giovedì 2 aprile 2015

Guida Galattica allo US Soccer #14


Islands of Adventures

Perché Orlando si chiami Orlando non è ad oggi ancora ben chiaro. Sappiamo che ad inizio Ottocento il principale insediamento della zona si chiamava Jernigan, da Aaron Jernigan, un mandriano che era riuscito a far suoi diversi terreni grazie al Florida Armed Occupation Act. Sappiamo che la leggenda vuole prenda il nome da Orlando Reeves, una sentinella americana che perse la vita durante una delle guerre contro i Seminole e che i discendenti di tale Orlando Savage Rees dichiarano che quel nome viene dal loro avo che possedeva terreni su terreni tra Florida e Mississipi.
Com’è come non è, Orlando è un bel nome per una città, suona bene in inglese.

Nel mondo Orlando è conosciuta come la capitale dei parchi di divertimento. Oltre ai quattro parchi tematici della Walt Disney (Magic Kingdom, il primo ad essere costruito, quello con il Cinderella Castle, per intenderci, Epcot, dedicato alla scienza, i Disney’s Hollywood Studios, Animal Kingdom, il secondo parco più grande al mondo e la Typhoon Lagoon), Orlando e dintorni offrono Sea World, Gatorland, il Wet ‘n Wild e la galassia di parchi Universal, che ricomprende il CityWalk Orlando, Islands of Adventures e gli Universal Studios Florida. Per i non amanti dei parchi tematici, meritano forse una visita l’Osceola County Welcome Center (Osceola era il più valoroso tra i capi Seminole) o i tanti shopping mall (tra questi, il Millenia) o il Lake Eola. Non credo comunque che Orlando sia una meta per chi non ama i parchi tematici, sinceramente.

Sono di Orlando Jack Kerouac, Wesley Snipes, per noi, Blade, e la drag-queen Tyra Sanchez. Orlando accoglie, inoltre, una delle comunità ispaniche più importante degli U.S.A. in virtù della forte immigrazione portoricana e cubana.

Ricardo Izecson dos Santos Leite - Kaka

La storia dell'Orlando City Soccer Club inizia a Austin, Texas. I colori sono il bianco ed il rosso dell'Austin Aztex F.C., club di proprietà di Phil Rawlins, fino a qualche tempo fa azionista dello Stoke City, e impegnato nella seconda e terza divisione americana. Nel 2010, Rawlins decide di spostare la franchigia in Florida, ad Orlando, appunto, dove il soccer manca dai tempi dei Miami Fusion e dei Tampa Bay Mutiny. Con l'occasione, la franchigia cambia nome, diventando Orlando City S.C., colori, viola e bianco, e annuncia l'intenzione di prendere parte alla Major League Soccer nel giro dei successivi 5 anni.

Quella da poco iniziata è la prima stagione dell'Orlando City in Major League Soccer. E l'inizio è di quelli buoni. Lo scorso febbraio è stata presentata anche la nuova mascotte, Kingston (a dire il vero un pò criticata per i colori sbiaditi) e i primi di marzo ha preso il via la Orlando City Purple Pride, una corsa dei supporters del club per tutta downtown Orlando.

In rosa figurano giocatori del calibro di Brek Shea (ex Stoke City e Birmingham City), Sean Patrick St Ledger (ex Boro, Milwall e Ipswich Town) e Kaka, con tanto di fascia di Capitano al braccio. Un pareggio all'esordio contro il New York City e una vittoria alla seconda giornata a Houston contro la Dynamo. Poi la sconfitta al Citrus Bowl - in attesa del nuovo stadio a downtown, a due passi dall'Amway Center, dove giocano i Magic di Victor Oladipo e Nikola Vucevic - contro Vancouver e il buon pareggio a Montreal. La stagione promette bene, l'esperienza di head coach Adrian Heath è quello che serve.

Qui trovate la sintesi del pareggio con Montreal, caratterizzato da fasi difensive rivedibili.
La squadra ha anche un profilo Instagram e un profilo Twitter.
 
Conch fritters

Una gita ad Orlando è l'occasione per assaggiare qualche specialità floridana, latinoamericana e vietnamita. Per iniziare fried gator tail e conch fritters. La fried gator tail è servita alla maniera del Sud tipo nuggets e accompagnata da salsa piccante. Una buona alternativa può essere il gator tail piccadillo: la carne viene cotta assieme a spezie di vario tipo e servita con riso e verdure.
Conch - che si pronuncia "konk" - è invece lo strombo, un mollusco di media grandezza. I conch fritters sono un piatto di origine bahamense. La carne viene panata in una maniera particolare (generalemente alla panatura si aggiunge la cipolla, il peperone e la cayenna) e fritta prima di essere servita con salsa tartara.
Non mancate una fetta di key lime pie: simile, nell'aspetto, alla cheesecake, con la quale condivide la base di biscotti sbriciolati imburrati, è un'esplosione di crema di lime e panna che passa prima al forno e poi per diverse ore in frigorifero.

Se non potete rinunciare al classico burger, tre mete imperdibili: that one spot, sulla West Colonial Drive in direzione Clermont (le foto parlano chiaro), Burger Craft, prima di Clermont, sul Lake Minnehaha, e BurgerFi (il più vicino è a Windermere), dove servono i panini con sopra grigliato il nome o con la lattuga al posto del pane.

*   *   *
Classifiche
Eastern Conference New York Red Bulls 7, D.C. United 6, New York City FC 5, Orlando City SC 5, New England Revolution 4, Columbus Crew SC 3, Toronto FC 3, Chicago Fire 3, Montreal Impact 2, Philadelphia Union 2 Western Conference FC Dallas 10, Vancouver Whitecaps FC 9, San Jose Earthquakes 6, LA Galaxy 5, Real Salt Lake 5, Houston Dynamo 5, Sporting Kansas City 5, Seattle Sounders FC 4, Colorado Rapids 3, Portland Timbers 3
Top scorers 3 reti: Fanendo Adi Portland Timbers, Clint Dempsey Seattle Sounders FC, Blas Pérez FC Dallas, Octavio Rivero Vancouver Whitecaps, Chris Wondolowski San Jose Earthquakes; 2 reti: Jozy Altidore Toronto FC, Fernando Aristeguieta Philadelphia Union, Kaká Orlando City SC, Robbie Keane LA Galaxy, Obafemi Martins Seattle Sounders FC, Ike Opara Sporting Kansas City, Kelyn Rowe New England Revolution, Lloyd Sam New York Red Bulls, Bradley Wright-Phillips New York Red Bulls.

venerdì 27 marzo 2015

Fuga da Via Tacito (ode alla leggerezza)


“That was fun yesterday
When you raged watered
But today’s a working day
And tonight’s a school night”
(Kurt Vile - Take Your Time)

La notizia che anche il caro Emilio è diventato papà mi ha spinto, ieri pomeriggio, a cercare qualche sprazzo di leggerezza.

Avendo qualche minuto a disposizione in ufficio, mi sono fiondato immediatamente alla ricerca dell’esempio di leggerezza più concreto ed allo stesso tempo intangibile che io conoscessi. Sentivo di aver bisogno di una leggerezza ideale, paradigmatica, irreplicabile. Desideravo allontanarmi per qualche ora, per qualche anno, da Via Tacito, dove lavoro, e tornare indietro nel tempo, sperando di ritrovarmi ad un certo punto nella taverna di casa di Emilio a San Saba, al piano sotterraneo, dove passavamo spesso i pomeriggi ed il grande camino era la porta che a turno difendevamo.

In pochi minuti mi sono avventato su un bellissimo video del “Mundo Deportivo” di diversi anni fa, che raccoglie tutti i gol di Ronaldo in casacca blaugrana con commento in catalano.

Non starò qui a descriverli uno per uno, sono noti a tutti e su di loro si è già scritto moltissimo.

Ho trovato la leggerezza che cercavo dopo appena 6 minuti e 32 secondi dall’inizio della riproduzione video. E’ Betis-Barcellona, è gennaio del 1997.

Dopo una strana carambola e qualche tocco incerto, O Fenômeno intercetta di sinistro un violento passaggio (forse di Giovanni, forse di un Luis Enrique quel giorno ispiratissimo autore di una tripletta) a 40 metri dalla porta, come avesse una calamita sullo scarpino, inizia a controllare la sfera e ad avanzare in obliquo. Si fa quindi passare la palla in mezzo alle gambe per disorientare gli avversari in una specie di doppio passo e, ai 30 metri, decide di innescare la magia.

Lo scatto sotto la curva del Benito Villamarín è bruciante mentre il crocifisso del brasiliano sobbalza al ritmo del cuore sotto sforzo, simulando il folle andamento delle sinusoidi dell’encefalogramma di chi sta rinascendo dopo 75 minuti di insulti, di cabròn urlati a squarciagola. Per un attimo la sua classica esultanza, il gancio destro al cielo con il pugno ben chiuso. Poi, all’improvviso, la leggerezza, la giovinezza, l’inesperienza, l'istinto: l’indice destro sulle labbra serrate in un interminabile invito al silenzio rivolto alla platea andalusa, Giovanni che lo raggiunge e tenta inutilmente di distrarlo, di farlo ritornare in sé. Ronaldo ansima, ha fatto un bello scatto, è senza fiato, ma non per questo allontana il dito dalle labbra che in quei giorni baciano con passione la bella Suzana.


Arrivano Popescu e Ferrer, Nadal e Luis Enrique, lo avvolgono, lo abbracciano, ma in realtà vogliono solo allontanarlo dalla linea di fondo. Lui sguscia via e appena è di nuovo da solo si porta nuovamente l’indice sulla bocca, stavolta rivolto verso un altro settore dello stadio.
Lo raggiunge anche Figo che lo prende dalla collottola per portarlo al cospetto di Guardiola e farlo uscire definitivamente dal trance. E’ Pep stavolta ad alzare il ditino e la voce, a scuoterlo, a richiamare la sua concentrazione, a riportarlo con la mente e con il corpo sul terreno gelato del Villamarìn con una vivace ramanzina, forse la prima seria lavata di capo per il ragazzo di Rio.

Ho sempre avuto un debole per i giocatori che zittiscono lo stadio altrui dopo una rete, anche se non saprei spiegarne il motivo. Probabilmente lo trovo un gesto liberatorio, come fosse qualche istante di rivalsa concesso dal destino allo spauracchio di giornata, a quello che sapeva che sarebbe stato complicato e che però ce l’ha fatta comunque anche se poi in fondo non è servito a nulla. Una celebrazione pagana. Come per la strana danza indiana di Luiso a Stamford Bridge, come per il girotondo di Batistuta al Camp Nou.

In verità, quel gesto compiuto da Ronaldo ha avuto il potere di catturare la mia attenzione non tanto per il suo effetto intimidatorio sul pubblico quanto per la sua causa, per il fatto d'essere stato partorito da chi un gesto del genere non era abituato a farlo, da un ragazzo tutto sommato rispettoso e presente a se stesso e che forse replicherà il "rito del silenzio" in una sola altra occasione in carriera. Il desiderio del Fenomeno di liberarsi per un istante delle sue pressanti responsabilità verso i compagni e verso il pubblico, esattamente come stavo cercando di fare io stesso ritagliandomi qualche minuto nell'ennesimo, monotono, interminabile, pomeriggio di lavoro e di pressioni.

Ronaldo era la leggerezza, il potere di far svanire il proprio corpo e riuscire a traslarlo in pochi istanti dall’altra parte del campo, alle spalle del portiere di turno.

In un pomeriggio di fine marzo del 2015 il Fenomeno mi ha riportato nella taverna di Emilio, davanti al camino, con una palla di spugna da un lato e l’Amiga acceso dall’altro. Non c’erano figli all’orizzonte, non c’erano doveri, c’erano solo le nostre partite e le pizzette rosse del forno di San Saba, quello accanto all’alimentari del Sig. Spuntarelli.

Poco prima di tornare a concentrarmi sul lavoro, ho trovato casualmente una foto di Ronaldo che non avevo mai visto. E' la foto del penalty che permise al Barca di sconfiggere il PSG e di portare a casa la Coppa delle Coppe ’97.



Il Fenomeno ha appena iniziato la rincorsa nella lunetta e si appresta a calciare. Qualcuno dagli spalti ha lanciato verso di lui un fumogeno che inspiegabilmente, a causa dell’effetto prospettico della foto, non appare minaccioso. E’ più simile ad una stella cometa, scagliata dalla sfera celeste a santificare quel momento e quella vittoria, a glorificare me, Emilio, suo figlio e la nostra antica leggerezza.

mercoledì 4 marzo 2015

Il Montefeltro del pallone: tra Edipo e Daniele Zoratto



1) Urbino, 1991-1995

Ai tempi dell’oratorio non eravamo che il germe della ciurma di blasfemi e fumatori che avrebbero animato nel giro di qualche anno i vicoli dell’Urbe. Coltivavamo con parsimonia il mito di un tale Angelo, molto più grande di noi, che aveva giocato nel vivaio del Parma e poi nelle serie minori. Sapevamo anche che se giocavi bene ti prendeva il Cesena. Sapevamo che Andrea e Simone a 16 anni avevano fatto alcune presenze nella Vis, che Danilo non aveva passato il secondo provino con il Toro per colpa (versione mai confermata) di un piatto di tagliatelle ai funghi maldigerito nell’incauto pranzo pre-partita, che altri (Mattia, in particolare) si erano rotti il crociato alla vigilia del provino della vita. Quelli forti arrivavano al massimo tra Pesaro e Fano; qualcuno, più di rado, finiva tra Ancona e Ascoli. Sapevamo che l’Urbino negli anni Quaranta aveva militato in C e che tale Gaudenzio Bernasconi, ex-Samp e Nazionale, aveva trascorso un periodo a Urbino tra 1968 e 1970: allenatore-giocatore, che manco Vialli al Chelsea.

A parte che ero scarso duro e stavo in panca anche ai tornei tra le varie sezioni delle scuole medie, avevo capito con buon anticipo che nessuna società avrebbe posseduto il mio cartellino. Non ho mai disputato una partita d’addio: dei miei scarpini appesi al chiodo si sono accorti solo i più nostalgici del me grasso e novenne, che aveva qualche chance come difensore centrale quando tutti erano alti uguale. Scelta saggia, avrei pensato in seguito. Meglio il nozionismo di chi ne parla senza giocarci. Ricordare a memoria Figurine; collezionare magliette-rarità: l’armadio raccoglie, a tutt’oggi, quintali di polyestere declinati in Overmars all’Arsenal, Gullit al Chelsea, Savicevic financo al Rapid Vienna, Butragueño al Real.

Non l’ho mai troppo capita, questa propensione dei miei (di miamadre, in particolare) a disprezzare gli sport di squadra. A parte che ero scarso e non potevo certo imputarlo a loro, non gradivano che mi sbucciassi le ginocchia e consumassi tute sempre nuove e di marche importanti. Volevano che portassi la camicia e la riga da una parte: benché atei e compagni di prim’ordine (la tecnica della persuasione “porta a porta” era rievocata con grande pathos ad ogni elezione comunale, prima che diventasse appannaggio nord-leghista) temevano il mio contatto con la bestemmie e la suburra, con le botte in campo e le goliardate in spogliatoio. Sottoproletariato culturale, they said.

Dunque tennis, nuoto, bicicletta. Purché non ci fosse squadra. Purché si rimanesse ben distanti da qualunque ambiente replicasse lontanamente quella specifica modalità di aggregazione. Tennis, per non sbagliare, anche con un maestro privato. Centri Federali Estivi; il C.O.N.I.; Serramazzoni.
Ormai ginnasiale, mi restava solo la saltuaria soddisfazione di giocare - solo nei tornei scolastici - nella squadra del Bomber: uno alto un metro e sessanta che in qualunque sport dava la merda a tutti, con cento metri in undici secondi e 180 centimetri di salto in alto. Mi è sinceramente dispiaciuto, quando anche il mio Bomber ci ha rinunciato: ho appreso solo di recente che, passato al calcetto, il Bomber si è trasformato in difensore e rompe i culi stricto sensu. Tutti hanno avuto almeno un conoscente Bomber, una volta nella vita, ma sono pronto a giurare che il mio meritasse la qualifica molto più di tutti gli altri simil-bomber di cui i miei colleghi millantavano conoscenza diretta. I miei amici, nel frattempo, qualche presenza l’avevano pure fatta: D, Eccellenza, Promozione. Stavano iniziando piano piano, a dare la colpa alle dirigenze, a procuratori che via via bruciavano i loro sogni trequartistici obbligandoli a pensare all’Università, se non alla ricerca di un lavoro per subito.

Comunque non mi è mai andata giù, ‘sta roba del “sottoproletariato culturale”.

Culla del Rinascimento, fine dei sogni calcistici.


2) Piobbico (PU); Parma (PR); Padova (PD), 1975-1995


Il Montefeltro è terra di fatiche, di abnegazione non ripagata, di monti che cingono persone che guardano a quegli stessi monti come a dolci catene cui imputare ogni insuccesso. È la prigionia della gente d’Appennino, condannata a contemplare con amore folle una terra straordinaria e maledetta. Daniele non fa eccezione: anche a lui quelle colline sembrano un giorno mostri e un giorno amici del cuore. Anche senza la minima idea di chi sia Paolo Volponi, Daniele sa che il cammino che potrà portarlo via da quella classe di geometri di Urbania, dove è l'ultimo non solo per ordine alfabetico, è tortuoso almeno quanto i suoi monti. Gli è successo, incidentalmente, di diventare un mediano polmonare, di concentrarsi cioè ossessivamente sull'andare su e giù. Non è che non voglia fare il geometra, Daniele: è solo che non vuole fare il geometra per forza. 

In realtà Daniele non è un sentimentale. è anzi un discreto stronzo e se ne compiace. Se in campo non parla, in classe non è il ragazzino impacciato davanti ai professori che lo correggono; risponde spesso di traverso e quando può prende per il culo i più disadattati. A cosa si giochi, nelle ore di ginnastica, è superfluo domandarselo: intanto perché al geometra sono tutti maschi; in secondo luogo perché Daniele, democraticamente, impone a tutti la sua politica. Certo non ama studiare: riversa tutto il suo odio su quella di diritto, un'aristocratica venticinquenne che ha avuto una supplenza annuale nel bunker urbaniese e che presto diventerà avvocatessa. La odia, perché ha proposto di non fargli passare l'anno. Daniele è venuto a saperlo dalla madre, dopo i colloqui di metà quadrimestre. “Signora Zoratto” si è sentita dire la madre dal corpo docenti “non ci è chiaro se il ragazzo non si applichi o sia un po', come dire, limitato nell'apprendimento. Soprattutto, signora, il problema è che il ragazzo a volte è molto sgarbato”. Mamma Zoratto ne soffre, perché vorrebbe che il figlio si togliesse da sotto le unghie quella terra che per generazioni ha sporcato le mani di tutta la loro famiglia e li ha costretti ad emigrare in Lussemburgo, dove Daniele, peraltro, è pure nato. In realtà Mamma Zoratto soffre più per lo “sgarbato”, ma quando torna e s’incazza la butta prevalentemente sul discorso dei voti. Teme che dovrà rassegnarsi molto presto: Daniele, il tempo per fare i pallosissimi compiti di diritto, non ce l’ha. Come tutti i quindicenni molto forti a pallone. 

Daniele si allena quattro volte a settimana, il sabato ha la partita e ogni tanto lo mandano nell'under. Se rimane almeno un altro anno a Piobbico lo porteranno in prima squadra, nei dilettanti. Potrà fare qualche presenza, avrà centomila lire al mese e si vedrà messo alla prova in una categoria già importante. Vedrè che quest’ maché i dilettanti li magna, dicono i piobbichesi classe millenovecentodieci che passano i pomeriggi a vedere gli allievi di quello strano capitano, arrogante ma muto, che non segna nemmeno per sbaglio. Hanno vinto tutti gli incontri casalinghi del girone d'andata. Hanno umiliato il Fermignano, ne hanno dati due all'Urbania e hanno beffato l'Urbino al 79'. Nel derby con l'Apecchio Daniele ha notato dei movimenti dalle sue parti, si è sentito osservato. Sergio, il tuttofare del campo sportivo, l'ha ribadito a capitan silenzio a fine partita, e poco dopo gli hanno presentato quel signore di Bologna che voleva conoscere i suoi genitori. 

Al babbo, Daniele non ha mai parlato apertamente delle sue possibilità di riuscita nel calcio. Prima di tutto perché sono due orsi, lui per primo. E per quanto sappia che il babbo gli vuole bene, pensa che non dia importanza a questa storia del pallone, perché ha conosciuto la miseria e vuole solo che il figlio finisca gli studi e si metta a lavorare. In più, tra un po', Babbo Zoratto vorrebbe andare in pensione. In realtà il babbo lo guarda eccome, Daniele, agli allenamenti. Passa al campo in lambretta, dopo le cinque, fingendo di essere lì per caso perché non gradisce che lo credano uno dall’illusione facile. In ogni caso Daniele è sempre troppo occupato per accorgersene: in genere sta pressando a centrocampo, perché non sopporta di dover aspettare che i suoi compagni recuperino palla. Il babbo guarda per qualche minuto, poi se ne va. Si agita, perché sente che non saprebbe come consigliare il figlio per il meglio. Sarebbe un coglione a non essersi accorto che Daniele ha una dote, anche perché non fanno che dirglielo tutti: lo fermano per strada, per ricordarglielo. Solo, ha paura che Daniele - che a suo avviso è solo un buono mascherato da bulletto - accarezzi un miraggio per poi essere costretto a tornare a Piobbico in veste di carpentiere.A casa, dopo una certa telefonata, il babbo prende coraggio e si decide. Affronterà l'argomento in presenza della moglie, perché da solo teme di non farcela. Mamma Zoratto, che parla e ragiona proprio come una mamma, sa invece che Babbo Zoratto ha solo paura di voci rotte e lacrime preventive: è così che lo prende per mano e aiuta i suoi due uomini-orsi a ragionare. La soluzione migliore per Daniele è che aspetti un altro anno, poi potrà lasciare Piobbico per Cesena. 

Daniele mantiene il segreto ma è contento, perché ha davanti un po' di tempo per prepararsi al salto. A giugno, viene ammesso alla terza geometra con un solo debito. Tutto sommato non gli dispiace, poteva andargli peggio; pazienza se a settembre avrà l'esame di riparazione. Quando però settembre arriva, quella di diritto è cambiata e l'orale è una formalità. Il nuovo insegnante, informato della particolare situazione professionale dell'alunno, si complimenta con Zoratto per i suoi meriti sportivi, senza fargli nemmeno uno straccio di domanda sulla Costituzione. Il verbale, in qualche modo, viene riempito; Zoratto è congedato e ufficialmente promosso. È strano per Daniele, perché non si sente amareggiato: eppure, pensa, ha passato l'esame in qualità di imbecille. Si sente una merda solo perché, mentre lui è passato, Franceschino è stato stangato. Franceschino è affetto da nanismo, che in una qualunque scala gerarchica sarebbe un motivo per essere promossi persino più valido del suo brillante avvenire calcistico. In macchina verso la Romagna, Daniele giura che proverà a fare meno lo stronzo. Almeno sul campo, sarà molto severo con se stesso. Tornando da Cesena il signor Zoratto non resiste, e mette il nastro di Lugano Addio di Ivan Graziani.

Ai tempi d'oro, allenato da Nevio Scala.

***

Daniele - che talvolta riesce persino ad essere un razionale - intuisce in fretta che tra i professionisti è durissima, tanto che il Manuzzi nemmeno lo vede. Quando raggiunge la squadra in ritiro, lo mandano subito a Casale, in serie C, senza discutere. La provincia di Alessandria si rivela un posto freddo e inospitale, per di più lontanissimo da casa, in cui Daniele si sente come un ragazzo del Novantanove. Se possibile parla ancora meno e fisicamente soffre il confronto con colossi dal fisico già formato, uomini fatti e finiti rispetto ai quali si sente - a ragione - ancora un ragazzino. Non gioca quasi mai, Zoratto, e torna dal prestito con appena quattro presenze in tutta la stagione. Va meglio l'anno seguente a Bellaria. Il problema è che l'hanno fatto scendere di un paio di categorie, e in molti sono già scettici sul suo effettivo valore. Secondo gli allenatori è un po' stupido, forse non si applica, sarebbe forte ma a volte si perde.Quando il Cesena ci scommette, a Daniele non sembra vero. Zoratto esordisce in Serie A nel 1981-'82: i marchigiani più in voga in quel periodo sono il guizzante Roberto Mancini, attaccante del 1964 che stupisce tutti a Bologna, e Luca Marchegiani, di Jesi anche lui, con cui Zoratto si incrocia un anno a Brescia, nel 1987. Poi Rimini, per un ritorno in Romagna in grande stile, proprio mentre la riviera sta sfornando non mediani ma attaccanti capelloni: su tutti, pare, Neri Maurizio e Agostini Massimo, che nel particolare bestiario del tempo è conosciuto come il condor. Questa Romagna attorno a cui sta ruotando la sua carriera non è male, pensa Daniele, ma è tutta un'altra cosa. Come sempre: nulla da dire sulla piadina, ma la crescia sfogliata è nettamente meglio. È il triplo strato di strutto che fa la differenza.

A Brescia Daniele è ormai un ometto e ci rimane per un po'. Dopo qualche anno può permettersi il lusso di giocare in A, salvo poi riuscirci stabilmente solo a Parma, dove vince addirittura delle Coppe Europee e viene premiato dalla Nazionale di Arrigo. Esordisce in Svizzera, a Berna, e l’Italia di Arrigo perde 1-0. Qualcuno, a Piobbico, ripensa ad un certo giorno, con Lugano Addio sparata a mille e si commuove. Ha trentatre anni, Daniele, ma si rifiuta di pensare che il punto più alto della sua carriera l’abbia raggiunto da coetaneo di un certo predicatore fricchettone che è molto simile, nell’immaginario comune, al suo amico Marco Osio. Ritorna anche ad essere spavaldo come ai vecchi tempi. Per carità, in campo vige il silenzio più assoluto, ma con qualche ragazzo più giovane ed educato, tipo Melli, può anche permettersi di fare lo sborone. Pare che Osio ancora lo prenda in giro, quando si sentono: Marcone ricorda a Zoratto di quanto si risentisse (l’espressione più appropriata parrebbe “come una bestia”), quando gli davano del marchigia’. Finisce a Padova per chiudere con dignità, ma non si risparmia l’incazzatura di giocare poco e di rischiare in prima persona l’onta della retrocessione. In fondo, quando ci ripensa, sa di non essere stato poi tanto male. Meglio di un morto in casa, perlomeno.

***

A cinquant'anni Daniele Zoratto è un punto di riferimento delle rappresentative under. Allena, per conto dell'Italia, ragazzi che hanno di regola non più di 17 anni. La scelta della Federazione è caduta su di lui perché, oltre ad aver accumulato importanti trascorsi nei settori giovanili di varie società (meno bene a Modena, tra gli adulti, in combo con l’amico Apolloni), rappresenta un percorso reso esemplare dal sacrificio. Daniele ora è un cinico che ne ha viste tante, è persino spiritoso con la stampa che lo intervista nelle tournée delle sue rappresentative. Del ragazzetto arrogante delle origini non restano che i lineamenti, ma solo sullo sfondo e molto più addolciti. Daniele è una figura d’esperienza, che guida i giovani verso carriere assennate e sogni controllati. Dice ai suoi ragazzi che per non finire come Vincenzino Sarno ci si deve, semplicemente, rimboccare le maniche. Fa spesso battute, con i suoi giocatori: gli servono per dire ai suoi ragazzi - tra le righe - che il peggior nemico di Zoratto è stato Zoratto.

Poteva andare meglio, in quel di Berna...


3) Urbino, Palazzo di Giustizia, 1996 o poco più

Miamadre non ha mai amato il calcio. Non in quanto donna, ma in quanto figlia, sorella, cugina, moglie e madre di calciomani che l’hanno bombardata dal primo quarto d’ora della sua esistenza. Giornali della Juve al cesso, fratelli sivoriano-charlesiani fino alla morte, che scrivevano Anzolin et cetera su ogni superficie possibilmente imbrattabile, senza risparmiare i dizionari di Latino.
Poi è scappata a fare supplenze tra Udine e Saluzzo, proprio nel periodo in cui un suo amico giocava nella Triestina. Bel clima, nella Napoli del Sud, ma che palle andare allo Stadio a venerare il reame di Rocco solo per mostrarsi ospitali con tutti gli urbinati che, ogni quindici giorni, andavano in pellegrinaggio in Friuli a dare manforte al conterraneo.
Quindi è stata assorbita da un compagno che in realtà aveva la fissa di Lasse Viren, Anquetil e Gianni Brera, ma la filastrocca di Anzolin la conosceva benissimo anche lui (come Sarti-Burgnich-Facchetti, ma quella pare fosse d’obbligo fino a Jair-Guarneri-Picchi). Dunque si è sempre detta juventina, miamadre. Che io ricordi, ha avuto solo qualche momento di baggismo come ogni madre italiana. Al massimo, ha pensato che Padovano fosse un personaggio romantico (dire “bello” pesa come un macigno, ad essere edipicamente onesti); ha ammesso davanti a testimoni che Zinedine aveva un certo stile, e che la chierica lo rendeva forse ancora più interessante. Ha amato Gigirìva, quello sì.
Poi ha avuto un figlio, collezionista di magliette, che dal Novantaquattronovantacinque (parola unica e indivisibile) non ci ha capito più un cazzo, mentre Romario e Baresi, in copertina, ballavano un ballo nuovo.

L’umanizzazione di miamadre è iniziata quando un giorno, tornata a casa, mi ha raccontato di un incontro avvenuto con un tale in tribunale, di mattina. “Non mi riconosce?” le domanda il tizio, che ci tiene a precisare come stia facendo la fila in attesa di ufficializzare una separazione. “No” risponde miamadre, aggiungendo, in pieno formalismo avvocatizio “Mi scuso. Chi è?” - “Ma come, non mi riconosce Professoressa? Io sono Zoratto, lei è stata la mia insegnante di diritto!” “Ah!” dice miamadre simulando interesse e ricordando all’istante registri compilati per conto di direttive arrivate dall’alto. “Molto bene! Che piacere! Cosa sta facendo adesso?” Pare che Zoratto, a quel punto, si sia scurito in volto e abbia glissato, tornando in fila. A pranzo, raccontandomi l’incontro, miamadre non ha potuto fare a meno di aggiungere: “Non c’è niente da fare. è rimasto proprio un gran patacca”.

Non ho capito se in quel momento a parlare fosse mia mamma, un avvocato o una professoressa di diritto. Ma forse, alla fine e col senno di poi, miamadre l’ho capita un po’ di più.


Forse l’autografo l’avrei voluto, ma non importa. 

mercoledì 25 febbraio 2015

L'illusione del gol



Nonostante fossi ancora incazzato per lo scellerato gol di Portanova del giorno prima, tentando di celare per quanto possibile il mio viso diventato rosso d’un colpo, abbassai il mento fra le pagine del mio diario e dopo averlo sfogliato concitatamente trovai il giorno giusto - 3 Marzo 2008. Ancora leggermente imbarazzato scrissi qualcosa di futile, o forse feci solo finta. Peccato perché avrei potuto annotare: “Il panico più seducente della mia vita”. O forse già sapevo.
Avevo diciassette anni e venni distolto dalla spasmodica lotta salvezza da un evento florido di illusioni come un’amichevole agostana: uno scambio scolastico con un liceo di Madrid, sorteggiato perdipiù -unico della mia classe- per andare a soggiornare a casa di una ragazza incredibilmente bella. Per settimane nessun compagno mi passò più la palla.  

Non so con quale strana alchimia i professori spagnoli e italiani scelsero le coppie per lo scambio, si mormorava di oscuri profili caratteriali e monetine lanciate per aria.
Inspiegabilmente infatti, come scoprii attraverso la nostra lunga corrispondenza, I. era una ragazza arguta, intelligente e sensibile: frequentava un’accademia teatrale, attività che, come mi confidò assorbiva ormai tutto il suo tempo anche a discapito della scuola. Aveva lunghi capelli a cascata che le lambivano i lati delle sopracciglia lunghe e curvilinee e due occhi alteri che sembravano divorarti, salvo poi socchiudersi abbassandosi verso terra durante i sorrisi, come a proteggersi da una luce abbagliante.

I., altrettanto inspiegabilmente, abitava fra le fermate della metro di Pavones e Vallecas e tifava Rayo Vallecano, una informazione che dapprima relegai frettolosamente a vezzo marginale.
(Non vorrei divagare troppo ma la metro di Madrid non mi ha fatto né caldo né freddo, mentre un giorno troverò l’annunciatrice di quella di Barcellona e le confesserò di essermi innamorato di lei per la sensualità con la quale pronuncia “Passeig de Gràcia”: se potete fateci caso).

Quanto assomigliamo alle squadre che tifiamo?
O ancora, quale è la linea che ci separa da loro, se esiste?
A me sembra che sia molto labile, e infatti per esempio mi capita spesso, al concessionario o al supermercato, dovendo scegliere fra Romario e Ekstroem (1986…) di optare con sicumera per il secondo.
Mi è capitato pure, prima di uscire per qualche appuntamento, di ricevere una telefonata in cui sento raccontare che il motore s’è rotto, che è un segno del destino, che non se ne farà nulla.

Pian piano che il nostro incontro si avvicinava tuttavia, conversando con I. avvertii che il calcio avrebbe potuto forse avvicinarci in quel territorio-cuscinetto, scivoloso e misterioso, fra le mie timidezze e la brama di conoscere, magra e affamata come una iena.
Non era certo una intenzione esplicita la mia. Tuttavia, al tempo avevo da poco cominciato a rendermi conto come il calcio fosse talvolta capace di aprire squarci improvvisi. Avevo già vissuto lunghe stagioni a fianco a mio padre, usando il calcio come surrogato di una più convenzionale comunicatività, come un nostro personale linguaggio cifrato.
Ancora oggi mi sembra che le sue rimostranze circa mancati acquisti celino in effetti un certo generico risentimento verso la piega presa dalla società occidentale, d’altro canto altre volte è capitato che insieme certificassimo l’ottimismo circa qualche delicata situazione familiare semplicemente trovando gli aspetti positivi ritornando a casa da uno scialbo zero a zero, o che ci riappacificassimo per merito di un improvviso numero ammirato sulla nostra fascia.


Date le premesse, l’ineluttabile conclusione di questa vicenda è che a due settimane dalla partenza l’insegnante squadernò il registro, espettorò un paio di volte e con la verve di un prete di campagna che annuncia i tornei di tennis dell’oratorio ci comunicò che I. aveva dei problemi con la casa. Che I. non ci sarebbe stata e che le scale del Teresa Rivero non le avrei mai salite dietro di lei.
E tu sei lì in piedi, ancora sorridente e inebetito, quando ti accorgi che il guardalinee aveva alzato la bandierina.

A Madrid finii lo stesso a Vallecas, dirottato però nella casa di una famiglia talmente operaia e vallecana da essere uno stereotipo vivente - il fratello maggiore in particolare avrebbe potuto fare la comparsa in un film Quinqui degli anni Ottanta -, girava per casa con la maglietta degli Ska-P (o degli Eskorbuto, nei giorni di festa) e pantaloni di pigiamone tipo Kiraly. Ovviamente mi divertii tantissimo.
I churros nella cioccolata al risveglio, il fritto, la sangrìa rotolando all’ombra di un ponte sul Tago a Toledo, quel kebab fuori dal Reina Sofia con le formiche dentro ma mangiato ugualmente in onore di Dalì, Bosch, Buñuel e degli insetti che spuntano dalle loro rispettive opere, tuffarsi la mattina nella nebbia per poi riemergere all’aria la sera fra gli spruzzi di Estrella Damm.

*  *  *

Era il giugno di due anni fa, e un paio di ore prima avevamo perso la finale playoff.
Stavo affogando sul mio divano nell’afa insopportabile della sera, piacevolmente inerte e svuotato dell’ansia di quella sgangherata rincorsa durata otto mesi.
Avete mai visto le strade di una città dopo una finale persa?
La città era ingoiata da una risacca di silenzio. Ciò insieme alla feroce umidità conferiva a quella serata una tranquillità vagamente sottomarina.
Il soggiorno era buio, illuminato solo dalla fioca luce azzurra di un vecchio film in portoghese trasmesso da Fuori Orario: scivolavo serenamente verso il dormiveglia fino a quella fase in cui, in sere particolarmente placide, sento risuonare nella mente frammenti di canzoni dimenticate, sentite chissà quando e riaffiorate carsicamente, oppure composte dalla mia immaginazione per frustrarmi, data la mia incapacità di riprodurle con uno strumento prima di dimenticarle per sempre.
Ormai ero abbandonato come stessi facendo il morto in un lago, quando qualcuno mi prese per mano e, alzata la testa ancora scosso verso il televisore, vidi un viso familiare, e due occhi che languidamente guardavano fuori da una finestra verso un cielo nordeuropeo.
Dieci secondi… stavo quasi facendo ciao con la manina. Ma io a te ti conosco.  
Ricomponendo confusamente i cocci di pomeriggi perduti, fu con una certa vertigine che vidi il logo Mercedes chiudere quella pubblicità.

Il giorno seguente cercai, attraverso le mie fugaci conoscenze madrilene, informazioni su I., che vidi ricomparire sul mio pc, con i suoi occhi filtrati da saturazioni, dissolvenze pacchiane, istantanee da fotoromanzi e fiction varie, passerelle e bollicine di Freixenet. Il tutto imbiancato da un tono candido che avrebbe voluto essere chic, ma che mi ricordava sinistramente le intonacature di certe case di campagna stese per nascondere vecchie crepe, specialmente allorchè fioccavano di tanto in tanto sciarpe, bianchissime, del Real Madrid.

No, I., tu no, al Rayo non assomigliavi per niente. Tu La Vida Pirata l’hai sempre odiata, così come il lato senza tribuna del Teresa Rivero, perdipiù con i suoi muri scrostati. Vedendo le tue immagini provo un immotivato fastidio, come quando venduto un giocatore a una grande squadra ci imbattiamo in una sua intervista a doppia pagina con la divisa nuova, e non vi troviamo traccia della nostra realtà, della nostra cittadina, non ci troviamo più alcuna traccia di noi stessi.


Complimenti per la promozione. Adesso per te avranno un che di esotico gli estemporanei incontri con gli idraulici di Fuenlabrada o con i postini di Leganès, divertissement innocui e carnevaleschi perché limitati unicamente all'anarchia simulata della Copa del Rey. Sono sicuro che sfarfallerai magnificamente le tue ciglia strizzando gli occhi per chiosare su quando stavi a Vallecas: e tuo padre macellaio, la Vespa, la coppia d’attacco Piti-Pachòn e la volta in cui ti ho quasi conosciuta sembreranno schegge incoerenti e inspiegabili come una stagione al Marsala nelle statistiche della carriera di Evra.
Per qualche ragione porto ancora nel portafoglio la mappa, spiegazzatissima, della metropolitana. Pochi minuti fa ho ricercato in rete una versione aggiornata, e non ho più trovato i nomi di Pavones e Villa De Vallecas: forse imbiancati anche loro da un inspiegabile maquillage, e allora tutto mi sembra un sogno ancora più assurdo, forse vicende mai esistite. E anche stasera, col contrappunto in crescendo della risacca atlantica, attraverso i vetri della mia stanza le strade sono deserte come dopo una finale persa per il lancio di una monetina.

Si alguna vèz me he de casar, una del Rayo, una y nada màs."

martedì 17 febbraio 2015

Di una scogliera, di un libro, di una sbronza



Dal cielo, giuro, cola una pioggerellina unta. Il centro abitato, grigio più della cenere, fa venire voglia di piangere dalla disperazione. La gente, la poca che si vede in giro, forse non piange perché ha semplicemente finito le lacrime.
Che cazzo fai lo schizzinoso, quando hai la possibilità di andare in giro per l'Europa per lavoro e avere anche un bel po' di tempo libero. Ma nel mondo ci sono postacci e postacci, e qualche volta l'unica cosa che ti viene in mente è scappare più in fretta che puoi.
Bellissima la Francia, ma il triangolo Dunkerque-Gravelines-Calais, diciamo così, non lo consiglierei. Bastano un paio d'ore per questa presa d'atto; e la prospettiva di trascorrerci, l'indomani, una giornata intera, è di quelle che tolgono il sonno. Niente di interessante nel raggio di 50 chilometri. Non un centro storico decente, un monumento, non uno stadio degno di nota. Neppure il brivido (di freddo, mica di emozione) di scavalcare un cancelletto per vedere il campo dell'Us Gravelines, roba di sesta serie francese, mi fa cambiare idea. E l'immagine spettrale di questa gigantesca centrale nucleare getta inquietanti ombre sul mio mercoledì nell'estremo nord della Francia.
Eppure una soluzione deve pur esserci. Anche l'opzione Calais, 25 chilometri più in là, mi pare leggerina: certo, la favola della squadra di dilettanti arrivata in finale di Coppa di Francia nel 2000... Ma io là cosa ci vado a fare? A Calais. Calais...
Eccola la soluzione. La risposta è dall'altra parte del mare: oltre la Manica c'è la terra promessa.


***

Il traghetto parte a mezzogiorno in punto. Un'ora e mezzo di onde da paura con la rassicurante compagnia di una ventina di camionisti e poi all'improvviso l'orizzonte si tinge magicamente di bianco. Le bianche scogliere di Dover. Non sarà Londra, d'accordo, ma ho un patrimonio di tre ore da spendere in Albione prima del traghetto di ritorno e il fascino di una cittadina portuale inglese non è mai in discussione. E poi ieri notte su internet mi sono fatto una cultura sulla città e sulla sua sfigatissima squadra di calcio.



Non piove, per ora, e dopo aver preso un po' di sterline in un bancomat e aver trovato chiuso l'accesso al castello, in cima alla collina, mi infilo in un negozio di libri usati. Ci sono chicche notevoli, ma non posso caricarmi troppo e così la mia scelta cade su un magnifico libro fotografico pieno zeppo di immagini d'epoca di calcio inglese. Il prezzo, scritto a matita su una pagina interna, mi lascia basito: 3 pound e 99, quando ero pronto a spendere quattro volte tanto.
Ora piove, ma solo chi ama l'Inghilterra conosce il piacere di una passeggiata sotto la pioggia. Anche perché è un'ottima scusa per infilarsi subito in un pub. 
Il Prince Albert è il classico pub dell'angolo, in cui il tempo non si è fermato ma è di certo passato più lentamente che altrove. Avventori over 60, tutti rigorosamente soli con la loro pinta; arredi piuttosto datati; coppia di quarantenni che si sfidano a freccette; camino pronto per l'uso; telefono a rotella su un tavolino. E una lager che va giù che è una meraviglia. Tutto fantastico, anche l'accento della signora di mezza età che sta dietro il bancone e tiene bene il passo (alcolico) degli avventori.


La tappa successiva, poco oltre i resti di una chiesa sventrata dai bombardamenti tedeschi, è in un pub meno spartano ma comunque pieno di fascino retrò. Mi viene in mente che ancora non ho pranzato, e mi ricordo anche del libro appena acquistato. Davanti a uno stufato di carne e patate e a un'altra pinta, stavolta scura, inizio a sfogliare questo favoloso contenitore di storie color seppia. Stadi strapieni, tifosi che vanno allo stadio in carrozza, signore col cappello che varcano i cancelli di Wembley, finali di Fa Cup finite con invasioni di campo oceaniche, scarpe da gioco grosse come scarponi da sci, palloni duri e pesanti come massi di pietra.



Un signore anziano che mi teneva d'occhio da tempo si avvicina, sorride e senza dire nulla si mette a guardare con me le foto del libro. Sono già quasi sbronzo. A un suo cenno arrivano immediatamente due pinte, poi altre due. La situazione si fa pesante, anche perché l'uomo mi vuole portare allo stadio. Gli spiego che tra non molto dovrò prendere il traghetto, che devo assolutamente tornare in Francia per scrivere di una partita che si gioca stasera alle 9. Non ne vuole sentire e per non essere scortese, dato che ha pagato tutto lui, sono costretto a seguirlo. Dopo una breve camminata sotto la pioggia, da una stradina sbuchiamo su un muro bianco, o forse sembra bianco perché è avvolto dalla nebbia. L'uomo tira fuori un mazzo di chiavi e apre una porta, poi un'altra ancora. Ci troviamo ai margini di un campo di calcio, sul quale un gruppo di calciatori vestiti in modo bizzarro sta effettuando lunghi lanci da una fascia laterale all'altra. Non tirano mai in porta, sembrano incazzati neri e dopo un po' spariscono. Mi accorgo che sul prato ci sono migliaia di granchi. La mia guida mi tira per un braccio e mi porta in uno stanzino, proprio sotto la tribuna, al quale si accede direttamente dal terreno di gioco. All'interno ci sono centinaia di coppe, gagliardetti, vecchi palloni e maglie di lana dei primi del Novecento. Una pallonata fa vibrare la porta in metallo, ciondolare la lampadina appesa al soffitto e fa correre via i granchi. “Prendi quello che vuoi, non ci servono più”, dice l'uomo indicando i cimeli. Sono sconvolto. Arriva un'altra pallonata, stavolta più potente. Mi sveglio di soprassalto. Giro la testa, appoggiata al bracciolo di una poltroncina, e riconosco la moquette sudicia del bar della nave. Ho la bocca impastata, sono stordito. Sulla porta di ferro arriva un'altra pallonata, ma è solo il rumore del portellone di poppa che si apre sulla banchina del porto. Fuori è buio, l'orologio dice che sono quasi le 8 di sera. Un messaggio bilingue, in inglese e in francese, mi dà il benvenuto - o il bentornato - in Francia. Il cartello luminoso dice Calais. Il libro è al sicuro, nello zaino. Io non tanto. Ma mentre spingo la macchina a tutta velocità verso quello spettro di città, sorrido con un angolo della bocca al pensiero che poteva andare molto peggio: potevo finire mangiato dai granchi, o potevo passare tutta la giornata a Gravelines.


***
[After the hangover.

Sono arrivato puntuale alla partita, c'era persino l'accredito. A lavoro finito non ho trovato un solo ristorante aperto e ho potuto mangiare qualcosa solo grazie a un turco gentilissimo che a mezzanotte ha tirato su solo per me la serranda appena chiusa della sua bottega. Il suo kebab mi ha salto la vita. Nell'hotel che avevo prenotato poco fuori Gravelines - la centrale nucleare di Gravelines è la più grande della Francia e una delle più grandi d'Europa - non c'era anima viva e nessuno mi ha aperto. Ho giudato alla cieca verso sud sino alle 2 di notte, poi finalmente ho trovato un hotel a Lille. La mattina successiva il mio volo è stato cancellato e ho dovuto trascorrere tutta la giornata a Bruxelles. Il Manneken-Pis, l'Heysel, le birre d'abbazia, certo... Ma questa è già un'altra storia.


Dimenticavo. Il Dover Fc, fondato nel 1894, è fallito nel 1901, nel 1909, nel 1933 e nel 1947, ed è sparito definitivamente nel 1983. Al suo posto è nato il Dover Athletic Fc, che negli anni si è confermato una squadraccia. Alla fine dell'ultimo campionato è stato però promosso in Conference Premier (quinta serie inglese) dopo 12 anni di assenza. Lo stadio di Dover, il glorioso Crabble (1010 posti a sedere e 3642 posti in piedi al coperto), ha un nome che deriva dall'inglese arcaico e che significa "buco in cui stanno i granchi".]