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mercoledì 26 ottobre 2011

Tomboy, o dell'identità calcistica

dove gioco io?
Ormai in pieno delirio pan-calcistico, che mi porta a riflettere sul pallone anche quando non c'entra niente, ieri sera sono andato al cinema Eden a vedere Tomboy,  un piccolo gioiello intimista, un capolavoro lo-fi, un film in cui non manca nulla e nulla è di troppo. La storia, per chi non la conoscesse, è quella di una ragazzina di nove anni, Laure, che, dovendosi ambientare nel nuovo condominio (dopo il trasloco), finge con il gruppo di nuovi amici - quasi tutti ragazzi - di essere un maschio, Mikael, e lo dimostra - tra le altre cose - anche giocando a pallone (non a caso, quando tra i ragazzini si sparge la voce che Mikael in realtà è una femmina, nessuno ci crede perchè "non può essere una femmina, hai visto come gioca bene a calcio?"). Il film, in poche parole, è una mirabile riflessione sull'identità, su che cosa si sceglie di essere nella vita, laddove spesso le scelte - più che vere scelte - sono in realtà situazioni obbligate dalla propria natura o dalla propria indole che si finisce per subire (cosa che, ovviamente, si porta come conseguenza anche una serie di incertezze sulla sessualità, che però sono giustamente relegate ad un ruolo marginale nel film).

Mi chiedo allora (e mi pare che, per quanto sembri incredibile, non se lo è mai chiesto nessuno) questo: come si sceglie - semmai anche lì lo scegliamo veramente, e non ce lo impone la natura o l'indole - quale tipo di calciatore vogliamo diventare? Come si diventa portiere, terzino, mediano, regista, fantasista, ala, centravanti? Come si sviluppa il nostro romanzo di formazione calcistica? Che relazione c'è tra il nostro carattere e il ruolo che, autonomamente, sin da bambini, ci assegniamo in campo? Quanto incide in campo il nostro essere fuori dal campo, e quanto invece è frutto della casualità?

Spesso si sente che un tale calciatore ha cambiato di ruolo nel corso della carriera, grazie a un allenatore che, magari nel corso delle giovanili, l'ha spostato venti metri avanti o indietro (in particolare, non c'è un solo difensore brasiliano che in carriera non sia stato anche attaccante e viceversa). Ma chi può dire qual è il vero ruolo - ammesso che esista un vero ruolo - di quel calciatore? Il primo o il secondo? Per me, ad esempio, l'immenso Aldair è sempre stato sprecato come centrale di difesa - lui era un centromediano metodista (peraltro dotato di gran botta da fuori). Francescoli, addirittura, un vero e proprio ruolo neanche ce l'aveva. E gli esempi potrebbero continuare all'infinito. Anche tralasciando le alchimie da scienziato pazzo di Luis Enrique, che con il corpo esanime della Roma gioca a fare il dr. Frankenstein spostando - apparentemente senza senso - i ruoli dei giocatori (Taddei e Perrotta terzini a Milano sono il miglior spot anti ogm), ci sono calciatori che a un certo punto si reinventano in una nuova posizione, nella quale sembrano abbiano giocato tutta la vita (Ciriaco Sforza gli anni migliori li ha fatti da libero, non da trequartista). 

Dunque, mi chiedo, il ruolo in campo di un giocatore non è un dato ontologico, immanente alla natura del giocatore - dell'uomo - stesso, ma è piuttosto funzionale al gioco che vuole realizzare l'allenatore, o no? Si può andare "contronatura", e fino a che punto? Va bene mettere Desailly a centrocampo, va bene arretrare Abate in difesa, va bene far credere a Messi di essere un panzer, ma si può arrivare a spostare - che so - uno stopper sull'ala, e viceversa? Freud che direbbe? Ogni tanto - la prima delle due cose - la si vede anche in campo, ma giusto per cinque minuti, quelli finali, in cui saltano gli schemi e si gioca solo a lanciare la palla in the box (Mourinho al Chelsea lo faceva spesso con il mitico SS Huth); si tratta appunto di un'aberrazione che è concepibile solo come eccezione alla regola. Altrimenti è una situazione insostenibile: avete mai notato un fastidio personale, vostro, da casa, quando un calciatore è palesemente fuori ruolo e quindi in difficoltà, si vede che non ha il passo o la prontezza o l'accortezza tattica, e vorreste urlare all'allenatore "cazzo Capello, sei un deficiente, togli Marcos Assunçao dall'ala destra che qui finisce male", e in effetti il Liverpool fa due gol (che poi, è lo stesso sentimento di pena mista a compassione che si prova quando Jovanotti parla in televisione)?

Ma al di là del calcio professionistico o comunque giovanile, in cui ci sono occhi esterni che ti guardano giocare, che ti consigliano, che ti formano, che ti fanno anche cambiare il modo di giocare, che ti adattano alla loro mentalità, che in altre parole si mischiano ed entrano in competizione con le inclinazioni naturali del calciatore, se facciamo un passo indietro sul terreno più naif della nostra infanzia, delle nostre partitelle all'oratorio, di Tomboy, in cui non esistono condizionamenti esterni se non quello che nessuno vuole fare il portiere, e per il resto ognuno è libero di correre dietro al pallone senza alcun obbligo tattico (e in pratica è quello che succede), ognuno è libero di seguire il proprio istinto, ognuno è libero di mettersi in campo dove vuole, mi chiedo, e vi ripeto la domanda, ma come ci scegliamo la nostra identità calcistica? Il timido gioca dietro? L'irruento sulla fascia? Lo sbruffone a tutto campo? Il nostro amico Bisozzi, di sangue brasiliano, col pallone sempre attaccato al piede? Il pigro (o il vanitoso) impalato davanti alla porta avversaria? Ma è davvero un esercizio di psicologia così semplice, così schematico? E che influenza ha - su questo Gegen (allo stesso tempo il nostro Branko e il nostro Domenech) può illuminarci - il proprio segno zodiacale? 

Se ci pensate, è la risposta difficilissima, metafisica direi, all'apparentemente semplicissima domanda che si riceve la prima volta che si va a giocare a calcio (o calcetto, o calciotto) con un gruppo nuovo di persone: tu, dove vuoi giocare?

Io francamente non so dire perchè ho sempre voluto giocare centravanti. Certo, la tecnica ha influito - nel senso che la mia modesta capacità tecnica mi ha sempre impedito di incarnare ruoli più fantasiosi, e il mio archetipo di centravanti di riferimento è sempre stato quello essenziale alla Agostini, alla Inzaghi (gol di ginocchio in mischia, per intenderci), non certo alla "attaccante moderno" alla Van Basten o alla Ibrahimovic. Un po' anche il carattere, perchè mi è sempre piaciuto farmi i fatti miei (e il centravanti è solo come il long-distance runner, per restare in zona Sillitoe), mi è sempre piaciuto il piagnucolio vittimistico-melodrammatico (e nessuno come il centravanti può lamentarsi per i pochi palloni che gli arrivano o per i falli non fischiati), mi è sempre piaciuto giocare più di intelligenza che di fisico (due qualità ho sempre cercato di coltivare: sponde e acrobazie) e mi è sempre piaciuto (egoismo/altruismo, vanità/generosità) l'abbraccio dei compagni per essere colui che ha coronato in rete una bella azione corale. Al contrario, mi sono sempre trovato in difficoltà in difesa (poco agonismo), in mezzo al campo (poca ambizione), sulla fascia (poca rapidità) - ovviamente, talenti (l'agonismo, l'ambizione e la rapidità) che non ho mai potuto spendere neanche nella vita, perchè non ce li ho. Mi domando quale è stata la vostra esperienza personale, la vostra formazione calcistica, e se vi sentite riflessi - caratterialmente - nel ruolo che vi siete scelti in campo.

Ad ogni modo, una cosa per me è certa: scoprire qual è la nostra identità, il nostro ruolo, quello che vogliamo essere, è molto più facile in campo, che fuori.