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venerdì 13 settembre 2013

1997 o l'anno in cui iniziai a sentirmi sinistro (solo due o tre flash di un Bildungsroman)

Do you want to know what a hipster in Glasgow talks about?
The hipsters in Glasgow stay up until all hours discussing Biblical matters. that is how they greet the dawn in spring. But they still get up four hours later to see how their private world is affected by commerce and necessity.

Quello fu il primo anno in cui frequentai con assiduità il negozio di dischi usati a piazza Mancini e l'ultimo in cui andai - poche centinaia di metri oltre il fiume - allo stadio con mio padre (conservo ancora i biglietti di carta). Il primo in cui iniziai a leggere con frequenza i libri che volevo (Brizzi, Ammanniti, Bukowski) e l'ultimo in cui frequentai le discoteche del centro aperte il sabato pomeriggio. Il 1997 è stato un anno di dubbi interiori e crocevia esistenziali.

Prendevo il 910 e scendevo al capolinea. Con trenta o quarantamila lire recuperate dai nonni al sicuro nella tasca aderente del jeans pariolo - probabilmente un Cou cou, una marca che vendeva solo Fauro street, ma che il baffo di piazza Gastaldi faceva pagar meno - entravo nel negozio e iniziavo, con timidezza, a spulciare tra le copertine. Erano infilate in schedari rossi di finta-pelle, disposte in rigoroso ordine alfabetico. Non parlavo quasi mai con il barbuto proprietario perchè m'intimoriva, così come durante gli anni delle medie m'intimoriva quel piacione del proprietario di Città 2000, che però vendeva solo dischi nuovi, e di merda (lo odiavo, quello stronzo con le basettone e ho goduto quando è fallito). All'epoca il negozio era grande e c'era un buon ricambio di cd. Certo, non era come Disfunzioni Musicali, ma tanto lo spazio di San Lorenzo aveva chiuso e io non potevo più provare l'ebbrezza di tornare in tram accarezzando Catartica. Prima di andare mi preparavo a casa con il mio raccoglitore verde in cui conservavo i ritagli di Musica!, l'inserto di Repubblica che per me ha rappresentato una specie di Bibbia. Poi c'era il video beccato per caso nella programmazione di MTV o Videomusic, ma bisognava essere fortunati ed aver appuntato il nome del gruppo su un pezzo di carta prima che partisse quello successivo. Essere indie non era come oggi, era un lavoro a tempo pieno. Te la dovevi guadagnare la tua nicchia. Nel negozio, mettevo da parte le schede che m'interessavano, formavo una pila traballante, e alla fine ne sceglievo una. Una e una soltanto. Di più non potevo permettermi. Quello era il momento fondamentale: per un mese avrei ascoltato solo quel disco. Se sbagliavo, erano cazzi.

Anche se uno tra Cafu, Zago, Aldair e Candela sbagliava il fuorigioco erano cazzi. Prendevamo gol due volte su tre (la terza corrispondeva a un miracolo di Konsel). Con l'Inter, in casa, successe così. Due volte un tappeto rosso per Ronaldo e due volte a maledire Zeman con mio padre. La croce sulla nostra stagione (paradosso volle che l'ultima partita vista allo stadio con lui - mio padre - fu proprio il Roma-Inter dell'anno successivo, e quei cinque gol presi tipo giostra impazzita ancora amareggiano i nostri sguardi quando parliamo del boemo). Però quell'anno c'eravamo anche divertiti. Mi piaceva molto andare allo stadio con lui, erano le propaggini della bella relazione avuta quando ero piccolo, quando a settembre mi portava a mangiare la pizza o il gelato in Prati e mi parlava come se fossi un uomo. Un pomeriggio di sole di quasi primavera avevamo fatto tappa al bar di un suo amico al Flaminio per mangiare un tramezzino, poi avevamo passeggiato fino allo stadio per vedere i nostri asfaltare con quattro gol l'insidiosa Fiorentina di Malesani. Quel giorno Zeman non sbagliò nulla. La giornata perfetta.

Il disco perfetto fu If you're feeling sinister. Fu il primo che comprai dei Belle & Sebastian. Forse ne avevo letto su Musica!, forse neanche quello, soprattutto mi conquistò la fotografia rossa in copertina. Più che altro fu un rendez-vous duchampiano. Io non sapevo quasi nulla di loro, eppure sapevo che mi sarebbero piaciuti. Di più: sapevo che sarebbero entrati nella mia vita. Di più: sapevo che avrei trovato le mie giornate nelle loro canzoni. Per anni sono stati i miei mentori. Tante volte nella vita - per i viaggi, i dischi e le amicizie, non ultimi gli innamoramenti - mi sono fidato di questo istinto quasi animale, quasi esoterico; colto il dettaglio, il messaggio in codice, il quadro si sarebbe svelato. The stars of track and field fu una rivelazione. Allora era vero, un'altra musica era possibile; un'altra vita pure. Si poteva anche essere diversi dagli altri; ci si poteva limitare a sussurrare; come prima conseguenza decisi di non comprarmi le orride scarpe Oxs. Naif era la parola che mi girava per la testa. E pesce fuor d'acqua. Il pomeriggio, dopo le versioni, dopo il calcetto, dopo i troppi rovesci mandati in rete, invece di andare in qualche punto di ritrovo adolescenzial-pariolo, facevo partire lo stereo e, sdraiato sul letto, fingevo di essere un hipster di Glasgow (avrei letto quella parola solo qualche anno dopo, nelle note del libretto di Fold Your Hands Child, You Walk Like A Peasant), non mi vergognavo di accompagnare con la voce la melodia di fox in the snow, di pensare a una ragazza dell'altra sezione in termini di I will love you over e di sperare che qualcuno mi portasse via da quel quartiere di cretini perchè altrimenti sarei morto.

Said the hero in the story
"It is mightier than swords
I could kill you sure
But I could only make you cry with these words" 

Dissi basta alle sigarette fumate per finta al Gilda nel tentativo di impressionare chissà quale scema (primi sintomi di misoginia) e diedi fondo alla vita. Che poi uno pensa che vivere in un quartiere centrale di una grande città sia meglio di vivere in un paese abbandonato nell'entroterra ed invece a quattordici anni non c'è differenza, ci sono i dischi giusti, se li riesci a recuperare. Belle & Sebastian mi hanno accompagnato per tanti anni. Una volta andai anche a vederli con mio padre. Ci sedemmo sugli spalti del Centrale del Tennis. Lui non se la sentiva di stare in piedi. Questa cosa lì per lì mi dispiacque ma poi capii che aveva un senso. Seduta dietro di noi c'era Victoria Cabello con un misterioso amico. All'epoca - sarà stata una decina di anni fa - ero molto innamorato delle sue lentiggini. Provai a farglielo capire in tutti i modi ma non ci fu verso di comunicare. Non mi sono goduto per niente il concerto, però. Ora quasi quasi neanche so se esistono ancora, i Belle & Sebastian, eppure so che esisto io nelle loro vecchie canzoni.


Intabarrato nel loden blu che tanto mi rendeva felice mio padre mi lasciò sotto casa del mio amico dietro Ponte Milvio. Avevo comprato le crocchette al bar Euclide e le mangiammo nel tragitto a piedi. Anche lui sfoggiava un loden - verde però. Era la prima volta in curva e la prima volta allo stadio insieme a lui. Era la prima volta che parlavamo sul serio. Ci conoscevamo da una vita ma solo sulla carta; ci eravamo incontrati veramente solo qualche mese prima nella nuova scuola. Lui era due o tre mondi avanti a me e la soddisfazione di stare insieme quel giorno - di condividere quell'esperienza - era pari solo alla sorpresa di entrare nel mondo incantato degli scozzesi. L'Empoli aveva una difesa orribile e Balbo riuscì a sbagliare i gol più semplici. Ciò non diminuì il mio buon umore. Poi uno lo mise dentro e loro rimasero in dieci. A fine primo tempo conobbi due altri suoi amici che erano allo stadio con noi, uno ha da poco avuto un figlio che ha chiamato come me. Nel secondo tempo successe di tutto, anche che Cappellini ci fece paura con una doppietta spettacolare. Però entrò Omari Tetradze. Fu lui a risolvere la pratica con un guizzo inaspettato sulla fascia, concluso poi in rete da Balbo. "Tetradze, ti amo e ti ho sempre amato dai tempi del campionato russo", gridò il mio amico dopo il gol. Ero dove volevo essere. Qualche settimana dopo sempre lui organizzò una festa in giacca e cravatta al Fleming. Ci finii più per serendipity che per invito. Chiesi a mio padre di prestarmi un vestito; non volle. I pantaloni grigi ce li hai, al massimo ti presto una giacca sportiva, mi disse. E vada per la giacca sportiva. Una giacca a righe bianche e azzurre, coi bottoni d'oro. E che cazzo. Neanche il Grande Gatsby. Non avevo alternative e avevo troppa voglia di andare. Era dove dovevo essere. In ascensore mi ritrovai con due amici del tennis, più grandi, che mi chiesero se ero andato lì per fare il cameriere. Odiai mio padre ma in fondo sapevo che aveva ragione lui (però come entrai nell'appartemento mi tolsi la giacca e finsi di avere caldo tutta la sera). Oggi ne ho due di giacche così e non ho più paura di fare il dandy, anche in ufficio. Se If you're feeling sinister avesse avuto una traccia fantasma, probabilmente avrebbe parlato di me, della mia giacca a righe, delle ultime partite con mio padre, di imparare a essere quello che si è. 

Judy, where did you go wrong?
You used to make me smile when I was down
Judy was a teenage rebel

mercoledì 6 giugno 2012

Memorie della Spagna calcistica #4: il campo a Vall d'Hebron

Per andare al campo devo prendere la metro verde e arrivare a Vall d'Hebron. Da casa mia sono solo quattro fermate verso nord. Scendo e vedo la città distesa ai miei piedi, come una puttana che fuma dopo aver scopato in un motel, con il mare a fare da spalliera. La luce, dall’alto, è sempre fioca, e l’orizzonte denso. Più mi arrampico a piedi per la strada ripida di questo quartiere senza vita, con i palazzi alti e noiosi, più i lampioni rendono surreale l’ambiente, come se sparassero luci al neon. Salire a piedi per queste strade è come abbandonare quello che si conosce, salire verso l’ignoto, con una canzone dei My bloody Valentine nell’iPod.

Arrivo al campo che non è ancora arrivato nessuno. Salgo su, fino agli spogliatoi. Sono tre casupole bianche attaccate. Parlo con don Antonio. Don Antonio è il custode del campo. Non ha famiglia, non ha casa, non ha nient’altro che il campo. Vive qui su. Dietro la sala con la scrivania, le foto, le coppe, i poster, c’è il suo appartamento. In mezzo al bosco, da dove si vede il mare.Dal campo, guardando verso l’alto, verso la collina, lo sguardo si fissa su una palma, che sporca la bassa costruzione bianca degli spogliatoi. Dietro, in alto, lontano, il monastero illuminato. E la luna.

Qui si soffre. Il campo è polveroso, terra sabbiosa, chiara e leggera. Ci si regge in piedi a malapena. Ai due lati del campo, il costato della collina. Gli alberi. Verde scuro. Ci sono anche le panchine in muratura: locales e visitantes. Sono bianche, col tetto rosso, la scritta nera. Faccio tre gol, tutti e tre squallidi. Quando segno il secondo, anticipando il portiere in uscita, Nicolas, uno degli argentini più simpatici, dice che ho segnato come Balbo. È il campo più bello del mondo.


***
All’inizio ero un po’ in soggezione in quelle partite, con tutti quei sudamericani. Non passano mai la palla, non difendono, parlano, si lamentano. Io che sono bomber, mi ero messo a fare il libero, per toccare qualche pallone, per trovare un po’ di coraggio, per mettere la gamba. Però oggi no. Oggi gioco punta. Quello che gioca sempre da centravanti, l’argentino frocetto che assomiglia al cantante di Belle and Sebastian, oggi non c’è. Vado io, annuncio al primo minuto. Nessuno obietta, che tanto sono tutti fantasisti, loro.

Dieci minuti e siamo già due a zero. Due gol miei, en passant. A porta vuota, per carità. Un rimpallo dopo un cross, e un retropassaggio azzardato del difensore che fa il pizzaiolo al Born. Due gol miei, e nessuno si sogna più di levarmi da lì. Poi un mucchio di sponde, di stop ineleganti ma efficaci, che tanto le marcature sono approssimative, posso stoppare in più tempi, girarmi verso la porta, alzare la testa (come il principe), cercare una maglia bianca, avanzare, scaricare al gordo peruviano, infilarmi nello spazio, aspettare ansimando un cross dalla fascia. Due volte di testa - due volte fuori. Ma mi applaudono, bravo tano mi dicono, bravo Balbo. Io, come Balbo.



Poi, verso la fine, vinciamo cinque a tre, io ho fatto un altro gol (perciò potrei portarmi il pallone a casa), Federico fa un tiraccio tutto sbilenco, la palla rimbalzava e lui si è fatto ingolosire, e le sue superga bianche hanno spedito il pallone lontano dalla porta, oltre la rete laterale, sotto il bosco. Federico la va a prendere, mentre gli altri iniziano a raccogliere le proprie cose e a salire verso gli spogliatoi, che queste partite hanno sempre bisogno di un pretesto come questo, come un pallone che si perde, per finire, che se aspettassimo don Antonio che ci spenga le luci allora possiamo pure continuare fino a mezzanotte, e magari uno di quei sudamericani sverrebbe sul campo, che don Antonio non ha altro nella vita, ha solo il campo, i tramonti, il mare all’orizzonte, la montagna alle spalle, il cartellone pubblicitario stinto della kas limòn, la palma.

Mi avvicino alla rete, Federico sta cercando il pallone, non lo trova, tra le ortiche, le erbacce, la sterpaglia, gli alberi. Ora vengo a aiutarti, gli dico. Poi sento un rumore, come un fruscio, un qualcosa che si muove, e dal bosco compare lui, il cinghiale.



***
Il cinghiale in realtà è femmina. Don Antonio mi parla di lei mentre chiude gli spogliatoi. Non è rimasto più nessuno. Avrà settanta anni, o di più, don Antonio. È solo, vecchio, tenero, con tante rughe. Il cinghiale, quando fa buio, scende dal bosco e lo va a trovare. Quando fa buio, perché nessuno vuole stare solo quando fa buio,  va da don Antonio che le dà da mangiare. Perché le vuole bene, le parla, la difende. Il cinghiale ha anche dei cuccioli. Cinque ne ha contati lui. Di solito scende sola, ma alcune volte i cuccioli la seguono. Don Antonio le dà pane, carne, acqua, pasta, qualsiasi cosa abbia a portata di mano. L’animale non ha paura, anche se a prima vista potrebbe far paura. È timido. Si avvicina con prudenza, non si fida degli umani, di me, non mi conosce, si fida solo di don Antonio, che la chiama, con amore si direbbe, e lei, a scatti, arriva davanti agli spogliatoi, si fa accarezzare, ti fissa con quegli occhioni scuri, ansima, e non puoi che volerle bene.

***

Poi torno a casa, da solo, in metro, e non penso alla ragazza che mi piace, nè ai gol che ho fatto, ma penso a don Antonio, e a quando morirà, e a quando trasformeranno il campo, lo renderanno un circolo costoso, verranno le ruspe e faranno il campo in erba, faranno rumore, abbatteranno gli alberi, costruiranno altri campi, il bar, gli spogliatoi nuovi, e immagino lo sconcerto del cinghiale, che scenderà dal bosco e non troverà don Antonio, l’amico, non troverà da mangiare, e non saprà più cosa fare, e proverà la paura, sarà buio e sarà sola, e la gente che starà giocando urlerà “guardate, un cinghiale!”, e magari le tireranno pietre, e lei piangerà, sola, nel bosco, scappando, e io sarò lontano, da lei, dalla ragazza che mi piace e che probabilmente avrei imparato ad amare ogni giorno un po’ di più, da tutto questo mondo che non conosco, che amo, che ora è mio e presto non lo sarà più, sarà un ricordo, una foto, una citazione di Cortàzar, una bottiglia di birra vuota, col limone adagiato sul fondo.