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la bellezza senza tempo della maglietta del Peru |
Volevo solo dire una cosa: questa Copa America è bellissima. Non lo dico perchè tutti i giornali affermano il contrario con snobberia; nè perché voglio perorare la causa dei commentatori di Sky (che fanno più tenerezza di Cerqueti e Sandreani quando commentano i quarti di finale di coppa Italia - mercoledì sera, nebbia, 4 gradi, duecentosei persone allo stadio, otto davanti alla televisione - e ripetono a ogni piè sospinto che le due squadre in campo stanno onorando la competizione, proprio mentre due panchinari cronici si sfidano sulla fascia). Lo dico perchè lo penso davvero - altrimenti non aspetterei tutti i giorni con ansia le ore più piccole.
Qualcuno obietterà: ma la maggior parte delle partite sono bruttissime! Pochi gol, campi spelacchiati, ritmi lenti, giocatori svogliati, tecnica modesta. La cosa non mi tange. E' che ormai ho imparato a vivere e a valutare il calcio come vivo e valuto i romanzi o i film. Non mi importa più niente di che cosa parla il libro (o il film), che è la tipica domanda che si sente a cena; la trama, la storia, non significano nulla per me, tanto niente si può più inventare, tutto è ripetuto, elaborato, reinventato, destrutturato (tutto è detour, vero Zio?), nessuno svolgimento degli eventi può sorprendermi. Quello che mi importa, e mi affascina (o mi annoia), è lo stile, il modo, l'atmosfera, il contesto in cui la storia - qualunque storia! anche la più scema, anche la più brutta - si svolge. I film di Kaurismaki, i libri di Bernhard, i quadri di Rauschenberg, raccontano tutti la stessa storia, una monotonia probabilmente asfissiante per il lettore di gialli svedesi o per l'amante della nuova commedia all'italiana, ma che a me attrae per la sua capacità di catapultarmi dentro quella storia, perchè parliamo la stessa lingua, condividiamo la stessa sensibilità, ci accomuna la stessa curiosità, perchè è un'estetica che riconosco e comprendo, e questo mi conforta.
Le partite di questa Copa America hanno per me lo stesso significato. Per assurdo, non mi importa nulla di quello che succede in campo, o almeno, dei cd. momenti salienti. Anzi, meno cose succedono, meglio è, così mi godo tutto il resto. Ciò che mi coinvolge sono i nomi esotici dei giocatori, le loro capigliature eccentriche, i loro fisici così poco occidentali; sono le vite dei tifosi sugli spalti, le vite delle città che ospitano gli stadi in cui si gioca, le vite delle persone rimaste a casa a bere mate; sono i commentatori locali, le mimiche facciali degli allenatori, la pesantezza di certi difensori centrali; sono le giocate di classe di certi numeri dieci intervallate da venti minuti di sparizione, le corse insensate di ali dribblomani, le scivolate senza senso di terzini in ritardo; sono i fratelli dei calciatori che giocano in Europa che vedono i loro fratelli più grandi tre volte l'anno, i giovani costaricensi con le valigie pronte verso Oriente, le parate goffe del portiere venezuelano; sono le magliette dei peruviani, l'altezza spropositata del centravanti boliviano, i gol sbagliati dai colombiani a porta vuota; sono la densità a centrocampo dei paraguaiani, la passione di Burdisso, l'addetto del Rosario Central che va all'aeroporto a raccattare suo fratello in arrivo da Roma; sono la mediocrità dell'Ecuador, il ceviche che si mangia a Lima, l'odore acre che si respira a Piazza Mancini; sono i libri di Ribeyro, i dischi di Javiera Mena, la faccia d'attore di Ricardo Darìn; sono la pappagorgia di Borghi, il look da cattivo di Batista, gli occhiali da professore di Martino; sono il tridente dell'Uruguay Forlan-Cavani-Suarez, il rigore orrendo calciato da Guevara, la duttilità di Vidal; sono la freddezza di Guerrero, i risultati imprevedibili, i fischi dalle tribune; sono le dittature del passato, le repubbliche di bananas del presente, i passaggi rasoterra dello stopper col codino; sono le pagliacciate di Neymar, le aperture del mago Jorge Valdivia, i commenti di Onofri; sono il colpo sotto di Ortigoza, le serpentine di Estigarribia, i movimenti di Falcao; sono l'assenza dei Pizarro, l'assenza di Pinilla, l'assenza di Pastore; sono il ricordo di Zamorano, di Salas, di Batistuta; sono le spiagge di Florianopolis, i balneari di Jujuy, il deserto di Sonora; sono gli emigranti italiani, il tacco sul calcio d'angolo, l'attesa di Lamela; sono i tocchi di prima di Ganso, i falli che subisce Sanchez, il mestiere di Acasiete; sono i dieci minuti in cui non succede nulla, i cinquanta minuti in cui non succede nulla, i novanta minuti in cui non succede nulla; ed è soprattutto la dolce consolazione di potermi immaginare, poco prima di addormentarmi sul divano, nelle notti afose di questo luglio romano umido di sogni, una nazione così distante e che però sento così simile a me, così vicina, anche se so che non la visiterò mai, se non in questi scampoli di vita che mi regala la Copa America, una competizione che se ne fotte dei giornalisti sportivi italiani, una competizione fuori dal tempo e oltre ogni estetica, come il paese che la ospita, come noi.