venerdì 28 maggio 2010
Punto B
giovedì 27 maggio 2010
La fede dei nostri padri
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lunedì 24 maggio 2010
Tangerine Dream
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venerdì 21 maggio 2010
Funny time of year
martedì 18 maggio 2010
Passeggiata in salita
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lunedì 17 maggio 2010
Esquina Blaugrana
sabato 15 maggio 2010
Storie dell'altra Baviera
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giovedì 13 maggio 2010
Pak Doo Ik, o dell'immaginazione
Quando seppe che Ayresome Park era stato abbattuto, nel 1997, Loretta Wintersgill, figlia unica di una famiglia benestante di Middlesbrough, provò un rammarico che non riuscì a scacciare nemmeno raddoppiando la dose di panna da sciogliere nel caffè, in quel mattino battuto da venti di terra e scrosci di pioggia gelida.
Il rosso delle tettoie e i cori dei tifosi invadevano la sua stanza arredata con gusto, nel quartiere operaio che per lei, molti anni addietro, aveva significato il distacco dai rituali di un educazione ossessiva.
Fu all’incrocio con Brompton Street che, per la prima volta (doveva essere il 1964), si rese conto che non le dispiaceva il rossetto in disordine, mentre da un juke-box, esposto fuori un negozio di attrezzature da pesca, qualcuno invitava una donna a chiudere gli occhi, promettendo che domani le sarebbe mancata.
Nei primi di luglio del 1966, passeggiando in Devonshire Road, all’ombra dell’albero secolare, vide undici uomini disposti in un semicerchio nitido, come se il tronco altissimo della quercia fosse la punta di un compasso calato dal cielo.
Colpì Loretta l’automatismo dei gesti, la sincronia fluida dei movimenti. Sebbene fosse chiaro che si stessero allenando, non c’era preparatore atletico a guidarli nelle estensioni e nelle acrobazie con cui suscitavano l’ilarità dei passanti, stupiti quanto lo sarebbero stati a osservare uno stormo di fenicotteri o una tribù di tagliatori di teste.
Dietro gli occhi sottili, la mente era fissa su un comune ordine interiore, da cui scaturiva la gestualità seriale e quasi danzante degli esercizi. Loretta oggi non sa se fu la malinconica predisposizione di un’estate pigra di amori, ma ricorda benissimo che quando incrociò lo sguardo di uno degli uomini vestiti di rosso, su quell’ordine nascosto le si aprì una trasparenza sconfinata.
Vide il comando che transitava verso il braccio, precipitato sulle caviglie per portarle su dietro la schiena. Vide la schiena attenta in ogni sua vertebra. Vide una stanza con pochi mobili, una sveglia, un tavolo, un mazzo di fiori appassiti. Vide dieci milioni di stanze, custodi di un intimità ovunque uniforme: dai buchi della serratura, dalle fessure sotto le porte, spiò per milioni di volte gli stessi suoi gesti, la sveglia discreta, la radio sulla frequenza delle acclamazioni, l’abito tiepido del giorno prima, la busta del riso, i torsoli di mela arrugginiti nello smaltimento condominiale.
Per le strade, nelle campagne, studiò i dettagli di un’immaginazione maniacale e composta, sfrenata e algida, vide la realtà supina a ogni suo iperbolico capriccio. Pensò Loretta all’efferatezza dei sogni, in cui tutto è piegato ai nostri desideri. Sentì con le sue orecchie i discorsi patriottici delle autorità sportive, lesse i nove volumi del manuale di comportamento, imparò a memoria gli allegati, perfezionò l’accordo di sesta da intonare nella penultima frase dell’inno.
Si inebriò di orgoglio e onore, di responsabilità e devozione.
Prese l’aereo da uno scalo militare. A Londra, furono oscurati i finestrini del pullman, perché l’opulenza della città non offuscasse la mente degli atleti. Si alzò quella mattina nel cuore di Middlesbrough alla sveglia impartita dagli organizzatori, non assaporò una colazione frugale, contò i passi dei giri di campo, proseguì per la ginnastica sotto la quercia e vide ciò che mai avrebbe dovuto vedere: vide i suoi occhi guardare i suoi occhi e sentì crollare quell’ordine interiore, in un solo istante ne fu certa, un crollo assoluto, invisibile, senza rumore.
Nel silenzio del dormitorio, sulla cima del letto a castello, decise di creare una seconda crepa nell’immaginazione. Ormai sapeva che per provocarne il fallimento doveva coprire ogni dettaglio, estenderla all’inverosimile. All’inizio non fu semplice, forse perché il terzino parlava nel sonno. I novanta minuti della partita gli sembrarono racchiudere una frazione di eternità, incolmabile per il suo ingegno. Così, all’esordio, l’Unione Sovietica chiuse subito i giochi: due a zero alla fine del primo tempo, tre a zero alla fine, congratulazioni dalla Capitale per una sconfitta che era servita alla causa del Popolo.
Tre giorni dopo, col Cile, agitandosi nella branda, giocò e rigiocò innumerevoli volte la stessa partita. Per ogni passaggio si mise a prefigurare il seguente, disegnò le traiettorie dei cross per i balzi famelici dei sudamericani. Gli sfuggì solo l’incursione per vie centrali che provocò il calcio di rigore al ventiseiesimo del primo tempo.
Conosceva la schiettezza del calcio cileno. Quando si trattò di difendere il risultato, alle (magre) soluzioni offensive dei compagni di squadra contrappose argini fin troppo robusti. Già disperava, ma a due minuti dal termine la partita prese la piega dell’inaspettato. Dopo una serie di rimpalli, la Corea raggiunse il pareggio che non mancò di incuriosire la calma estate di Middlesbrough.
La partita con l’Italia valeva il superamento della fase a gironi. Se dal fraseggio del Cile non era difficile sviluppare le premesse implicite nel suo essere uguale a se stesso, il genio individuale dei calciatori italiani apriva un numero illimitato di ipotesi. Quella notte si costrinse a sognare la partita perfetta: confinò al di là dell’immaginato sbavature e incertezze, unì all’estro di Rivera le doti realizzative di Mazzola, le geometrie agili di Bulgarelli. Accentuò, per quanto possibile, il tratto italiano della difesa.
Così accadde che la sera del diciannove di luglio del 1966, nelle brume di Middlesbrough, l’Italia giocò senza nerbo, né coraggio, né fantasia. La realtà sembrò assecondare il suo piano, perché al quarantaduesimo del primo tempo si ritrovò sul piede una palla anonima e la trasformò in un diagonale vincente alla destra di Albertosi. Con un’esultanza incredula, con un senso di libertà inesprimibile, si voltò verso la tribuna laterale per cercare ancora i suoi occhi. Ma lei non c’era già più. Non poteva (non voleva) immaginare, sulle gradinate di Ayresome, che cosa le avrebbe fatto paura.
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mercoledì 12 maggio 2010
La finale che aspettavo
¿Es el partido más importante de su carrera?
Sí, porque es el siguiente que tenemos que jugar.
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lunedì 10 maggio 2010
Quando Gli Angeli Piangono - Segunda Parte
***
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sabato 8 maggio 2010
Lacrime di Campari
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venerdì 7 maggio 2010
Semiotica del sondaggio
giovedì 6 maggio 2010
LIBERTADORES 2010 - Ottavi / Quarti
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martedì 4 maggio 2010
L'avvocato dei lupi
Il legame tra Saddam Hussein, le conturbanti e un po' volgari bellezze del turbo-folk balcanico e il Campobasso Calcio, ambiti in effetti abbastanza lontani tra loro, esiste e si incarna in un avvocato anglomolisano di 55 anni, Giovanni Di Stefano. Se il suo illustre cognome sia il segno di una parentela calcisticamente importante, non lo sappiamo; sappiamo solo che a sei anni Di Stefano lascia la natia Petrella Tifernina, nel fondo del Molise verde e povero, e si ritrova a crescere nel Northamptonshire, dove il padre ha trovato impiego in una fabbrica di scarpe. Per questo motivo, e com'è ovvio che sia, gli risulta più familiare e fluente l'inglese rispetto all'italiano natio; d'altra parte, questo non gli impedisce di considerarsi italiano, rivendicando anzi il suo essere sannita.
Il giovane Di Stefano non è privo di iniziativa e di capacità, se è vero che negli anni Ottanta accumula una piccola fortuna importando videocassette da Hong Kong (le fonti non dicono di più su queste videocassette). Quando e dove abbia studiato legge, poi, non è chiaro; si sa che gestisce uno studio a Roma, lo Studio Legale Internazionale, che definire prestigioso è poco: si contano infatti tra i suoi clienti Saddam Hussein, appunto, Charles Bronson, Tariq Aziz, Gary Glitter (un simpatico cantante pop inglese, più volte condannato per pedofilia), Alì il Chimico e altri personaggi di primo piano del jet set internazionale.
Nel 1992, in ogni caso, Di Stefano si reca nella Jugoslavia che si sta sfasciando, e qui la sua carriera si impenna e comincia ad intrecciarsi con il calcio e la politica che, nei Balcani e non solo là, non sono campi troppo lontani. È noto che la guerra civile fu sinistramente anticipata, pochi giorni prima del mondiale 1990 (che con un po' di fortuna in più la Jugoslavia avrebbe anche potuto vincere. E chissà se la Storia sarebbe cambiata), da furibondi scontri al Maksimir di Zagabria tra gli ultras della Dinamo e i rivali della Stella Rossa. Questi ultimi erano guidati da un estremista serbo di nome Željko Ražnatović, più noto come Arkan: come molti estremisti serbi, anch'egli peraltro era montenegrino. Due anni dopo quel 1990 la situazione era già compromessa, la guerra divampava in Croazia, e numerosi ex ultras si combattevano in divisa per il possesso della città di Vukovar, in quell'angolo di Slavonia in cui è nato anche (da madre croata e padre serbo di Bosnia) Siniša Mihajlović. In questa situazione tremenda Di Stefano si trova stranamente a proprio agio, diviene amico del presidente serbo - di origine ovviamente montenegrina - Milošević, da cui ottiene la cittadinanza in tempi rapidissimi; soprattutto, stringe ottimi rapporti con Arkan. Quest'ultimo trova nell'avvocato anglomolisano un perfetto Dioscuro, e ne fa il proprio portavoce, poi un socio d'affari, infine il proprio avvocato di fiducia.
D'altra parte, Di Stefano ripaga l'amicizia e la fiducia di Arkan: e nel 1995 arriva al punto di pagare di tasca propria lo sfarzosissimo sposalizio dell'amico con la giovane cantante Ceca, stella di quel volgarissimo e onnipresente genere musicale che è il turbofolk nei Balcani.
Il 1995 è però anche l'anno degli accordi di Dayton; finita la guerra, bisogna trovare nuovi interessi, ed Arkan, oltre a possedere ed amministrare tutta una serie di attività (dai casinò alle panetterie), nel 1996 compera una modesta squadra di calcio, l'Obilić, sempre in comproprietà con Di Stefano: in due anni, l'Obilić passa dalla serie B alla vittoria del campionato serbo, battendo Stella Rossa e Partizan (chissà cos'avranno pensato i tifosi biancorossi del voltafaccia del loro ex capo). Non altrettanto bene era andata invece l'avventura calcistica tentata nel 1995 dal solo Di Stefano: infatti, questi aveva acquistato il natio Campobasso, precipitato dalla gloriosa B degli anni '80 alla bassa classifica in Serie D. Nonostante grandi proclami in un italiano stentatissimo, Di Stefano non cambia l'inerzia delle cose; e l'anno dopo lascia i lupi ancora in D e in procinto di fallire.
Nel 2000, però, il sodalizio tra Arkan e Di Stefano si scioglie per l'omicidio del primo; il secondo lascia la Serbia e si dedica alla sua professione forense in Iraq e in Inghilterra, sempre privilegiando casi controversi e di grande impatto mediatico. Non rinuncia però al calcio: nel 1999 tasta il terreno al Dundee FC, nel 2001 prova a comperare il Norwich City dalla cuoca televisiva Delia Smith (da allora i due, si dice, si odiano; e fa specie che un buon amico di Arkan e Saddam Hussein abbia problemi personali con l'equivalente inglese della Clerici), nel 2002 prova ad entrare nel Northampton Town, nel 2003 acquista finalmente il Dundee e riesce a farvi giocare anche Fabrizio Ravanelli (per cinque partite); poi succede qualcosa di strano a livello finanziario, quindici giocatori devono venir svincolati e Di Stefano se ne va.
Anche oggi, tra un partito politico da fondare e un processo da seguire, Di Stefano gironzola intorno al mondo del calcio, con i suoi modi diretti e il suo eloquio evocativo; e non sarebbe giusto credere che lo faccia solo per calcolo o per interesse e non per genuina passione. Costui, in effetti, è pur sempre l'uomo che nel 1999 torna a Belgrado, che sta per essere bombardata dalla Nato, solo per stare vicino ai suoi amici Milošević e Arkan. Così lui stesso commenta la vicenda: "Uno non può mangiare al tavolo di un amico, di un cliente e poi scappare nel momento in cui l’amico è in difficoltà. Questo sono io, Giovanni Di Stefano, di Petrella Tifernina, figlio di gente leale. Neanche i romani ci hanno conquistato a noi".
Questo è Giovanni Di Stefano, di Petrella Tifernina, l'avvocato dei lupi.
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