavavano pacchi di soldi facili. Un vortice di denaro mostruoso del quale beneficiarono tutti con leggerezza o forse strafottenza.
Negli anni successivi le inchieste della giustizia sportiva e di quella ordinaria hanno provato a descrivere quello che accadde in quei frangenti. Col senno di poi resta in bocca la sensazione schifosa per quello che è accaduto e l’impressione che non tutto è stato svelato, non tutti i colpevoli sono stati puniti e non tutti alla stessa maniera. Ci hanno detto che le partite del Bari combinate erano solo alcune, per lo più alla fine di una stagione ormai compromessa. Ma a noi tifosi nessuno ci toglierà mai il dubbio che le partite siano state molte di più, a partire da quella strana sconfitta contro il Genoa, per finire ad alcuni inspiegabili tracolli maturati nel finale di campionato della stagione precedente.
L’ultima piccola gioia di quella sciagurata stagione fu la vittoria nel derby di Lecce nel giorno dell’epifania, livido e freddo come l’anno che ci apprestavamo a trascorrere. Infatti la felicità per quella vittoria fu subito spenta la giornata successiva dalla sconfitta casalinga contro il Bologna nell’ultima partita del girone d’andata. Il nostro destino era segnato e a poco valse la truppa di calciatori che furono acquistati durante la finestra del mercato di riparazione. Nessuno lasciò un segno particolare, anzi i loro pesanti stipendi avrebbero compromesso anche gli anni a venire.
Il 6 febbraio eravamo di scena a Brescia per quella che gli inguaribili ottimisti giudicarono l’ultima spiaggia. Perdemmo 2-0 una partita abulica e giocata male. Ci ritrovammo ultimi con la miseria di 14 punti, staccati di nove lunghezze dalla quart’ultima.
La meravigliosa avventura di Giampiero Ventura era giunta al capolinea. Ironia della sorte, qualche giorno prima era stato sfiduciato sui giornali da Andrea Masiello in persona. La sera in cui giunse la notizia del suo esonero, mentre varcava la soglia del ristorante in cui era solito cenare, la gente si alzò in piedi ad applaudirlo. Lui pianse. Quel signore genovese abbronzato e affabulatore resterà per sempre uno degli artefici delle ultime imprese del Bari. Lui in fondo ci ha voluto bene. Noi, invece, prima lo abbiamo tradito e poi lo abbiamo buttato via come si fa con un paio di scarpe vecchie. 

Giampiero Ventura, alias Mister Libidine
(Dopo quel Brescia-Bari decisi che il mio campionato sarebbe finito là. Non aveva nessun senso continuare a torturarsi allo stadio né tanto meno davanti alla TV. Quella è stata la prima tappa del processo di allontanamento forse irreversibile dalla mia squadra del cuore. Non molto tempo fa facevo degli incubi durante i quali temevo di non conoscere il risultato delle partite del Bari. L’anno scorso è capitato che abbia appreso non solo il risultato ma anche il fatto stesso che il Bari avesse disputato una partita solo il giorno successivo. Oggi, addirittura, non conosco più le facce dei calciatori e non so nemmeno bene chi sia l’allenatore questa stagione) 

Il residuo di quel campionato fu un lento trascinarsi tra sconfitte e inspiegabili - solo fino a quando non abbiamo saputo delle scommesse - colpi d’ala. Fino al più crudele degli epiloghi: il derby contro il Lecce. La rivalità con i salentini è una storia vecchia e l’odio, forse, nasce più da parte loro. Qualunque calciatore abbia indossato la maglia del Lecce non perde occasione per rivendicare il proprio astio verso il Bari, cosa che dall’altro lato non mi sembra accada. Non so bene il perché ma sta di fatto che è così.
È la penultima giornata del campionato. Noi eravamo già retrocessi, mentre il Lecce era ancora in lotta. Se li avessimo battuti avremmo inflitto un colpo pesante alle loro speranze di salvezza. Il nostro nuovo allenatore Bortolo Mutti chiamò la gente alle armi promettendoci che in quella orripilante stagione ci avrebbe regalato almeno un finale decente, che poteva diventare perfino dolce se nell’abbraccio mortale che ci avrebbe condotto in B ci fossimo trascinati pure i cugini leccesi. Io, come avevo promesso a me stesso, scelsi di non andare allo stadio. Come finì quella partita lo sanno tutti. Masiello fece l’autogol e tempo dopo ammise che l’aveva fatto apposta, perché, come sembra, aveva preso dei soldi provenienti da emissari del presidente leccese in persona. Perdemmo e il Lecce si salvò. Sul nostro campo. Finì in un tripudio di bandiere giallorosse e di cori di scherno al nostro indirizzo. (La sorte in quel preciso istante stava però voltando le spalle anche a loro e ben presto gli avrebbe spalancato le porte dell’inferno della Lega Pro).

Esodo

Tre campionati dopo l’orrenda stagione 2010-2011 le cose sono ancora peggiorate. Nonostante due salvezze miracolose in B, la scorsa da -7 sfiorando addirittura i playoff, la società è sommersa dai debiti e sull’orlo del fallimento. La proprietà non vuole più sapere di trascinarsi questo fardello. Le trattative per un possibile passaggio di consegne sono fallite miseramente dopo un’estate di tormenti. L’allenatore ingaggiato per la stagione si è dimesso dopo due settimane. La squadra è stata completata con molti giovani e l’ultima propaggine del calcio scommesse ci ha privati per sempre del capitano, nonché bomber, Ciccio Caputo, infliggendoci anche dei punti di penalizzazione. Poca roba in confronto all’anno scorso. Non potendo pagare al Comune di Bari l’affitto dello stadio San Nicola, la squadra rischia di giocare altrove e non è stata nemmeno aperta la campagna abbonamenti. I tifosi sono sfiduciati, l’odio e la rabbia stanno lasciando man mano il passo alla rassegnazione e all’indifferenza. Chissà se i miei vecchi vicini di posto in tribuna est ci sono ancora. Magari, un giorno, ci rincontreremo.