mercoledì 30 ottobre 2013

La Maledizione di Bèla Guttmann | PT. 2


L’esperienza italiana
Guttmann attraversa le Alpi per dirigersi a Roma. Un intermediario di mercato gli garantisce che la Roma è pronta ad investire su di lui, l’occasione è delle migliori, ma purtroppo la realtà è ben differente. Una volta arrivato a Roma, i dirigenti della società capitolina, non hanno idea di chi sia Guttmann e lo informano di non essere alla ricerca di un allenatore. Sembra un brutto incubo, ma per fortuna c’è il lieto fine. Tramite alcuni intermediari più affidabili, Guttmann trova il suo primo incarico nel “belpaese”, firma con il Padova.

Guttmann riattraversa il mare, gira un po' qua un po' là, e giunge a Padova. Propone che, gli si dia la squadra, senz'altro compenso immediato che il mantenimento: il contratto lo si farà poi. E prende a lavorare come solo chi ha fame sa fare. Gli danno i premi personali di partita, e lui li distribuisce ai giuocatori: un investimento... Allena gli uomini sul fiato, sulla freschezza, sulla resistenza fisica. E tira fuori una squadra che tecnicamente non fa faville, ma che corre, salta, calcia, lavora novanta minuti come un motore la movesse. Una squadra che, dopo tredici giornate di giuoco, ha perso una sola partita, e sta al secondo posto della classifica, e tira il colpo a battere la prima. Storia patavina del passato e del presente”. (Vittorio Pozzo)

Vittorio Pozzo, l’allenatore “eroe” della nazionale, unico ad aver vinto consecutivamente due campionati del mondo, ne intuisce lo straordinario talento nell’allenare, nonostante il Padova, la prima squadra italiana di Guttmann, non abbia al suo interno molti talenti. Ne riassume il percorso, che sfortunatamente, dopo questa incredibile serie positiva, crolla a causa dell’ennesima “follia” di un allenatore sempre sopra le righe.

Durante la stagione il portiere titolare del Padova è un certo Monsider, giocatore croato mal visto da compagni e tifosi in quanto giudicato di scarso livello, questo nervosismo latente nella squadra esploderà lasciando una crepa nel rapporto tra la squadra e l’allenatore.
Dalla 14^ giornata il Padova incassa 13 sconfitte. Bèla Guttmann è di nuovo esonerato con un gelido e misterioso comunicato che gli addossa: “...fatti concreti appurati da indagini ineccepibili che intaccano direttamente la responsabilità personale dell'allenatore”.


L’allenatore, poco dopo l’esonero, viene indagato dalla procura federale per aver ricevuto una percentuale in nero sul trasferimento del criticato portiere Monsider. A Guttmann viene ritirata la tessera federale ma continua a svolgere il suo lavoro clandestinamente e lo fa con la Triestina. I risultati e soprattutto le prestazioni non lo premiano e così, nonostante la restituzione della tessera federale, l’ungherese vola in sud America, dove troverà tutt’altro che fortuna nella serie cadetta del campionato argentino. A causa di problemi respiratori della moglie, Guttmann cerca un impiego nel Mediterraneo, consigliatogli dai medici. Raggiunge alla cipriota Apoel di Nicosia, dove permane tre mesi prima della grande occasione: il Milan.

Il Capolavoro di Guttmann
Appena arriva la chiamata del Milan, il mister ungherese vede in essa l’occasione perfetta. Il campionato è già iniziato ed il Milan galleggia a stento a metà classifica. E’ ormai risaputo che le migliori squadre di Guttmann hanno bisogno di una forte preparazione per ingranare, nessuno si aspetta risultati immediati e lui avrà il tempo di plasmare una grande squadra al suo credo calcistico. La fortuna gli riconoscerà l’audacia di tal gesto. Il primo anno il Milan ottiene un terzo posto a pari merito con la Fiorentina, ma la notizia è un’altra. La squadra è stata acquistata dal ricco industriale Andrea Rizzoli, editore e produttore cinematografico. Con lui arrivano soldi freschi, pronti ad essere investiti per un grande campione, fortemente voluto dal mister: Juan Alberto Schiaffino.


Inoltre Guttmann si va a riprendere un suo giovane pupillo allenato ai tempi della Triestina, un tale Cesare Maldini e consegna le chiavi della porta a Lorenzo Buffon con un semplice e breve consiglio: “Piccola cosa più piccola cosa fa grande capolavoro”.
La squadra è una macchina da guerra, così composta nei ruoli chiave; Nils Liedholm reinventato come centromediano davanti alla difesa è un vero leone, un genio della tattica. Sorensen e Schiaffino, a dare velocità e classe come mezzali di centrocampo, in avanti “il pompiere” Gunnar Nordahl come ariete dell’attacco.
Il Milan, nelle prime 10 partite, ottiene 9 vittorie consecutive ed un pareggio contro la Juventus di Gianpiero Boniperti.

Inizia una terribile flessione del Milan, si pensa sia successo qualcosa nello spogliatoio, ed i sospetti vanno tutti la direzione di Guttmann, non nuovo a questo tipo di contrasti con i suoi calciatori. I rossoneri otterranno una sola vittoria in tutto il girone di ritorno. Il nervosismo è palpabile e le voci, più o meno veritiere, si moltiplicano. Una di queste è reale, Guttmann e la moglie Marianne, sono in un locale di Milano, incontrano Lajos Czeizler, suo collega nonché connazionale, con rispettiva consorte. Nonostante siedano al tavolo insieme dopo una discussione, i due allenatori vengono alle mani . Nella rissa vengono coinvolte le mogli, Marianne, moglie di Béla, spacca una bottiglia in testa alla signora Czeizler.

I due ungheresi s’incontrano sul campo due settimane più tardi, con le rispettive squadre : Milan e Sampdoria.
Per il Milan ennesima disfatta, perdono 1 a 3 e Czeizler, beffardo si gode la vittoria e getta il proprio disprezzo umano su Guttmann, una volta giunto a colloquio con i giornalisti nel postpartita. Guttmann tace, è convocato in piena notte nella sede della società, il suo destino è appeso ad un filo.
Alle prime luci dell’alba la dirigenza decide : Esonero.
Guttmann, il giorno dopo svuota il suo armadietto al centro sportivo, all’uscita trova dei giornalisti e dichiara “Sono stato licenziato anche se non sono né un criminale né un omosessuale. Addio” e si congeda con un teatrale inchino.
Di lui si perdono le tracce fino all’aprile dello stesso anno, quando non sarà la cronaca calcistica a portarlo di nuovo alla ribalta.

Guttmann il pomeriggio del 2 aprile 1955 è alla guida della sua auto per le vie del centro di Milano. Due bambini attraversano la strada all’improvviso. Guttmann, a causa dell’alta velocità della sua auto, non riesce a frenare. Uno dei due bambini muore. E’ novembre e Guttmann viene rinviato a giudizio. In prossimità dell’udienza l’ungherese fugge dall’Italia, abbandonando la sua neo squadra, il Lanerossi Vicenza.
Nel maggio si torna a parlare di lui, la stampa spagnola annuncia le trattative, ormai prossime alla conclusione, tra Guttmann e la dirigenza dell’Atletico Madrid. Un emissario madrileno, torna da Budapest con il contratto firmato. Nonostante ciò, nessuno ha mai visto Béla Guttmann dalle parti di Madrid. Un altro mistero sul quale l’allenatore, non farà mai luce.



La Rivoluzione Brasiliana
Béla, notevolmente provato dall’ultimo anno trascorso, si prende una pausa dalla panchina. Sottoscrive un contratto come direttore tecnico dell’Honvèd di Budapest. La squadra è chiamata ad un tour in Brasile. Nel frattempo l’Ungheria è scossa da aspri scontri civili a causa della rivoluzione antisovietica. L’Honvèd decide così di prolungare il soggiorno in terra brasiliana fino al termine delle ostilità. Guttmann non rimane con le mani in mano, incontra dirigenti ed alti esponenti del calcio brasiliano, uno di questi gli parlerà di una possibilità di allenare il San Paolo. Dopo aver studiato la squadra, l’ungherese preme per incontrare i dirigenti. Arriva la firma e Béla rivoluzionerà il modo di fare calcio in Brasile. I giocatori brasiliani sono dotati di grande fisicità e tecnica ma secondo l’ungherese i loro allenamenti non aiutano nell’esaltazione di queste caratteristiche, quindi studia un piano di allenamento personalizzato per ogni singolo giocatore paulista. Cambia modulo, introducendo l’avanguardistico 4-2-4 e chiede un solo acquisto : Zizinho.

Il San Paolo vola sulle imponendo un bel calcio, addirittura la nazionale brasiliana, entusiasmata dal calcio del San Paolo di Guttmann, farà suo modulo e stile di gioco, in vista dei mondiali del 1958 in Svezia. Il San Paolo vince il campionato e l’anno dopo il Brasile vince il suo primo mondiale.
Dino Sani, centrocampista sia del San Paolo che della nazionale brasiliana campione del mondo, disse: “Il San Paolo di Guttmann era il volto dell’Ungheria, ribelle e sognatrice”

Il ritorno in Europa
Torna in Europa da vincente Guttmann, in Portogallo c’è il Porto ad aspettarlo. L’ungherese prende la squadra in corsa, è terza in classifica, distante 4 punti dagli acerrimi nemici del Benfica. Guttmann ed i suoi arrivano all’ultima giornata a pari punti con i rivali di Lisbona. L’ultima giornata del campionato 1958-59 entrerà per sempre nella storia del calcio portoghese. Il Benfica, se vuole aggiudicarsi il titolo, deve battere il Torreense con almeno 4 gol in più rispetto al Porto, che in casa sfida il CUF.
A Lisbona la partita è scandalosamente corrotta. L’arbitro assegnerà ben 3 rigori a favore del Benfica e 12 minuti di recupero complessivi tra primo e secondo tempo.
A Oporto la squadra di Guttmann vince dominando 3 a 0, questo vuol dire che il Benfica dovrà vincere 7 a 0. L’impresa, nonostante la compiacenza dell’arbitro, poi radiato a fine campionato, non riesce. Il Benfica vince 7 a 1 ed il Porto si laurea campione di Portogallo.
Al termine della partita l’allenatore dichiara “E’ la mia vittoria più drammatica”, i dirigenti in estasi, lo omaggiano con il logo del Porto ricoperto di diamanti, ma quello che scopriranno poche ore più tardi è un vero shock. “Guttmann ha firmato per il Benfica” titolano i giornali.


La Leggenda del Benfica
Mentre i tifosi del Porto sono inferociti per il tradimento del loro ormai ex mister, a Lisbona si festeggia l’arrivo di un “vincente”. Alla conferenza stampa di presentazione, Guttmann spiega a modo suo, il perché dell’addio al Porto:
Oporto è bella, ma è una città molto umida. E a me non piace intrattenermi in posti che mettono a rischio la mia salute”.
Immaginate la reazione di un tifoso del Porto…
Se l’esperienza brasiliana fu definita una “rivoluzione”, quella al Benfica fu una vera “guerra”. Guttmann nel suo contratto, volle ed ottenne una clausola che gli concedesse carta bianca sulle scelte tecniche, oltre allo stipendio d’allenatore più alto d’Europa .

Nessuno dei dirigenti avrebbe mai immaginato come Guttmann avesse sfruttato quella clausola. I giornali parlano di circa 20 calciatori della squadra titolare del Benfica licenziati, a vantaggio dei ragazzi delle giovanili e solo 4 acquisti dal mercato, inoltre tutti provenienti dalle colonie portoghesi : il bomber Josè Aguas, le mezzali Joaquim Santana e Mario Coluna ed il portiere Costa Pereira.
Quello che accade a Lisbona è incredibile, Guttmann s’innamora del Benfica ed il Benfica s’innamora di lui.
In conferenza stampa Guttmann pronuncia una frase che tutt’oggi i tifosi esibiscono come vanto :
Piove? Fa freddo? Fa caldo? Che importa? Anche se la partita fosse durante la fine del Mondo, tra le nevi del monte o in mezzo alle fiamme dell’inferno, per terra, per mare o per aria, loro, i tifosi del Benfica, vanno lì, appresso alla loro squadra. Grande, incomparabile, straordinaria massa associativa!

Il Benfica non solo gioca bene, ma vince il campionato senza perdere neppure una partita. I giornali scrivono di “una massa unica che si muove all’unisono” e poi ancora “Un’armata tatticamente invincibile”. Quel Benfica ha fame, prende consapevolezza della sua forza partita dopo partita e si guadagna “un posto in paradiso” ovvero ; la finale di Coppa Campioni contro il Barcellona.
Il Benfica sconfigge il Barcellona 3 a 2, conquistando la sua prima Coppa dei Campioni ed interrompendo l’egemonia del Real Madrid che da 5 anni consecutivi vinceva la competizione.


  
L’arrivo del fenomeno
La stagione 1961/62 è segnata da un solo acquisto nel mercato estivo, un giovane diciottenne di belle speranze proveniente dal lontano Mozambico, un tale Eusébio. A consigliarlo a Guttmann, è Bauer, suo ex calciatore al San Paolo. Gli dice “Ho visto un negretto formidabile che corre i 100 metri in 11 secondi netti e che col pallone sa fare di tutto”. Guttmann non ci pensa due volte e convincerà il giovane talento a firmare. L’ungherese non solo si occupa dell’acquisizione ma anche dell’ambientamento dello stesso, invita i suoi calciatori a stare vicino al ragazzo che viene “da così lontano”.


La stagione non inizia nel migliore dei modi, infatti il Benfica perderà la finale di Coppa Internazionale contro il Penarol. L’allenatore addossa la colpa alla dirigenza, rea di aver organizzato una pessima trasferta. In realtà c’è dell’altro, il Benfica perde punti in campionato, ma per fortuna mantiene un buon ruolino di marcia in Coppa Campioni. Arriva in Semifinale contro il Tottenham e lì, il genio dell’ungherese, esce di nuovo allo scoperto. Alla vigilia della gara di ritorno in Inghilterra, Guttmann tra lo stupore generale, annuncia che l’anno prossimo non allenerà più il Benfica e cerca anche di far capire, che vi sono dei contatti proprio con il Tottenham. E’ tutto falso, il suo unico intento, è quello di mandare in confusione l’avversario, ed anche stavolta la mossa è vincente.
Il Benfica vince e si guadagna una finale storica contro il Real di Puskàs e Di Stéfano.


Il primo tempo si conclude con 5 gol e tanto spettacolo, ma il risultato provvisorio è di 3 a 2 per i “blancos”. Il 36enne Puskas, nemico giurato di Guttmann, ha già segnato tre gol, su servizi di Di Stéfano. Ma il Benfica non molla e con i gol di Aguas e Cavém, torna in partita.
Negli spogliatoi Guttmann guarda in faccia i suoi ragazzi e da abile psicologo qual è gli dice: “La partita è vinta. Loro sono morti!”

Nella ripresa, Guttmann piazza un uomo su Di Stéfano, è la mossa vincente. Il Real non riesce a creare più nulla e i portoghesi iniziano a produrre calcio. Al 51’ Coluna approfitta di un errore di Puskas e segna dai 25 metri. Segna anche la “pantera nera” Eusébio. Al 65’, una punizione di Coluna mette la parola “fine” alla partita. Il Benfica vince 5 a 3 ed è campione d’Europa per la seconda volta consecutiva. Il Benfica è nella storia, i suoi uomini sono nella storia ma soprattutto il suo allenatore. Béla Guttmann è nella storia.

Il crollo dell’impero ungherese
Nonostante lo storico successo, a Lisbona vi sono numerose crepe. I giornalisti, rimproverano a Guttmann di non esser riuscito a vincere il campionato, lui risponde furente “Il Benfica non ha il culo per sedersi su due sedie”. Il Mister però, più che con i giornalisti, ha un problema con la società. La quale non vuole corrispondere all’allenatore, nessun compenso per la vittoria della Coppa Campioni.
L’avido Guttmann, ancora una volta, fa saltare il banco. Se ne va sbattendo la porta come mai aveva fatto prima ovvero, lanciando una maledizione al suo club:
“Da qui a 100 anni nessuna squadra portoghese vincerà due volte consecutive la Coppa dei Campioni, ed il Benfica, senza la mia guida, non vincerà mai più una Coppa Campioni”

I giornali titolano: “La Maledizione di Guttmann”. In effetti da quel lontano 1962 il Benfica, nonostante arrivi a giocarsi ben 5 finali, le perderà tutte. Nel 1990 la finale si disputa a Vienna, città dove Béla Guttmann è tutt’ora sepolto. Eusebio, suo ex pupillo, si recherà poche ore prima della partita, sulla tomba del suo allenatore, implorando una grazia contro quella “maledizione”. Il Benfica perse contro il Milan di Arrigo Sacchi per 1 a 0. La maledizione esiste.

Conclusione
La carriera di Guttmann proseguì tra pesanti disfatte, una su tutte fu la morte di un suo calciatore. Al 13 minuto della 13esima giornata, Guttmann di nuovo allenatore del Porto è seduto in panchina, il numero 7 Pavao, si accascia a terra e muore. Da quel momento si scatena un vortice di accuse contro Guttmann. L’unica però a metterci la faccia, è la moglie di Costa Pereira, portiere del Benfica. La moglie dichiara alla stampa che, sotto la guida di Guttmann, suo marito non dormiva mai la notte, in quanto colto da stati d’euforia dovuti, a suo dire, da pillole che l’ungherese somministrava ai suoi calciatori.
Queste dichiarazioni non furono mai prese in esame da un tribunale, ma non ve ne fu bisogno, la carriera di Bèla Guttmann finì così, nel peggiore dei modi. Non volle avere più niente a che fare col calcio e si ritirò a vita privata. Morì solo, senza alcun erede, né parente. Rigettato da quel mondo al quale aveva dato tutto. E dal quale, probabilmente, ebbe in cambio niente se non il denaro.
Sono in pochi a ricordarsi di questo allenatore, condannato a vagare per il mondo come “l’ebreo errante” senza mai trovare pace.
Era più di un allenatore, era un coltivatore d’idee, era un alchimista della motivazione agonistica, era un romanzo del calcio. Era Béla Guttmann.


venerdì 25 ottobre 2013

Béla Guttmann, "L'Ebreo Errante" PT.1


Prendete la teatralità di Josè Mourinho, il “pugno di ferro” di Fabio Capello e il fascino romanzesco di Brian Clough, ne verrà fuori un allenatore o forse molto di più. Una storia. Un uomo. Quest’uomo è Béla Guttmann.

Béla Guttmann con la divisa dell'Hakoah Vienna

Bela il calciatore
Béla Guttmann nasce il 27 gennaio del 1899 a Budapest da una borghese famiglia ebraica. I genitori entrambi insegnanti di danza classica lo avvieranno verso la loro stessa professione ma con scarsi successi. A 16 anni Guttmann, dopo aver conseguito il diploma da insegnante di danza classica, s’innamora del calcio. Un amore che durerà per tutta la vita e lo consegnerà alla storia.

Diventa professionista tra le file del Torekvés, squadra della serie B ungherese. L’allenatore vede in lui una grande punta, i giornali vedono in lui “un ragazzo allergico alla corsa e al sacrificio di squadra”. Guttmann si congeda a modo suo dal Torekves, siglando una tripletta nel match contro lo Zsak primo in classifica e imbattuto. Nonostante ciò i giornali saranno lapidari: “Guttmann il peggiore in campo. Non ha corso un solo metro in tutta la partita. Non ha fatto altro che ricevere palla e tirare”. Anni dopo Guttmann, ricorderà con ghigno beffardo la vicenda : “Il calcio è cambiato. A inizio carriera feci 3 gol alla prima in classifica ma venni massacrato dai giornalisti per aver corso poco. Ora se fai un gol contro un’acerrima rivale, sei considerato un eroe a vita”. E’ solo l’inizio della sua carriera da professionista e già si avverte forte il sapore del suo talento tutto “genio e sregolatezza”.

Il talentuoso Guttmann si trasferisce a Vienna dove il calcio, non solo è in forte espansione, ma anche tema di dibattito nei salotti intellettuali dei primi del 900. Passa alla leggendaria Hakoah Vienna, squadra formata esclusivamente da calciatori ebrei, la maggior parte dei quali (Guttmann compreso ndr) fuggirono dall’Ungheria dopo l’ascesa al potere dell’Ammiraglio Horty e le conseguenti pressioni antisemite del suo governo.

L'Hakoah di Vienna  (Anno 1925)
La spiccata personalità di Guttmann non tarda a manifestarsi, Nel contratto con l’Hakoah, Guttmann inserisce una clausola secondo la quale deve giocare esclusivamente con divise di seta in quanto la sua pelle è troppo sensibile ad altri tipi di tessuto. Clausola che all’inizio gli causa non poche divergenze con stampa e tifosi.
Ma nel calcio sono i risultati che contano e i risultati, sono sotto gli occhi di tutti.

Il promettente ed eccentrico ungherese è un talento puro, viene spostato a centrocampo dove gli si richiede meno corsa e dove può liberamente lanciare prelibati palloni ai suoi compagni. Dopo due anni, all’alba dell’inaugurazione del primo campionato austriaco, Guttmann ottiene uno storico rinnovo di contratto. Bela e l’Haok si legano per altri 3 anni ed il compenso percepito dal giovane regista, è di ben un quarto degli introiti della società. I mormorii dei giornali vengono messi a tacere dalle straordinarie prestazioni dell’ungherese e dalla vittoria del campionato.

Il viaggio negli U.S.A.
L’Hakoah di Vienna, divenne leggenda in tutta Europa, complice anche l’epica vittoria contro i “maestri” inglesi del West Ham. Infatti, mai nessuna squadra europea era riuscita prima di allora a battere una squadra inglese, per di più in casa, soprattutto 5 a 0.
Dopo la vittoria del campionato e il “Successo inglese”, l’Hakoah partì per un tournee negli Usa, proprio come fanno i top club ai giorni nostri, seppure con differenti intenti. Infatti, la squadra di Vienna, partì alla ricerca di fondi per la “causa sionista”.
Giocarono dieci partite, tutte vinte. Bela Guttmann ricorderà così l’esperienza negli Usa, terra dove se il calcio è quasi un tabù ancora oggi, figuratevi nel 1926.
 
Durante la prima partita, nonostante un largo vantaggio della nostra squadra, notammo un particolare. I tifosi americani non esultavano ai gol bensì a tiri alti e fuori dallo specchio.
Probabilmente confondevano il calcio con il loro football. Bastò uno sguardo per capirci tra compagni. Iniziammo così a tirare bordate, esaltando i tifosi che a fine partita mi portarono in trionfo
”.

Béla Guttmann decide di rimanere negli Stati Uniti e con lui molti altri dei suoi compagni dell’Hakoah. Viene messo sotto contratto dai New York Giant, dove percepisce l’ingaggio record di 500 dollari mensili per la prima stagione e di mille per la seconda, oltre ai costi dell’alloggio. Dopo due anni però, i Giant’s vengono sospesi dal campionato in seguito a uno scandalo di “fondi neri” . Bela ricontatta i suoi ex compagni dell’Hakoah rimasti come lui in America e decidono di fondare l’Hakoah All Star, squadra nata con “l’intento di promuovere il calcio nelle Americhe” attraverso blasonate amichevoli. I giornali dell’epoca parlano di una realtà ben diversa. E’ risaputo che durante il crollo della borsa del 1929, Guttmann perde tutti i suoi beni e cade in disgrazia. Il suo scopo quindi, ben meno nobile, è quello di guadagnare per poi far ritorno in Europa. Riesce anche in questo intento.
Guttmann torna in Austria nel 1932, dove disputa ancora 4 partite con l’Hakoah di Vienna prima di annunciare l’addio al calcio giocato.

Bela ha un solo obiettivo in mente: diventare allenatore. Non solo ci riuscirà, ma rimarrà per sempre nella storia come uno dei personaggi più intriganti e vincenti della storia del calcio.
Un furbo, un vincente, un cinico, un approfittatore, questo è Bela Guttmann già da calciatore. Tutte queste virtù non faranno altro che amplificarsi nella seconda parte della sua carriera, quella da mister.

Il praticantato di Vienna e il sogno olandese
A soli 34 anni Béla Guttmann diventa un allenatore. La sua squadra storica, l’Hakoah di Vienna, gli concede due anni di contratto, ma ne limita la libertà di lavoro. L’Hakoah gli impone lo staff, in quanto reputa l’ungherese ancora inesperto per lasciargli simili privilegi.

I risultati non saranno esaltanti, Guttmann conquista due decimi posti. Al termine dei due anni, di comune accordo con la società, ognuno va per la sua strada. Quella di Guttmann è in salita, tutti sanno che ha un brutto carattere, è un “odioso uomo, pieno di sé" , titolano i giornali dell’epoca e per di più “totalmente inesperto”. Riesce a trovare un incarico grazie alla raccomandazione del padre Abraham e dell’allenatore della nazionale austriaca, Hugo Meisl, compagno di discussioni nei salotti della Vienna bene.

Si trasferisce in Olanda, precisamente all’SC Enschede (oggi confluita nel Twente ndr). Arrivato in Olanda la società, che prima aveva promesso un contratto di un anno, cambia le carte in tavola e per cautelarsi dalle voci arrivate sul conto del mister ungherese, offre un trimestrale con formula di rinnovo per altri 9 mesi in caso di risultati positivi. Guttmann è stizzito ma accetta. I risultati sono esaltanti, si vedono sprazzi di ottimo calcio. All’alba della scadenza del contratto l’Enschede è terzo in classifica a 5 punti dalla prima. Al tavolo delle trattative Guttmann si presenta con una sola richiesta alla società : un premio record in caso di vittoria del campionato. Si racconta che il Presidente dell’Enschede scoppiò a ridere in faccia a Guttmann pensando si trattasse di uno scherzo, ma una volta compresa la serietà della richiesta, accetta premio e prolungamento sino alla fine della stagione. La squadra si convince dei propri mezzi e ottiene una serie di vittorie , aggiudicandosi il girone Est.
Il campionato olandese allora era diviso in 5 gruppi (Nord-Sud-Ovest I e Ovest II).

Classifica finale Eredivise girone Est

Arrivato al turno finale, il sogno dell’Enschede s’interrompe bruscamente contro il Feyenoord, che si laurea campione d’Olanda per la felicità della dirigenza che, se avesse dovuto pagare il premio concordato con Guttmann, avrebbe dovuto dichiarare la bancarotta del club.

La seconda stagione non è così soddisfacente. La rosa rimane la stessa dell’anno precedente a causa della crisi finanziaria del club e l’Enschede conclude al 4 posto con ben 12 punti di ritardo dalla prima in classifica, Go Ahead Eagles.
Guttmann abbandona la squadra alla scadenza del contratto nonostante l’insistenza della società per un rinnovo. Ritorna alla sua amata Hakoah, che non ha mai smesso di seguirne la sua evoluzione nel suo nuovo ruolo. E’ il 1938 e la Germania di Hitler invade l’Austria, l’Hakoah squadra di cultura ebraica viene dismessa e i suoi componenti iniziano a fuggire per il mondo. Tra questi Béla Guttmann.

L’ungherese si rifugia nella sua terra natale dove trova impiego nell’Ujpest. In un anno il mister vince campionato e Mitropa Cup, antenata della moderna Champions League. I risultati sono frutto di un grande calcio espresso dal team ungherese, che trova la migliore espressione in un nuovo modulo che sta prendendo piede nel calcio mitteleuropeo, il 4-2-4.

 
Fase ad eliminazione dirette Mitropa Cup 1939
Dopo la vittoria della Mitropa Cup, il campionato ungherese, come la maggior parte dei campionati europei, viene interrotto e Guttmann sarà latitante sino al 1945.
Durante l’olocausto perde il fratello maggiore, l’unico componente rimasto della sua famiglia. Lui sparisce insieme alla storica moglie Marienne, che presumibilmente sposa nel 1942. Dove si sia rifugiato rimarrà per sempre un mistero. Lui ogni volta che veniva interrogato sul tema rispondeva laconico “Dio mi ha aiutato”.

Il ritorno
Il ritorno ufficiale in attività di Béla Guttmann risale al 1945, quando firma un contratto annuale con il Vasas, l’altra squadra di Budapest come l’Ujpest. Conclude con un secondo posto e il contratto non viene rinnovato dalla società per alcune divergenze con i calciatori, che mal sopportarono il suo passato con l’eterna rivale.
L’anno successivo Guttmann parte alla volta della Romania, direzione Bucarest.
Firma per il Ciocanul (oggi Dinamo Bucarest ndr), il presidente ebreo della squadra romena, diede all’ungherese pieni poteri per risollevare la squadra ed il calcio romeno. Guttmann, attento osservatore finanziario, decide di essere pagato in natura, causa l’altissima inflazione della Romania post guerra mondiale. L’esperienza romena, una delle più brevi della sua carriera, s’interrompe dopo sole 13 giornate, quando il tecnico ungherese lamenta una continua interferenza di alcuni dirigenti nelle scelte tecniche.

Arriva la seconda chance in Ungheria, ancora alla guida dell’Ujpest, dove senza difficoltà Guttmann impone il suo 4-2-4 e vince il campionato a mani basse esprimendo ancora una volta un gran gioco. Ma Guttmann è un giramondo, un eterno traditore e in quanto tale, ancora una volta, tradisce. A scadenza del contratto s’invaghisce del progetto dell’Honvèd, la terza squadra di Budapest, che è arrivata seconda nel campionato appena conquistato dal tecnico. Trova una squadra tecnicamente fortissima e promettente, al suo interno c’è un talentuoso ragazzo ungherese, un certo Puskàs, con il quale non intrattiene però rapporti idilliaci.

A Sinistra : Béla Guttmann a destra Ferenc Puskàs
All’inizio del secondo tempo di una difficile partita contro il Gyor, Guttmann chiama la sostituzione del suo difensore Bozsik. Puskàs, che assiste alla scena, invita il suo compagno a non uscire dal campo. Béla, scuro in volto esce dalla zona tecnica, si avvia verso gli spalti della tribuna, raccoglie una rivista ippica, si accende il sigaro e non alza la testa sino alla fine della partita. Poi si dirige verso la fermata del tram più vicina allo stadio, vi sale sopra e nessuno lo vede più per mesi.
Era stato profetico il mister, mesi prima in una conferenza stampa.
Alla domanda sull’importanza di aver buoni rapporti con i giocatori disse: “Controlla la stella e controllerai tutta la squadra”.

Per Guttmann si concludeva la seconda fase della sua carriera, quella da “apprendista allenatore”, come lo chiamavano ai tempi della prima esperienza all’Hakoah. Ora Guttmann è un allenatore affermato e si parla di lui in tutta Europa, soprattutto per il suo essere perennemente sopra le righe. E qual è la nazione europea eternamente affascinata da personaggi carismatici, discutibili, polemici e antipatici ? Bravi, l’Italia. Ed è proprio da noi che Guttmann verrà a insegnare un calcio nuovo e del tutto sconosciuto, quello della “scuola ungherese”, imbattibile negli anni 50. Béla parte per l’ennesima volta nella sua vita, ma per la prima volta in Italia. C'è qualcosa di più di un contatto con l'As Roma.
 

martedì 22 ottobre 2013

Esquina Blaugrana


Marc Bartra
 
La vigilia di Milan-Barcellona, l’antivigilia di Barcellona-Real Madrid.

Oltre ogni aspettativa l’avvio in Liga e Champions League della banda del Tata Martino. Una marea di vittorie e di gol segnati. Una difesa nuovamente registrata dopo l’annata di Tito Vilanova. Convincono l'approccio e le dichiarazioni di Pique su stile di gioco e tiki-taka.
Tra le novità spiccano il canterano Bartra (finalmente a buoni livelli), Puyol (al rientro dopo il lungo infortunio) e l'affamato Pedro.

Capitolo a parte Neymar. La stampa spagnola è entusiasta del baby-fenomeno. Mi schiero fuori dal coro.
E' presto, lo so. Ma non mi fa impazzire. O meglio, non è il tipo di giocatore che piace a me. Al contrario di Messi perde tantissimi palloni e casca un pò troppo facilmente. A tratti lo trovo irritante. Per ora, solo azioni per i flash. Deve crescere, anche e soprattutto di struttura.
Buonissimo, invece, l'avvio di stagione di Sanchez. Corre, sgomita e taglia al centro. Perfetto.
Da rivedere alcuni look proposti da Dani Alves su Instagram.
 
Viste le premesse, gli avvii nei rispettivi campionati, Milan-Barcellona dovrebbe avere ben poco da dire. Magari il Milan azzecca la prestazione, ma nel girone i giochi ho paura siano già fatti. Una cosa è certa: l'attuale 11 del Milan -se si toglie anche Balotelli- è il peggiore da quando siamo nati.
 
Diversi gli animi a Madrid.
Florentino Perez si chiede che fine abbia fatto Bale (che comunque all'esordio non si è fatto pregare prima di segnare). Se sia stato un grande affare la cessione di Ozil (che nel frattempo ingigantisce l'Arsenal). Se Isco e Ronaldo siano sufficienti rispetto alle aspettative.
Ancelotti ha perso il derby e in un attimo si è ritrovato -prematuramente- sulla graticola.
Vada come vada, beato Benzema che ha trovato come consolarsi.
Lato Champions, vedo comunque il Real strafavorito sulla Juventus, specie se quest'ultima confermasse di aver perso lo smalto delle passate stagioni.
 
La vera sorpresa, che sorpresa poi non è, è l'Atletico di Simeone.
L'altro giorno leggevo un bell'editoriale su As (mi pare) in cui si diceva che la squadra del Cholo è tutto quello che in Spagna mancava. Una squadra che sa incantare e soffrire, che segna ma non disdegna di giocare sporco. Quadrata e con una panchina di qualità. Davanti, poi, Diego Costa mette dentro tutto quello che passa.
 
Il Malaga di Sergio Sanchez e la Real Sociedad del duo Vela-Griezmann sono le squdare di troppo nella parte bassa della classifica. Valencia e Siviglia quelle perennemente in cerca di un'identità.

giovedì 17 ottobre 2013

Io sono la Maledetta - Pensieri e solitudini di una maglia che porta sfortuna al Real

 

Loro vorrebbero vedermi chiusa per sempre sul fondo di un cassetto, lo so. Gliel’avrò sentito ripetere almeno un centinaio di volte. Sempre con lo stesso tono di voce, sempre con lo stesso sguardo furtivo, sempre con le stesse parole che grondano rabbia. Oppure vorrebbero vedermi bruciare poco a poco. Sì, fuoco che arde le mie fibre sintetiche miste a cotone, fiamme che consumano il mio tessuto bianco fino a liberarlo. Nessuno alzerebbe un dito per provare a salvarmi, anzi. Se ne starebbero lì a guardarmi morire con un sorriso che gli stira gli angoli della bocca mentre il fumo nero frantuma quell’incantesimo che gli impiomba il cuore. Non provano nessuna forma di compassione per me, loro. Mi odiano, semplicemente. E non passa un giorno senza che lo ribadiscano. Ovunque. Sulle panche degli spogliatoi, fra i sedili del pullman che li porta allo stadio, in quel locale dove si chiudono tutte le domeniche dopo aver dato una lezione agli avversari.
 
Ormai non mi stupisco più del modo in cui mi chiamano. Quelle parole le conosco a memoria. Proprio come conosco a memoria quelle facce che mi guardano e mi additano dalla tribuna. Settimana dopo settimana, stagione dopo stagione. Bocche di padri che raccontano a orecchie di figli la mia storia. La storia di una maglia che assorbe il sudore e succhia via il talento dal corpo di chi la indossa. O almeno così sono pronti a giurare loro. E non esiste giornata o panchina che possa salvarmi. In casa o in trasferta, nel nostro stadio da ottantamila posti o nel buco di culo più sperduto di questo Paese allo sbando, posso sentire costantemente i loro occhi che mi si appuntano addosso. I loro sguardi che lacerano le mie fibre, la loro superstizione che dilania il mio tessuto, le loro parole che mi si attaccano sulla schiena fino ad opprimermi. Le stesse, identiche, parole che il giorno dopo si vergognano di aver messo l’una dietro l’altra.
 
Se ancora sopravvivo è tutto merito della Federazione. Di quei parrucconi imbalsamanti che occupano poltrone e scrivanie. Sono stati loro a stabilirlo. Niente allusivi numeri 77, niente nostalgici 88, niente finti estrosi 99. Niente di niente. Solo un banale elenco di maglie in ordine crescente che va dall’1 al 25. E allora ecco che anche io, la maledetta numero 19 del Real Madrid, sono diventata imprescindibile. Più una condanna alla solitudine che una protezione dall’estinzione.
Fortunatamente non ho impiegato molto tempo per imparare ad accontentarmi delle briciole. Sia sul campo che fuori. Ho imparato a non farmi andare troppo stretto questo piccolo ghetto che mi hanno costruito intorno. Io sono quella diversa, quella che non viene mai scambiata a fine partita, quella che non viene mai richiesta da chi ha una qualche probabilità di finire su uno straccio di copertina. Anche in negozio è così. Nello sterminato negozio della società più opulenta del mondo. Nessuno si sognerebbe mai di fare la fila alla cassa per me. Mi tengono in disparte, confinata e piantonata in un angolino mentre migliaia di turisti aspettano pazientemente che venga stampata la loro maglia di Beckham, la maglia di quel cantante pop del cazzo che sa giocare a pallone soltanto con un piede. Non che io sia invidiosa, ci mancherebbe. Anzi, all’inizio era stato anche divertente. Una serie di indizi sui miei poteri che si sono trasformati in una prova schiacciante col passare del tempo. Come nel 1998, quando le “meringhe” vinsero la Champions League e io non entrai in campo nemmeno per un minuto. Come nel 2000, quando il Real alzò al cielo di Parigi la Champions e io non rientrai nel tabellino dei marcatori. Come nel 2002, quando nessuno aveva avuto il coraggio di scegliermi e i blancos entrarono nella storia baciando per l’ennesima volta la coppa con le orecchie. È stato allora che le cose hanno iniziato a cambiare. Tutti hanno cominciato a farsi domande, a guardarmi con sospetto, a mettere in correlazione causa ed effetto. E il mio destino era segnato. Giornata dopo giornata sono diventata io la responsabile di tutto. Come se quei passaggi sempre troppo lunghi o troppo corti di un centimetro fossero colpa mia. Come se quelle entrate in ritardo fossero una mia scelta. Come fossi stata io a pensare che Fernando Sanz poteva essere un giocatore di pallone. 

Una figurina del mai raccomandato
 Fernando Sanz
Il primo ad avermi scelto è stato Mikel Lasa Goikoetxea. Il basco a tutta fascia col cognome che, qui nel calcio spagnolo, evoca brividi e maldicenze. Era arrivato dalla Real Sociedad con l’etichetta cucita dietro al collo di uomo che doveva rompere gli equilibri del campionato. Se n’è andato con la scusa di essere stato danneggiato dalla sentenza Bosman. Me lo ricordo ancora alla perfezione il povero Mikel. Mi portava a spasso lungo la banda sinistra con un’insicurezza capace di trasmettere anche una certa forma di affetto. Eppure, prima del nostro legame, il povero Mikel sembrava destinato a diventare un gigante. Qualche buona giocata, un paio di presenze in Nazionale, addirittura un titolo olimpico conquistato a Barcellona. Come se il calcio potesse finire a fare il cameriere di Pierre de Coubertin. Poi sulla nostra panchina si era seduto Fabio Capello. E Lasa era stato trasferito in una dependance del dimenticatoio. Un’anticamera per il suo trasloco all’Athletic Club.
 
Subito dopo è toccato a Fernando Sanz. Un difensore che ha fatto mettere le mani nei capelli ai tifosi del Real Madrid e a quelli del Malaga. Un difensore senza particolari doti tecniche ma che aveva un padre che come hobby faceva il presidente del Real Madrid e del Malaga. No, non fraintendetemi, non voglio sembrare maliziosa. Non sto dicendo che le domande legittime sul motivo della sua presenza in campo trovassero risposta in quella singolare coincidenza. Solo che sì, ecco, non ci voleva poi tanto per capire che le sue spalle non erano così robuste da reggere il peso di questo blasone. Questioni di testa, di stomaco che si attorciglia su se stesso al momento di entrare in campo, questioni di carattere.
 
Lo stesso carattere che è mancato anche a uno come Nicolas Anelka. Quando mi ha ereditato dal figlio del presidente, era l’estate del 1999. Allora quel francesino dallo sguardo truce e dai modi poco eleganti era sbarcato dalla perfida Albione per 23 milioni di sterline. Una carrettata di soldi che sembravano spiccioli per l’uomo che doveva aiutarci a vincere tutto. Una spicciolata che si è trasformata in un patrimonio per un attaccante capace di mettere insieme solo due gol in tutta una stagione. Lorenzo Sanz prima gli aveva fatto firmare un contratto di sette anni, poi si era presentato davanti alle telecamere e aveva annunciato: “È la più grande follia che potevamo fare”. Una battuta imbevuta di piaggeria che ben presto aveva assunto i contorni cupi del presagio. Nicolas non stava simpatico a nessuno qui. Non che lui si sforzasse troppo di passare per buontempone, sia chiaro. Però in quei mesi vissuti al Bernabeu si era sentito addirittura boicottato. Lui aveva provato a far finta di niente, a tirare dritto per la sua strada, a infischiarsene di tutto quello che dicevano sul suo conto. Eravamo solo io e lui. Lui e io contro tutti. Contro la società, contro i tifosi, contro i nostri stessi compagni. C’eravamo fatti forza a vicenda io e Nicolas. Solo che quando calpestavamo l’erba verde del rettangolo di gioco ecco che iniziava a sentire nostalgia. Nostalgia della sua Francia, nostalgia dell’Inghilterra, nostalgia di qualsiasi posto lo facesse sentire a casa. Un posto che, evidentemente, doveva essere lontano anni luce da Madrid. Per mesi interi l’avevo sentito frignare e lamentarsi, lamentarsi e frignare. Fino a quando ne avevano avuto abbastanza di lui. Tutti. Anche Vicente Del Bosque. Anche il mansueto Vicente Del Bosque.
 
Un giovanissimo Anelka. A Madrid giuravano
che non potesse attraversare la strada da solo
A soli vent’anni Nicolas aveva capito che la sua carriera nel club più importante del mondo era finita ancora prima di iniziare. Così decise di far sentire le sue ragioni. E lo fece nel modo che in quel momento gli riusciva meglio, facendo finire sotto i riflettori i suoi colpi di testa e non le sue giocate. Per tre giorni non si era presentato agli allenamenti, poi si era sfogato sui taccuini di France Football. “Mi trattano come un cane. Ho letto cose incredibili. Che passo il mio tempo al telefono, che sono una bestia, che nemmeno so attraversare la strada da solo. È stato chiaro da subito che non mi volevano. Hierro andò da Sanz, quando questi annunciò il mio ingaggio, e disse: ‘Presidente, abbiamo già Morientes, non ci serve un’altra punta’”. E al mansueto Del Bosque non rimase altro da fare che metterci fuori squadra per 45 giorni e trattenerci 360 mila euro dallo stipendio. Anche per questo, alla fine, Nicolas mi era diventato simpatico. Un po’ ci assomigliavamo io e lui. Tutti e due sempre pensierosi, tutti e due guardati in cagnesco dal resto del gruppo, tutti e due sopportati a fatica. Eravamo diventati un tutt’uno, due facce della stessa medaglia. Tanto che dopo qualche mese nessuno sapeva più dire se lui giocava da schifo per colpa mia o se io ero diventata una iettatrice anche a causa delle sue risibili prestazioni. Un legame malsano, un idillio che non poteva durare. L’estate successiva Anelka salutò tutti senza troppi salamelecchi e se ne tornò a Parigi. Nella sua Parigi. Nell’unica città dove poteva ricominciare a giocare a calcio.
 
Per qualche giorno tutto tornò alla normalità. Gli altri giravano alla larga da me, evitavano di fissarmi, di prendermi in mano. Qualcuno addirittura si rifiutava di pronunciare il mio nome. Poi il mister decise di promuovere in prima squadra Jorge López Marco, per tutti Tote. Un ragazzo che nella cantera aveva spazzato via da solo intere difese. Testa, sangue freddo, senso del gol. E in più il vizio di mortificare gli avversari con quel tocco che aveva imparato alla perfezione. Un tocco che sapevano sfoderare in pochi e che faceva arrabbiare tanti. Un tocco che si chiamava rabona. Non ci aveva messo molto a scegliermi, Tote. E non aveva esitato neanche per un attimo. Come se le leggende messe in giro da quelle malelingue facessero il solletico all’autostima del “Señor de la Rabona”. Un talento straordinario che aveva bisogno solo dell’occasione giusta per esplodere. E di occasioni, Vicente del Bosque ce ne concesse addirittura sette. Solo che dopo il primo scatto il talento di Tote cominciava a evaporare. Piano ma inesorabilmente. Ogni secondo che passava in mezzo a quel prato le sue gambe diventavano più dure, i suoi occhi che trovavano sempre meno corridoi dove far correre il pallone, la porta che diventava sempre più piccola e lontana. Non esattamente le doti che vengono apprezzate nel club più famoso di questo continente vecchio e marcio. E poco importava quanto ci impegnassimo durante la settimana. Sudore, mascelle serrate e tanta corsa. Ma poi, quando arrivava il momento di fare sul serio, ecco che Tote spariva. Puntuale come le tasse o come uno schiaffo che ti colpisce appena pensi di esserti sistemato. Un copione che è andato avanti fino a gennaio. Poi un dirigente si è avvicinato e ha cominciato a parlare con Jorge. Una stretta di mano, una pacca sulla spalla e un incitamento. Tutto qui. Una stretta di mano, una pacca sulla spalla e un incitamento. E Tote è stato spedito a fare esperienza a un altro Real. Il Valladolid. Una mano sudaticcia che ti sia appoggia dietro la schiena mentre un’altra mano sudaticcia ti mostra l’uscita. E la tua carriera inizia a precipitare e ad avvitarsi su se stessa.
 
Portillo e Tote. I ragazzi di Coppa (!)
Dopo quell’ennesimo divorzio me ne sono stata buona per quasi un anno e mezzo. Più per necessità che per una mia scelta. Ho aspettato la fine della stagione in un angolo senza che nessuno mi prestasse attenzione. Un disinteresse dal quale speravo potesse nascere un legame, una quarantena dalla quale pensavo potesse nascere un briciolo di compassione. E invece niente. A luglio nessuno se l’era sentita di rischiare, di provare a dimostrare che tutte quelle storie sui miei poteri erano solo delle palle. Delle colossali palle. Ero tornata ad essere invisibile e sola. Un numero cancellato da una lista con un tratto di penna. Il mio mondo era tornato ad essere nero. Un universo senza colore dove tutto sembrava poter cambiare solo in peggio. Poi, quando sembrava tutto immobile e stanco, ecco che a spezzare l’incantesimo ci ha pensato un ragazzino. Un ragazzino che era arrivato dall’Argentina ancora giovanissimo e che in Argentina era stato subito rispedito a farsi le ossa. Per quattro anni. Un ragazzo che aveva un piede educato ma che sapeva perfettamente quando in campo era il momento di picchiare. Un ragazzino che si chiamava Esteban Cambiasso. La prima volta che mi ha indossato, Esteban aveva il cuore che gli pulsava all’impazzata e una decina di capelli che ancora non si erano arresi alla forza di gravità. Si era capito subito che non sarebbe durato molto qui. Non era bello, non era un personaggio, le sue giocate non strappavano nessuna esclamazione di meraviglia. Faceva tanta legna, quello sì. Ma a volte anche un pregio può trasformarsi in un difetto quando porti sul petto uno stemma sovrastato da una corona. Per due stagioni abbiamo combattuto in mezzo al campo. Due anni senza che nessuno della dirigenza si facesse vivo per rinnovare il suo contratto in scadenza. Così Cambiasso aveva acquistato un biglietto di sola andata per Milano e aveva firmato per l’Inter di Massimo Moratti. L’ennesimo abbandono, l’ennesima coltellata, l’ennesimo talento messo in fuga da un club troppo vorace. Ma allora non c’era stato tempo per capire l’errore che si era appena fatto. Si usciva dalla gestione di Carlos Queiroz. Dalla disastrosa gestione di Carlos Queiroz. Dodici mesi che avevano trasformato la casa blanca in un cumulo di macerie e che avevano annegato i galacticos nelle paludi del quarto posto. Bisognava ricostruire tutto. E bisognava farlo alla svelta. Così a maggio, prima della gara contro la Real Sociedad, Florentino Perez aveva preso la parola e aveva annunciato urbi et orbi il grande colpo. “Lunedì farò un annuncio che restituirà l’entusiasmo alla tifoseria del Real Madrid”, aveva dichiarato mentre il Valencia si cuciva lo scudetto sulla maglia. Un colpo che avrebbe fatto schiumare di invidia tutta Europa. Un colpo che si chiamava Walter Adrian Samuel.
 
Quell’anno ci misi un attimo ad accasarmi. A Roma Walter indossava il numero 19. Un numero dal quale, per motivi scaramantici, non voleva affatto separarsi. Avevamo iniziato anche bene, io e Samuel. Lui non era uno che si lasciava intimidire. No, lui le emozioni riusciva a chiuderle nell’armadietto. Sempre. Lui era quello che nei primi cinque minuti ti aveva fatto assaggiare i tacchetti, ti aveva spiegato che quell’area di rigore era la sua area di rigore, un tempio dove dovevi entrare in silenzio e dal quale dovevi uscire il prima possibile. Senza lasciare segni del tuo passaggio. E questo era tutto quello di cui avevamo bisogno. Solo che poi Florentino riuscì a sbagliare tutto. Dopo tre giornate cacciò José Antonio Camacho,  alla 17° silurò Mariano García Remón e mise tutto nelle mani di Vanderlei Luxemburgo. Tre allenatori che non riuscirono a mettere a posto la cosa più importante: la retroguardia. Vaglielo a spiegare ai tifosi che fra Roberto Carlos, Iván Helguera e Michel Salgado era difficile trovarne anche uno solo avvezzo alla fase difensiva. Tutti puntarono il dito contro Samuel. Lui, il difensore venuto dall’Italia con la fama di “muro” e che qui in Spagna veniva giù rapido come un tramezzo. Lui, il difensore costato 23 milioni di euro. Una cifra che, per uno che gioca dietro, da queste parti viene vista come un abominio. E così, a fine anno, anche Samuel aveva acquistato un biglietto di sola andata per Milano e aveva firmato per l’Inter di Massimo Moratti.
 
Sinceramente un po’ mi ero stufata di questo continuo tira e molla, di questa condanna a ricostruire sempre tutto da capo anno dopo anno. Così, quando nessuno mi aveva scelto per la stagione successiva, avevo tirato un sospiro di sollievo. Un ammutinamento forzato che aveva il gusto dolce della liberazione. Ero stanca. Stanca di essere umiliata per loro, di essere insultata, di dovermi sentire inadeguata. Poi, quando a gennaio venne annunciato l’acquisto di Antonio Cassano, avevo iniziato a convincermi che le cosse potessero cambiare. Sul serio. Finalmente ero finita sulle spalle di uno che con un tocco poteva cambiare la partita, di uno a cui bastava un guizzo per riscrivere la storia. Finalmente ero finita sulle spalle di uno che viveva al confine fra il genio e la follia. Sarei finita in copertina. E l’avrei fatto spesso. “Ecco la giocata di Antonio che ha risolto la partita” avrebbero scritto i giornalisti. “Guardatelo mentre esulta con la sua maglia numero 19” avrebbero urlato i tifosi. D’altra parte qui da noi gli italiani avevano lasciato un ricordo di quelli difficili da obliare. La prima volta che don Fabio Capello si era seduto sulla nostra panchina si era portato dietro Panucci. E aveva avuto ragione. Christian menava e si pettinava, macinava la fascia e si pettinava, crossava e si pettinava. E segnava, anche. Come al suo esordio con la maglia del Real. Prima aveva risolto la partita con un gol decisivo, poi si era seduto ad ascoltare le domande dei cronisti. “Panucci, veni, vidi, vici?” gli aveva chiesto qualcuno. “Biri biri biri? Io non capisco biri biri biri” aveva risposto lui. Uno scivolone che non gli aveva comunque impedito di diventare uno dei leader del nostro spogliatoio.
 
L'unica vera maglia di Cassano al Real Madrid
E così pensavo potesse essere anche con Antonio. Un sogno che avevo chiuso a chiave nel cassetto il giorno della presentazione. E non era a causa di quel giubbotto peloso con cui si era presentato davanti ai fotografi. La prima volta che Antonio mi aveva indossata mi ero quasi sentita male. Aveva infilato orima la testa, poi le braccia, infine giù fino a infilarmi nei pantaloncini. Avevo sentito la sua pancia tendermi di qualche centimetro in avanti, i suoi fianchi riempirmi fino quasi a deformarmi, la sua carne dilatarmi fino allo spasmo. Era grasso, Antonio. Quattro chili sopra il suo peso forma aveva sentenziato il preparatore della prima squadra. Ma in quel momento questo dato non era importante. Quello che importava era che Antonio sorridesse e salutasse i tifosi con la mano. Per pensare al futuro c’era tempo. Qualche giorno dopo io e Cassano avevamo esordito in un incontro di coppa del Re in casa del Betis. Un giorno che non dimenticherò mai. Un giorno che tutti i tifosi del Real non dimenticheranno mai. Io e Antonio eravamo entrati in campo nel secondo tempo mentre un soffio di speranza aveva riempito i polmoni dei tifosi che ci avevano seguito in trasferta. Ci erano bastati tre minuti per segnare e vincere una partita che sembrava maledetta. Un avvio da sogno al quale era seguito un finale da incubo. Juan Ramón López Caro aveva deciso di impiegarci col contagocce. E praticamente mai dall’inizio. Una strategia che aveva relegato il Real Madrid al secondo posto della Liga. L’ennesima stagione da nascondere sotto al tappeto, l’ennesima ricostruzione da tirare su a colpi di acquisti. Per prima cosa Ramón Calderón Ramos decise di restituire le chiavi della squadra a Fabio Capello, l’unico in grado di conciliare solidità collettiva e fantasia individuale. La cura migliore per un talento dilapidato come quello di Cassano. Ma quelli non erano più affari che mi riguardavano.

In estate Antonio era ritornato al suo primo numero, a quel banale numero 18 che si portava dietro da sempre.  E io, nell’indifferenza più totale, fui sballottata sulle spalle José Antonio Reyes Calderón, l’asso gitano proveniente dall’Arsenal che solo qualche settimana prima aveva riempito suo malgrado le pagine di tutti i quotidiani della penisola. Nel cuore del ritiro della Spagna ai mondiali tedeschi, infatti, Luis Aragonés aveva preso da parte il suo esterno e aveva provato a motivarlo come meglio credeva. “Al negro digli che giochi da solo. Digli: negro, sono meglio di te. Digli: me cago en tu puta madre negro de mierda. Sono meglio di te”. Solo che quel“negro di merda” era Thierry Henry. Uno il cui nome viene pronunciato con una smorfia di rispetto in ogni angolo del Regno Unito. Un paragone che aveva finito per fagocitare José Antonio fino a renderlo inoffensivo. Così inoffensivo che quelle parole farcite d’odio che gli aveva rivolto il suo tecnico rimasero le uniche tracce che Reyes aveva lasciato in quella annata. Dodici mesi così incolori che non potevano che terminare con un addio. Ed è stato dopo quell’ennesimo abbandono che per me le cose sono cambiate. Dopo quel divorzio non sono più riuscita ad innamorarmi di nessuno. Era come se sapessi che, tanto, da un momento all’altro sarebbe tutto svanito, bruciato, finito. Negli anni successivi ho visto Julio Baptista trasformarsi da Bestia ad animale da cortile, Klaas-Jan Huntelaar sparare alle stelle palloni che dovevano soltanto essere appoggiati in rete, ho guardato Ezequiel Garay farsi scherzare dagli attaccanti che tutto erano fuorché letali, Raphaël Varane impantanarsi nel ruolo di giovane promessa sempre sul punto di esplodere. È stato divertente, lo ammetto. Ma avevo capito che qualcosa era cambiato. Ero diventata vittima di me stessa, ero intrappolata nelle pagine di un libro che ripeteva all’infinito sempre lo stesso identico finale. Non c’era giorno in cui io non desiderassi di sparire ed essere dimenticata. Ma non potevo. E la colpa era tutta della Federazione. Di quei parrucconi imbalsamanti che occupano poltrone e scrivanie. Ero condannata a sopravvivere. Una parte essenziale di un gioco che iniziavo a detestare. E lo sarei stata per sempre. Io, la pecora nera di una squadra vestita di bianco come le meringhe.  

lunedì 14 ottobre 2013

Breve elogio di KS, ovvero della mia estetica capovolta


KS

INCIPIT

Ho sempre subito il fascino dei centrocampisti talentuosi e dal passo felpato. I corazzieri - per quanto essenziali  al gioco - non hanno mai eccitato le mie fantasie pallonare.

Accade poi che si presenta in Italia KS, forse - ma ne sono quasi convinto - con l’unico intento di distruggere le mie convinzioni.

Ricordo che l’anno scorso mi aveva già colpito nella doppia sfida con il Napoli in Europa League ma - memoria in panne - ne avevo riportato un’impressione, seppur del tutto positiva, pienamente diversa dalla reale composizione del suo gioco. Lo ricordavo giocare nel mezzo, qualche metro più avanti, propenso più agli spazi tra le linee che all’ossatura dello scacchiere.

Ecco dunque. KS - sia maledetto -  ha distrutto la mia estetica.

Due tocchi. Prestanza fisica. Posizione sempre puntuale. E poi esplosività, ritmo di palla. Non ricordo di aver mai visto un calciatore con le sue caratteristiche, non nel campionato italiano almeno. Senz’altro mai sulle rive del Tevere. Sono ormai parecchie partite che lo studio, che cerco di addossargli dei limiti.

NIENTE

Un giocatore fantastico. Una faccia da calcio fantastica. Un capolavoro arrivato a Roma per motivi a me inspiegabili.

Ma torniamo alla mia estetica capovolta. Non divaghiamo.
È come quando, sedicenne, hai deciso qual è il genere di ragazza che fa per te. Arriva immancabile il giorno nel quale ne conosci una che - sommandone le qualità - diresti proprio non interessarti. E puntualmente te ne invaghisci.

Ugualmente in controtendenza il nostro KS.
La velocità sostituita dal tempismo. L’aggressività dalla potenza. Il dribbling lascia spazio alla lettura degli spazi, l’imprevedibilità all’essenzialità.
Eppure la palla è sempre pulita, la puoi trovare lì dove deve stare, prima di andare dove deve andare.

Riempirsi gli occhi di semplicità è compito arduo: disciplina da apprendere con diffidenza. Roba per palati fini, sembrerebbe.

Peraltro del tutto fuori contesto il nostro KS, in mezzo agli strappi dei vari De Rossi, Gervinho e Florenzi.

Paradosso dei paradossi, è il giocatore nella rosa giallorosa che, per atipicità, maggiormente mi ricorda Totti, a sua volta ossimoro (e sintesi) del classico numero 10.

Ed è qui che, interrogandomi, formulo il mio giudizio estetico “capovolto”: occorre superare il bello soggettivo per conoscere  il bello naturale che si esprime - Kant insegna - nel sentimento del sublime. 

Bisogna pertanto ammettere che nel calcio e, quindi, nella vita, esistono espressioni - artistiche o meno - che superano la valutazione soggettiva del gusto, per trascendere nell’oggettività della constatazione del bello in senso assoluto.

Ho la mia conclusione, o sintesi che dir si voglia: KS è più forte in senso assoluto, a prescindere dal mio gusto personale.
E che non si dica che guardare una partita sia un mero esercizio visivo, potendo facilmente trascinarci nel mondo dell’esegesi, se non anche nel metodo della filosofia pratica.

Distrutto da cotanto esercizio, vi saluto con l’altra mano.

giovedì 10 ottobre 2013

Quell'anno in cui impazzii per il Castel di Sangro



Introduzione

Non è solo mera questione anagrafica. In altre parole, meno criptiche, il fatto che sia nato a metà degli anni '80 - secondo il mio sindacabile parere - non ha contribuito in maniera decisiva al fatto che ad oggi reputi il calcio di metà anni '90, almeno alle nostre latitudini, il più eccitante e “mitologico” di sempre. La giusta mistura di tecnologia e “old fashion”, quell'epoca di mezzo in cui si passava con incoscienza dai due ai tre punti, dalla numerazione classica a tutto lo scibile a due cifre, dalla melina con portiere annesso al divieto di effettuare il retropassaggio all'estremo difensore (si, vabbé, al fatto che poi avesse potuto prenderla con le mani); un'era di soldi e vittorie, di eccentricità e album di figurine tra i più sentiti, di posticipi e anticipi, Telepiù, televideo a go go e coppe europee (tre... senza considerare l'Intertoto e un po' prima il torneo anglo-italiano) che avevano ancora il loro fascino intatto. Non poteva che incastonarsi in un contesto così puro - eppure agli albori di una marcescenza che farà sentire tutto il suo olezzo a inizio millennio - la storia di un paese poco più che minuscolo capace di scalare categorie fino ad arrivare in Serie B.

Nessun Chievo allora, nessun Albinoleffe, figurarsi se squadre come Giacomense o Castel Rigone si sarebbero sognate di giocare tra i professionisti; solo nobili, più o meno importanti, più o meno provinciali, che imperversavano nei quattro campionati maggiori, da nord a sud, a suon di derby, giocatori dal futuro assicurato, icone per presidenti e stadi traboccanti passione. E poi c'era il Castel di Sangro, squadra persa tra le montagne abruzzesi, poco più di 5000 abitanti, un presidente con le mani in pasta e l'entusiasmo di quello bello, lo stesso che l'aveva trasformata da una tosta compagine alla periferia dei radar peninsulari - che aveva vinto tra l'anonimato la finale play-off di C2 contro il Fano - in una vera e propria realtà del panorama calcistico italiano: dodici mesi prima aveva fatto piangere il Livorno (e il già citato Fano), nel giugno del 1996 si guadagnò le copertine (e una puntata di Sfide) per aver compiuto il miracolo, quello del doppio salto: il “Castello”, come veniva affettuosamente chiamato da tifosi e media, si posizionò secondo dietro il Lecce nel Girone B di terza serie, durante la post-season si sbarazzò prima del Gualdo e poi dell'Ascoli allo Zaccaria di Foggia, una sfida vinta ai rigori grazie a super Spinosa, portiere agée che, dopo il gol di Fusco, sventò il rigore di Milana e portò in Serie B lo sconosciuto Castel di Sangro.

Prologo

Ma veniamo a me. Avevo 12 anni e il mio bel da fare per stare dietro alle squadre del mio cuore, non una ma addirittura due: la Juventus, fresca vincitrice della Champions League, e la Salernitana, per due anni a un passo dal paradiso con Delio Rossi prima e Franco Colomba poi (due quinti posti e Serie A solo “annusata”). Ricordo era estate e sfogliando la Famiglia Cristiana, immancabile presenza dirimpetto al wc, fiondai l'attenzione su un articolo posto proprio nel mezzo, lì dove si vedono i piccoli ganci della rilegatura, posto riservato ai “pezzi” più fortunati perché quelli che vengono scorti più facilmente. Una bella foto di gruppo, festosa, i giocatori del Castel di Sangro in tuta che festeggiano nel centro del paese la promozione in cadetteria. Leggo dell'allenatore Osvaldo Jaconi, sanguigno e tarchiato dai baffi brizzolati, del presidente Gabriele Gravina, un bell'uomo dalle idee chiare, già all'opera per arrivare a posizioni di rilievo in Federcalcio, del vecchio Spinosa, e poi di un manipolo di giovanotti che a suon di gol, pane e salame avevano scalato la montagna del calcio italiano arrivando fino in Serie B. Una roba da rimanerci affascinato, incantato, da venir fuori dal bagno continuando a pensare: che simpatici, sono proprio curioso di sapere come andrà l'anno prossimo. Fu in quel momento, ancora inconsapevole, che mi ritrovai piombato in un tunnel da cui vidi la luce esattamente 10 mesi dopo: un'ossessione, la mia personalissima e fantastica ossessione della stagione calcistica 1996/97. Quella in cui un ragazzetto malato di Juve e Salernitana decise di mettere da parte le sue storiche fidanzate per dedicarsi all'amante più ruspante, inutile e bizzarra che avesse mai immaginato e, va da sé, incontrato: il Castel di Sangro.

(Un bello, un brutto)

Serie B 1996/1997

Il campionato quell’anno cominciò l’8 settembre, il Castel di Sangro per le sue prime uscite in seconda serie prese in prestito il campo del Chieti. Pronti, partenza e subito tre punti contro il Cosenza, un successo che col senno di poi si sarebbe rivelato fondamentale. All'inizio non ero così convinto: con un orecchio teso ai risultati della Salernitana e un altro a quelli della compagine abruzzese (senza dimenticare la Juve), iniziai ad interessarmi davvero alle vicissitudini della squadra di mister Jaconi dalla terza giornata in poi, quando arrivò un’altra vittoria contro la Cremonese: il lunedì scorsi sulle pagine sportive de Il Mattino un trafiletto sulla cronaca della partita (l’unico di una squadra non campana), al pomeriggio poi vidi le azioni salienti della partita su Rai Tre (vi ricordate di “A Tutta B”?): rimasi affascinato dallo sponsor sulle maglie, Soviet Jeans, dal look di alcuni dei giocatori, dalla posizione di classifica di questa matricola impazzita che dopo tre turni aveva sei punti e continuava a stupire. Cominciai dunque a fare sul serio. Reperii un quaderno con le righe da terza elementare e iniziai ad appuntarvici tutti i risultati: appiccicai sulla copertina un foglio A4 debitamente ritagliato in cui scrissi il titolo, incollai subito l’articolo della Famiglia Cristiana all'interno, lasciai uno spazio per le figurine Panini dei calciatori che avrei trovato da qualche parte, presi da Il Mattino l’articolo che avevo letto, lo estirpai dal quotidiano e lo misi in bella vista (per le sfide contro Cosenza e Foggia mi limitai a riportare risultato e marcatori, con qualche ghirigori annesso). Avevo deciso, avrei riempito quel quaderno di memorabilia, cronache e ritagli di giornali (sportivi e non, ma anche di settimanali in cui per caso si parlava della squadra, Il Mattino continuò per tutta la stagione coi suoi trafiletti), per tramandare ad imperitura memoria l’anno magico del Castel di Sangro.

Per diventare tifoso d’emblée di una squadra di calcio bisogna fare tre cose: seguire le partite (all’epoca solo la cronaca via carta stampata o quando possibile radio), spargere la voce sulla nuova passione e procurarsi un gadget che attesti la propria fede. Riuscii a trovare una sciarpa del Benevento, era del mio compagno di banco, e me la feci prestare per un anno: stessi colori, sarebbe stata la mia inseparabile sciarpa dell’inverno. Poi creai una bandiera, minuscola, stile Mille Miglia: una cannuccia come asta, un foglio come drappo, tutta gialla e rossa con sopra appuntati i nomi dei calciatori. Simbolo e vessillo, la piantai nei pressi del mio banco, a scuola, per mettere subito le cose in chiaro: qui sta seduto un tifoso del Castel di Sangro. Ancora la conservo gelosamente. Come ovviamente conservo il quaderno.

(Volevo i jeans di marca Soviet!)

Fu una stagione sofferta e stracarica di emozioni, come raramente nella storia sportiva di un club di calcio. Ne successero tante e tante che ormai la gente mi guardava con compassione, come a dire: caspita, si è scelto la più sfigata tra le squadre. Innanzitutto iniziarono a fioccare le sconfitte, sempre fuori casa, sovente tra le mura amiche; quando il Teofilo Patini, lo stadio cittadino, fu pronto e omologato per la cadetteria, arrivò il Genoa e un diluvio universale che costrinse l’arbitro a sospendere la partita alla mezz'ora del primo tempo: un bel modo di inaugurare il nuovo impianto. Nuovo impianto che fu anche teatro di una beffa storica, organizzata dalla trasmissione “Il Guastafeste”: d’accordo con società, mister e giocatori, la Mediaset organizzò uno scherzo a giornali locali e tifosi. Fu annunciato, anche sul 229 di Televideo, l’arrivo in squadra dal Leicester del potente attaccante nigeriano Ponnick che, alla sua prima in un’amichevole nel gelo di un pomeriggio infrasettimanale, prima segnò gol spettacolari con la complicità degli avversari, poi iniziò a litigare con tutti insultando anche i tifosi. Quando fu rivelata la verità a Castel di Sangro non la presero bene.

(Maglia del portiere pixelata: bellissima)

Anche perché l’8 dicembre, dopo 13 giornate, il Castello giaceva ultimo in classifica con 10 punti e una partita da recuperare (quella sospesa); nonostante i molti schiaffi l’umore era intatto, almeno quello del tecnico e dei giocatori: che sarà mai una retrocessione, l’importante è vivere con entusiasmo l’avventura in Serie B. Poi la tragedia. Mi chiamò un amico, a casa: era il 10 dicembre, vigilia del mio compleanno, aveva letto sul Televideo di un incidente stradale in cui erano morti due giocatori del Castel di Sangro. Si chiamavano Danilo Di Vincenzo e Filippo Biondi, una mezza punta che aveva già segnato due gol da sei punti (Cosenza e Padova) e un giovane centrocampista di belle speranze che faticava a trovare spazio; erano dei nuovi acquisti, la piazza gelò. Io feci altrettanto. La partita successiva, in casa con la Lucchese, fu una sorte di funerale: i tifosi toscani espressero solidarietà a quelli abruzzesi, mangiarono insieme, poi andarono a vedere quel che restava di un incontro di calcio. Finì 0-0 con zero emozioni e ancor meno voglia, io mi presi il punticino, la cronaca del match e incollai anche quella triste vicenda sul quaderno, insieme a un articolo apparso su un settimanale in cui si parlava di Scirea, Lentini e altri incidentati.

La squadra cambiò marcia, incredibile ma vero l’episodio straziante caricò Bonomi e soci: in porta brillava De Juliis, autentico eroe nella vittoria casalinga contro la capolista Lecce (via via il secondo Lotti poi prese il sopravvento); ancora tre punti contro la Salernitana (per mia felicità!), quindi successo anche contro il Genoa nel recupero: 9 punti in tre partite, altro che ruolino di marcia per salvarsi. Il Castello si era trasformato in una squadra arcigna, Jaconi la schierava in campo prima con un classico 4-5-1 con Fusco e Prete terzini e tanta densità in mediana, poi passò al più coriaceo 1-3-5-1, il pisano Cei libero vecchio maniera, difesa e centrocampo vicini e fitti con due peperini come Martino e Bonomi a scorribandare sugli out per il bomber Galli, l’idolo di casa che però non si rivelava adeguato per la categoria, o Pistella, il big del calciomercato estivo. Ci volevano rinforzi, per questo a gennaio arrivarono Russo, Franceschini e Spinesi, quest’ultimo siglò due gol pesanti da 6 punti contro Palermo e Reggina. Ero in totale apnea, fremevo, scalpitavo e avrei tanto voluto che qualcuno della mia famiglia chiamasse  “Carramba Che Sorpresa” per regalarmi una giornata al Patini, con annesso incontro coi miei eroi.

Marzo fu un mese campale per il sottoscritto. Il buon Pierluigi Prete, il terzino sinistro della squadra, venne arrestato per una faccenda di droga, qualcosa a che vedere con l’importazione di cocaina dalla Colombia tramite la moglie sudamericana: di nuovo la gente mi chiedeva come andasse, cosa fosse successo, cosa sarebbe cambiato psicologicamente e tatticamente, dal canto mio delucidavo gli interlocutori e aggiornavo il quaderno. Poi arrivò il gran giorno: unico anticipo al sabato di tutta la stagione, il Castel di Sangro ospitava l’Empoli al Patini e per l’occasione arrivava Telepiù. Non me la potevo perdere, la mia prima volta: avrei potuto vedere un match intero, e non solo le azioni salienti, del mio Castello. Costrinsi papà ad accompagnarmi al ristorante, costrinsi il proprietario a trasmettere la partita, costrinsi la squadra a non regalarmi una delusione. Sconfitta per 0-2, ho ancora vivido nella mente il gol del raddoppio di Tricarico. Ad aprile la prima e unica vittoria esterna, a Marassi contro il Genoa: diluviava a Genova, diluviava in Toscana, ero fuori con la mia famiglia per il ponte della Liberazione e seguii la partita in radio, in auto. Ricordo la gioia.

(Osvaldone Jaconi re delle promozioni: mai nessuno come lui)

Ero all’Arechi di Salerno a vedere Salernitana-Ravenna (1-0, gol di Dell’Anno) quando mi giunse la notizia via etere: il Castello aveva battuto il Torino in 10 contro 11, gol di Di Fabio per il 2-1 definitivo dopo il pareggio momentaneo di Scarchilli. Tripudio. Ansia. Attesa: aspettavo l’8 giugno con impazienza, puntuale arrivò e andai in brodo di giuggiole. Salernitana-Castel di Sangro, costrinsi i miei a recarsi allo stadio due ore prima, non potevo perdermi un dettaglio. Ero combattutissimo, anche i granata giocavano per la salvezza, quello era un vero e proprio scontro da dentro o fuori: Cremonese e Palermo ormai erano andati, il Cesena e il Cosenza invece tallonavano per mantenere la categoria. Faceva caldo. Fuori lo stadio vidi un tifoso ospite con la maglia di Prete, avrei voluto strappargliela per farla mia. Alla fine fu un brutto match, risolto sui titoli di coda da Masinga: vinse la Salernitana, io non esultai. Il Castel di Sangro si sarebbe giocato la salvezza nel derby, alla penultima, contro il Pescara. La seguii su Quelli che il calcio, sui risultati in sovraimpressione. Gol di Pistella, pareggio di Di Giannatale, a ripresa inoltrata Claudio Bonomi scagliò un bolide da fuori facendo esplodere il Patini: finì 2-1, il Cosenza pareggiò a Padova, era fatta! “Il Castello si è salvato, il Castello si è salvato” cantavo il giorno dopo nel bus che mi conduceva insieme ai miei compagni di classe verso il pranzo di fine anno coi professori: continuavo a fare cori da stadio e loro, in qualche modo contagiati per un anno intero, intonavano insieme a me. Pazzia, la mia. Follia, sempre la mia.

L’ultima partita fu a Bari: i galletti avevano disperato bisogno dei tre punti per salire in Serie A. Nel libro di Joe McGinnis, che comprai qualche anno dopo e che si intitolava Il Miracolo di Castel di Sangro (uno scrittore americano aveva vissuto per un anno nel piccolo centro abruzzese per descrivere, come me ma con molti più mezzi, il mitico anno in B dei giallorossi), lessi che se la vendettero, 3-1 Bari e tutti a casa, sipario.

(Da leggere)

Epilogo

Il calcio è strano: vinci un’inutile partita, la prima del campionato, e alla fine ti rendi conto che era quella decisiva per la salvezza. Perdi l’ultima, altrettanto inutile, e rompi l’incantesimo. La stagione successiva il mio entusiasmo era evaporato, senza una spiegazione. La Salernitana ruminava calcio per salire in Serie A, la Juve combatteva testa a testa con l’Inter di Ronaldo, del Castello ultimo e senza identità, non seguivo neanche più i risultati. I migliori giocatori erano stati venduti (chissà perché ma molti finirono o all'Empoli, in A, o alla Fermana), Jaconi finì col dimettersi, McGinnis aveva lasciato il paese e la squadra smise di combattere. Ora di quella società non è rimasto più niente, fallita, scomparsa: solo le statue di Biondi e Di Vincenzo fuori lo stadio, un libro che nessuno più si ricorda e un quaderno di uno squinternato tifoso campano di 12 anni. Dentro sono custoditi due sogni: quello mio e quello di una squadra scalcagnata. Il Castel di Sangro.