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giovedì 22 gennaio 2015

Il colombiano dai capelli strani



 
No se trata de ganar, sino de tener la pelota
 
Santa Marta, dipartimento di Magdalena. Costa atlantica colombiana. E’, dicono, la città più antica della Colombia, forse del Sudamerica. Agli inizi del Cinquecento, giunse nella regione di Magdalena il conquistador spagnolo Rodrigo de Bastidas, già al fianco di Colombo durante il secondo viaggio verso le Indie e con licenza di scoprire nuove terre a sud del Caribe. In un niente, i soldati di de Bastidas costrinsero alla resa i Tairona, i nativi di quelle terre, e assunsero il controllo della regione. Serviva, a quel punto, creare un’attrattiva per i coloni, servivano schiavi e ricchezze. de Bastidas fondò quindi Santa Marta, utilizzandola come base per spedizioni nell’entroterra e porto per l’esportazione di mais, balata e ananas. Morì poco dopo, de Bastidas. Aveva idee strane, non voleva solo conquistare e sfruttare, voleva creare un qualcosa che gli permettesse di passare in quella regione gli ultimi anni di vita. Aveva idee diverse su come trattare gli schiavi. E siccome non piacevano ai suoi luogotenenti e soldati, questi decisero di colpirlo. Morì, dopo una breve fuga, a Santiago de Cuba, all’età di 82 anni.

Verso la fine degli anni Sessanta, per le strade del Barrio Pescaíto, nella parte a nord della città, inizia a gironzolare un ragazzetto dagli occhi grandi ed il mento piccolo, con uno strano batuffolo di ricci sopra la fronte. Gironzola sempre con una camicia a quadri e tira calci al pallone su ogni campo disponibile. Gioca centravanti ed è figlio di Juana e Jaricho, un ex giocatore di calcio professionista che allena la squadra del Liceo Celedón. Di nome porta Carlos, Carlos Alberto Valderrama. Per tutti, a Pescaíto, el Mono, perché ha i capelli rossicci.

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Quando debutta con la maglia dell'Union Magdalena, a vent'anni, Carlos Valderrama non gioca più centravanti come da ragazzo e da scimmia si è fatto Pibe. E' suo padre Jaricho ad avere l'intuizione giusta: il figlio è un giocoliere e la sua arte nel trattare il pallone là davanti è sprecata. Meglio qualche metro più indietro, a ridosso della linea di difesa.

Le prime stagioni passano tra alti e bassi. El ciclon bananero non è certo una squadra di spicco in Colombia in quegli anni. Ma qualche buona prestazione basta ad attirare le attenzioni dei Millionarios, la squadra dove aveva giocato anche la Saeta Rubia.

Una stagione, senza incanto, a Bogotà e poi, nel 1985, il passaggio agli azucareros di Cali. Nel Deportivo Cali Valderrama recita calcio per due anni, ma a vincere sono sempre quelli dell’altra parte della città, Los Diablos Rojos dell’ América. In quegli anni, l’America è strepitosa, semplicemente imbattibile in patria e sempre protagonista fuori. Raggiunge tre finali di Libertadores consecutive. Le perde tutte. Ma poco conta, per Valderramma e il suo Deportivo non c’è gloria. Carlos e il fidato Redín, suo compagno di reparto, permettono alle punte (Angulo e Gonzalez) di segnare a raffica. Lui gioca a dieci tocchi, stoppa, nasconde, dribbla, nasconde e lancia. E le sue recite con la maglia del Depor (e le prime apparizioni con la Nazionale colombiana) non passano inosservate in Europa.

Un piccolo club francese del Languedoc-Roussillon, il Montpellier, decide di acquistarlo e di costruire la squadra attorno a lui e Laurent Blanc. Il primo anno, però, Valderrama stecca. Arriva in ritiro sovrappeso, manca l’ambientamento e non riesce a lasciare il segno. Il secondo, svolta. Un nuovo allenatore, Henryk Kasperczak, gli regala fiducia incondizionata. Lui lo ripaga partita dopo partita. Il Montpellier chiude bene in campionato e fa sua la Coppa di Francia. Il calcio del Pibe è pronto. Giusto in tempo, perchè a Bologna hanno appena finito di sistemare il Dall'Ara per il debutto della Colombia contro gli Emirati Arabi Uniti nella Coppa del Mondo.

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Le collanine e i braccialetti, la maglia rossa sgargiante e i capelli ricci lunghissimi biondi.
El Pibe è una cosa che non si era mai vista. Come il suo calcio ad altalena, concedere metri e secondi per riguadagnarli pochi istanti dopo.
La Colombia si allena ogni giorno e il suo guru, Francisco Pacho Maturana, le riempe la testa di tattica. Ha preso l'ossatura del Nacional, fresco campione in Libertadores, e l'ha perfezionata. Valderrama è de volante, Redín e Rincon la tecnica, Iguaran la punta che deve aprire lo spazio. Giocano a memoria e predicano un calcio strano: possesso palla e passaggi corti.

All'esordio, gli Emirati ci capiscono poco e niente. Reggono un tempo, nel quale riescono anche ad avere diverse occasioni da gol. Poi, però, il calcio colombiano parte. La squadra del Pacho accorcia e si allunga, fraseggia e verticalizza. Arriva il gol di Redín, sugli sviluppi di un calcio d'angolo, e il raddoppio del Pibe, un tiro secco da fuori area. L'assedio finale degli arabi è confuso, la Colombia incassa i due punti e si fa bella per le telecamere.
A riportare i colombiani sulla Terra è il gol di Jozic nella seconda partita del girone. Gli ingranaggi dei cafeteros subiscono il fisico e l'organizzazione di Katanec e compagnia. E al 75' crollano: palla in mezzo, difesa fuori fase e Jozic stoppa di petto e tira fortissimo. Gran gol. Il rigore parato da Higuita nel finale tiene la differenza reti. Ma il problema è un altro: si chiama Germania e si dice sia fortissima. Per passare il turno alla Colombia serve un punto.

A Milano, i tedeschi dalle maglie stupende aggrediscono e attaccano senza sosta. Solo i miracoli di Higuita tengono a galla le speranze. Passano i minuti e i tedeschi non passano. Passano i minuti e il Pibe prende le misure al centrocampo tedesco. Toglie un tocco al suo stile e inizia a servire assist ai suoi, con qualunque piede gli capiti vicino al pallone. Fajardo si mangia un gol impossibile, anche Estrada spreca. Ma la notizia è che la Colombia c'è. La Germania scopre il fraseggio cafetero e barcolla. Estrada sbaglia ancora, la traversa aiuta Higuita su Matthaus. La ripartenza del centrocampo tedesco a due dalla fine è quella giusta. La manovra che porta al gol di Pierre Littbarski è da manuale del calcio. Il colpo è durissimo.
Ma non letale.
Riprende il gioco e la palla subito arriva a Valderrama. Ha addosso tre avversari ma dribbla, si gira, appoggia e riprende il triangolo. Il centrocampo della Germania salta. La difesa scala verso destra perchè tutti si aspettano il passaggio verso le punte che sono partite da quella parte. La palla che esce dal piede di Valderrama è un sibilo nella direzione opposta. In un attimo Rincon è davanti a Illgner. Palla sotto le gambe mentre esce, 1 a 1. Le maglie rosse che saltano addosso a Rincon sembrano centinaia. Come fiamme. Ottavi.

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Camerun - Colombia è la tristezza di ogni sogno. L'adorazione per entrambe in quell'Italia 90. Il pianto e la gioia si presentano assieme alla fine dei supplementari. Un'altra scuola di Valderrama aveva rimesso in partita i cafeteros dopo la doppietta di Milla. Palla filtrante di trenta metri, l'ala, Perea, si ferma e appoggia. Di nuovo il Pibe, chiede il triangolo al limite, lo ottiene, entra in area e serve Redín sui piedi per battere Nkono.

Dopo il gol che accorcia la Colombia, però, si ferma. In una recente intervista, il Pacho Maturana ha modo di spiegare tutto, di permettere anche a noi di capire perchè quella Colombia non avrebbe mai pareggiato:
Aquel partido fue impactante por muchas circunstancias. Marcamos el 2-1 a falta de tres minutos para el final de la prórroga y le dije a uno de los marcadores, Luisfer Herrera, que tirara el balón arriba porque no había tiempo. No me hizo caso y siguió tocando y tocando. Después me dijo: "Pacho llevamos toda la vida tocándola por qué iba a dejar de hacerlo hoy". Era un grupo muy aferrado a sus convicciones. El partido se puso 2-0 con la jugada de René y cuando hicimos un gol, muchos no lo celebraron porque pensaban que iban a lincharle. Pensaron "la prensa lo va a destrozar porque si el partido queda 2-0 no pasa nada, pero con 2-1 le van a culpar de la eliminación". Ese planteamiento demuestra que más allá del resultado estaba la unidad del grupo y su estabilidad emocional y afectiva.
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Tornato in Francia, Valderrama gioca ancora a livelli altissimi.

La stagione ha il suo momento più alto nello scontro con il PSV di Romario e Popescu in Coppa delle Coppe. El Pibe pontifica i suoi dieci tocchi, stoppa, nasconde, dribbla, nasconde e lancia. Nuove forme di controllo del pallone, nuove linee verticali. Porterà il Montepellier fino ai Quarti, fino al Manchester United di Alex Ferguson, poi campione contro il Barcellona di Cruyff grazie ad una doppietta di Mark Hughes. C'è una buona fetta di storia del calcio in quell'edizione di Coppa delle Coppe e Carlos Valderrama insegna a tutti tecnica e visione.

A fine stagione, Maturana lo chiama a Valladolid. Lui lo segue, trovando in Spagna anche Higuita e Leonel de Jesús Álvarez, El Leon. Le premesse sono ottime, ma le difficoltà economiche affossano la stagione: retrocessione e fallimento sfiorati. Cambierà il presidente, la forma societaria, tutto.
Fallisce il Valladolid de los colombianos. Per El Pibe è tempo di tornare a casa. Independiente de Medellin prima (dodicesimo posto deslucido in campionato) e Atlético Junior poi. 


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Si avvicina USA ’94 e la Colombia è impegnata nelle qualificazioni sudamericane. E’ inserita nel Grupo 1, assieme ad Argentina, Paraguay e Perù. Dopo 5 giornate è in testa al girone con tre vittorie e due pareggi. Deve scendere in Argentina e tenere a un punto di distanza la nazionale di Alfio Basile. Per evitare un rischioso spareggio con l’Australia. Per la testa del Grupo. Deve scendere a Buenos Aires e non perdere. L'Argentina aspetta e mostra il petto. Sceglie il Monumental e al gioco colombiano contrappone la storia e due stelle sulla maglia. Prova a sminuire l'avversario e la moda, la simpatia, che lo accompagna.
Lo riempie, il Monumental, fino a farlo scoppiare. Lo fa tremare di bianco e celeste.

E gli uomini di Basile partono forte, sfuriano. La prima mezz'ora è loro ai punti. Ma non a tabellino. Redondo e Simeone gestiscono, Batigol e El Mencho Bello non mettono il punto. Con il passare dei minuti l'Argentina si affievolisce. Per El Pibe è il momento di stropicciare gli occhi al popolo dell'altro Pibe, quello più forte di tutti, seduto in tribuna con addosso la sua albiceleste Le Coq Sportif.
Raccoglie palla a centrocampo, passeggia, ferma il tempo. Sa che un fulmine si è lanciato sulla sua destra. Il passaggio è liscio, non disturba neanche la solita carta bianca portata in campo dal vento. Lo stop a seguire di Rincon un po' lungo, ma tornerà utile. Goycochea esce. Ed è saltato. Colombia avanti al Monumental. In qualche passo e un lancio. E' il minuto 41 e l'Argentina non ha neanche il tempo di reagire.

La ripresa inizia con un lancio di Rincon per Tino Asprilla. El Pulpo controlla e trafigge. E' il minuto 49 e l'Argentina era appena rientrata in campo. Gli uomini di Basile sfuriano nuovamente e per la Colombia è facile piazzare il contropiede. Il terzo gol lo segna di nuovo Rincon su cross di Alvarez. Il quarto è un'invenzione di Asprilla che ruba palla a Borelli e con un pallonetto trafigge ancora Goycochea. Il quinto un contropiede finalizzato da El Tren Valencia, che sfrutta l'occasione per spiegare a tutti il proprio soprannome.
Voce del verbo Colombia. Valderrama, El Pacho e il loro calcio diferente volano in America.

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A moment comes.
You start to remember what happened.
Bad thoughts flood your mind
(Leonel Alvarez, Los dos Escobar, 2010)


Per un mese gli Stati Uniti si fermano, per un mese abbandonano i loro sport più amati e mandano in scena il soccer. La cerimonia di apertura di USA '94 è uno spettacolo degno del miglior Superbowl. Ogni nazione partecipante presenta una sua danza e Diana Ross, in tailleur rosso e sneakers bianche canta l'inno americano e calcia un rigore sfondando la porta. Bill Clinton in tribuna dispensa sorrisi sotto il sole di Chicago. Il calcio sbarca in America. Con il Mondiale più bello di tutti.

La Colombia, quarta nel ranking mondiale FIFA, è tra le favorite, forte del sontuoso percorso nella fase di qualificazione. A contenderle la Coppa le solite note. L'Italia di Roberto Baggio, il Brasile di Romario e Bebeto e l'Argentina di un Maradona che si narra rinato. Le aspettative verso la squadra del Pacho sono enormi, ma tanti sono anche i nomi: Asprilla e Valencia sono stelle in Europa, Rincon viene da un'ottima stagione nel Palmeiras, il blocco dell'Atlético Nacional garantisce la solidità che sempre in un Mondiale fa la differenza. E poi c'è il Pibe.

Qualcosa, però, decide di andare storto.

22 giugno 1994, stadio Rose Bowl di Pasadena. Andrés Escobar è a terra. Le mani a coprire il volto. Il cross teso di John Harkes e il suo ginocchio in scivolata hanno appena scagliato il pallone alle spalle di Oscar Cordoba, lanciando gli Stati Uniti verso gli Ottavi di Finale del Mondiale. La Colombia non mostra il petto dopo la derrota all'esordio con la Romania. Dopo la morte de El Patron, la disgregazione del cartello di Medellín, la violenza padrona della calle. Dopo le minacce di morte a Barrabas Gomez e le lacrime di Maturana negli spogliatoi di Pasadena, il buio per la Colombia si avvicina. Le gambe corrono e attaccano, ma le menti sono gelide. In Latinoamerica lo chiamano fracaso.

Una decina di giorni dopo, Medellín. Andrés Escobar è piantato al sedile della sua automobile. Sei colpi calibro 38 si sono confusi a sfottò e liti nel parcheggio della disco El Indio. Il dito del grilletto è quello di Humberto Castro Munoz, autista dei fratelli Gallon, affiliati ai Los PEPEs, vecchi nemici di Don Pablo. Scommesse, una deviazione, sei colpi. E il buio in Colombia è arrivato per davvero.

L'omicidio di Andrés Escobar ha mille connessioni, anfratti sullo sfondo. Narcotraffico, riciclaggio, gambling, lo malo che incontra el fútbol. La Colombia inizierà a voler aprire gli occhi, ma ci vorra tempo. In strada si dice che se ancora fosse stato vivo Pablo ad Andrés non lo avrebbero anmazzato, Pablo aveva le sue regole. Ai microfoni El Pacho spiegherà che il calcio è una lucha. "Entre lo que es y lo que quiere ser". E che però c'è qualcosa di più importante. El Pibe, semplicemente, si fermerà. Perché anziché nascondere il pallone, costretto sotto scorta a nascondere se stesso dalla vita che ognuno merita di vivere.

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Un passo indietro. 1988, agli Stati Uniti viene assegnata dalla FIFA l’organizzazione dei Mondiali. In cambio, la US Soccer si impegna per la creazione di una lega professionistica di calcio statunitense. Il progetto prende concreta forma nel 1995 con la nomina a commissioner di Doug Logan. Di origini cubane e combattente in Vietnam per la 101esima Airborne Division, Logan imposta una lega in cui squadre e contratti sono gestiti direttamente dalla lega stessa e per la stagione inaugurale - 1996 - sfrutta al meglio il sistema delle allocation: le star vengono sparpagliate tra le varie compagini che prendono parte al campionato, così da garantire spettacolo e competitività.

Tra queste, Carlos Valderrama, che già aveva manifestato l’intenzione di sbarcare negli USA. A Tampa.

La prima annata del colombiano in Florida è semplicemente monstre. I Mutiny dominano la stagione regolare, primi a Est e Overall, arrivano alle finali di Conference e si arrendono solo davanti al poi campione D.C. United di Rammel ed Arce. Valderrama è MVP stagionale e sforna nella stessa stagione 17 assist a condire quattro marcature. Per l'Est è MVP anche dell'All Star Game giocato a East Rutherford: Preki e l'Ovest non ci capiscono niente, la palla gira troppo pulita, troppo precisa e veloce. A 35 anni, El Pibe stropiccia gli occhi anche agli americani. Uno così, a nord del Rio Grande, non si era mai visto.

L’annata successiva e quella dopo ancora il registro non cambia. Giocate, assist, il centrocampo è il suo regno. Disegna, inventa, traccia nuove linee nello spazio sconfinato americano. Sempre a Tampa nel 1997, poi una parentesi a Miami, tra le fila dei Fusion nuovi di zecca e di nuovo a Tampa.

Nel mezzo, la parentesi del Mondiale francese. Di nuovo la Romania - con Ilie - a mettere la Colombia sulla cattiva strada all'esordio. L'illusione dopo la vittoria contro la Tunisia. Infine, il risveglio: una pallonata a giro calciata, come sempre, in maniera perfetta.

A quarant’anni - siamo nel 2002 - El Pibe ancora insegna. Tra le montagne del Colorado, la maglia è quella dei Rapids. Una delle stagioni migliori della franchigia. Con quasi 20 assist in 27 partite Valderrama guida i Rapids fino alle Semifinali di Conference, fino ai Los Angeles Galaxy di Cobi Jones e Luis El Matador Hernandez.

E’ la sua ultima stagione. Toglie gli scarpini e sveste la 10.

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Le collanine e i braccialetti, la maglia sgargiante e i capelli ricci lunghissimi biondi. Il chiamare palla e il nasconderla. Il fracassare e l’esplodere, l’indietreggiare per conquistare. Carlos Valderrama giocava un calcio opposto, differente. Tecnica contro il tempo. Immagine contro lo schema. Spazio contro la linea. Cercare di capire non ci è concesso. Rimane la visione. Il racconto è diventato corto e debole rispetto all’idea. Un dèmone ha attraversato il calcio in lungo e in largo. Lo ha perfezionato di continuo, senza mai cambiarlo. Ce lo ha regalato come si regala una cosa preziosa.