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domenica 5 maggio 2013

L'immagine di un femminicidio


"In una via leggermente in pendenza, fiancheggiata di auto e camion distrutti, notai sul marciapiede un uomo, con una mano appoggiata a un lampione. Era un soldato, sporco, mal rasato, vestito di stracci trattenuti da spaghi e spilli, la gamba destra amputata sotto il ginocchio, una ferita fresca e aperta da cui colavano fiotti di sangue; l'uomo teneva sotto il moncherino una scatoletta o un bicchierino di stagno e tentava di raccogliere quel sangue e di berlo rapidamente, per evitare di perderne troppo. Compiva quei gesti metodicamente, con precisione, e l'orrore mi afferrò la gola".
Sono costretto a prendere in prestito le parole di Max Aue, l'indimenticabile protagonista de Le benevole, il romanzo capolavoro di Jonathan Littell,  per descrivere, nel modo meno inesatto possibile, la sensazione di disgusto, strazio e abiezione che ho provato quando l'arbitro ha assegnato alla Juventus il calcio di rigore che le ha permesso di sbloccare - e vincere - la partita odierna contro il Palermo e, in questo modo, di celebrare davanti al proprio pubblico la conquista del secondo scudetto consecutivo da quando la allena Antonio Conte. Non dedicherò molte parole alla descrizione dell'azione, che immagino tutti abbiano avuto modo di vedere - di fatto, un velleitario lancio in area di rigore verso Vucinic, l'anticipo non proprio pulito ma efficace e soprattutto corretto di Donati, la vigorosa presa di posizione con il corpo di quest'ultimo, con tanto di innocuo e fisiologico appoggio con il braccio, la rovina a terra dell'attaccante montenegrino, l'incomprensibile fischio dell'arbitro con contestuale indicazione del dischetto, la realizzazione di Vidal, il boato dello stadio, la celebrazione del goal. L'immagine di una festa? No, per me, l'immagine di un femminicidio.

L'aspetto più carico di abiezione dei femminicidi - la sfumatura più cupa del nero che colora la cronaca di questi mesi - è la ricorrente inutilità del gesto. L'insulto su Internet, il livido sullo zigomo, l'occhio pesto, la spruzzata di acido, lo stupro, la coltellata, non sono quasi mai il mezzo barbaro di cui l'uomo si serve per raggiungere il suo ignobile fine, sia esso un fine di assoggettamento, di controllo, di vendetta o di mero sfogo animale, ma il sigillo di sdegnosa prepotenza che viene apposto al termine dell'atto, quando già tale fine è raggiunto o è impossibile da raggiunere. In altre parole, l'aspetto più rancido dei femminicidi è la loro superfluità, la loro "oscena gratuità", per rubare un verso - da molto amato - di Cristiano Godano (quando Godano era ancora ispirato; e non è un caso che citi proprio lui, che venendo dalla provincia cuneese e potendo quindi legittimamente essere juventino sia, invece, un grande tifoso del Torino). La stessa oscena gratuità del rigore di oggi. Non c'era nessun motivo per fischiarlo (intendo: motivi oltre a quello lapalissiano per cui non era rigore, non poteva mai esserlo). La Juventus avrebbe vinto comunque - oggi - lo scudetto, perchè le bastava un pareggio; probabilmente, avrebbe vinto comunque anche la partita, perchè è più forte del Palermo, e di tutte le altre squadre del campionato. E però l'uomo che può umiliare la donna, anche se la donna non oppone resistenze, non ci pensa due volte a farlo. Anche se non serve. Anche se ha già vinto.

Altra costante del carattere del femminicida è l'assoluta insensibilità al pentimento. Il femminicida non cambia, non si redime, neanche se va un periodo in carcere. Non solo: se abita in un paese, più o meno piccolo, non si fa scrupoli a passare accanto alla donna che ha umiliato, a schernirla, a perpetrare l'offesa. Prima della partita di oggi, il canale 201 di Sky ha mandato in onda una sorta di speciale celebrativo (in anticipo?) dello scudetto della Juventus, con le immagini delle partite al termine delle quali la Juventus si è laureata campione d'Italia negli ultimi venti anni. I sigilli finali delle cavalcate verso il titolo con i vari Lippi, Capello e Conte. Per me, non devo neanche sottolinearlo, non è stata altro che una lunga galleria di femminicidi. Non quelli avvenuti nelle partite passate in rassegna, sempre pulite, ma quelli sepolti nella mia memoria, che hanno disseminato di sangue quegli scudetti, preparando quelle feste. Nella società dello spettacolo e di Sky, infatti, tutto diventa high-light, immagine, flash, perdendosi qualsiasi tipo di narrazione o contestualizzazione, ci si dimentica di come si arriva a certi eventi perchè (viene scelto che) rimangono solo gli eventi in sè considerati. Anche la partita di oggi è già diventata - sterilizzata, privata di significato - soltanto un'ulteriore trentina di secondi di immagini in movimento da aggiungere al video che ho visto e che verrà mandato in onda la domenica a pranzo l'anno prossimo, prima dell'inizio della partita che vedrà la Juventus laurearsi campione per la - finalmente! - trentesima volta. Eppure, l'immagine del rigore fischiato a metà del secondo tempo contro il Palermo segna un momento di discontinuità, perchè rimarrà a imperitura e retroattiva memoria dei tanti soprusi che non compaiono nel video, perchè avvenuti prima dell'ultima giornata, e ci ricorderà qual è il modo più ricorrente in cui, da quando quelli della mia generazione abbiamo iniziato a seguire il calcio, si vincono gli scudetti in Italia. Senza che, una cosa che mi sembra incredibile!, qualcosa cambi.



Scrivo tutto questo non perchè odio o ho sempre odiato la Juventus, ma perchè, con tutte le sue passate crudeltà, non posso - non voglio - tenere, anche questa volta, la mia sofferenza personale solo per me. Già so che il femminicida mi ignorerà beffardo, quando non mi riempirà di scherno. Non solo lui, però; tanta gente, tifosi normali, si è ormai assuefatta a questo stato delle cose, e magari ci scherza anche su. Questa è una dinamica non soprendente della natura umana. Racconta una storia terribile a questo proposito il grande scrittore V.S. Naipaul. Nel 1945, quando nei cinema di Port of Spain, la capitale dell'isola caraibica di Trinidad e Tobago dove Naipaul è cresciuto, il cinegiornale mostrava i sopravvissuti dei campi di concentramento, il pubblico dei neri nelle ultime file si metteva a sghignazzare. Riflette il premio Nobel che "forse le crudeli punizioni ai tempi degli schiavi erano accompagnate da reazioni come queste, e non sempre da paura o compassione". Mentre loro - i negrieri, i femminicidi - festeggiano, noi non solo non siamo capaci di ribellarci, di toglierci le catene come Django, di prendere il primo oggetto trovato per casa o nella borsetta e di conficcarglielo nelle palle nude, ma dopo un'iniziale momento di smarrimento, di incomprensione, ci rassegniamo che così doveva andare, che tanto avrebbero vinto comunque, che il fatto di essere i più forti in fondo li legittima anche ad abusare del loro potere, perchè pur essendo sbagliato in fondo non altera l'esito degli eventi. Stiamo lì, con il nostro barattolo di sangue in meno, lo beviamo e ci diciamo anche che in fondo è molto buono, finchè non moriremo dissanguati. Ancora un po', ancora qualche rigore così, infatti, e finirà che il calcio non lo seguirà più nessuno.

Anche questa non sarebbe una novità, però. Spiega Jonathan Wilson (nell'articolo "The essential backdrop", apparso sul sesto numero della sua rivista The Blizzard) che lo sport non ha bisogno delle folle intorno al campo per essere praticato; discipline come l'hockey, la pesca o l'arrampicata funzionano benissimo anche in assenza di migliaia di persone che urlano incoraggiamenti o insulti ai partecipanti. Lo stesso gioco del calcio non era stato programmato per attrarre le folle - a differenza, ad esempio, del wrestling o del cinema; è stato organizzato e strutturato perchè alla gente piaceva giocarci e voleva un set di regole standardizzate e degli avversari regolari. Gli spettatori sono arrivati dopo e sono arrivati perchè erano affascinati dalla sfida, dall'incertezza, dalla suspense: il divertimento era tutto nello scoprire, alla fine, chi avrebbe vinto. Dopo il rigore di oggi, dopo tutti i rigori di questi anni, chi si avvicinerebbe più a questo sport? Perchè dovrebbe farlo? L'alea non è più su chi vincerà, ma su quando vincerà (il come è noto).

Per me, la più bella poesia della poetessa argentina Alejandra Pizarnik, morta suicida troppo presto e, in un certo senso, vittima della diffidenza dell'ambiente letterario maschile del suo paese, è anche una delle più brevi. S'intitola Nombrarte

No el poema de tu ausencia, 
sòlo un dibujo, una grieta en el muro, 
algo en el viento, un sabor amargo.

A furia di fischiare rigore come questi, di vincere campionati come questi, di infliggerci crudeltà inutili come queste, del calcio che amiamo non ci rimarrà più niente, ci disamoreremo, ci distaccheremo, e quando tra trent'anni ci passerà, per casualità, un'immagine di Arturo Vidal che celebra il goal dal dischetto, il goal dello scudetto 2012-2013, ci ricorderemo all'improvviso di questo sport che avevamo tanto amato, un ricordo effimero e inafferrabile come "qualcosa nel vento", e un "sapore amaro" (non più l'orrore di un tempo, ma su di esso sedimentato) ci afferrerà la gola, come al grande Max Aue, insieme al quale tireremo dritto verso la fine della Storia. Ma intanto, lasciamoli festeggiare sulle macerie della nostra civiltà, con il corpo della donna ancora caldo accanto.
"Nel salotto, ansimando per riprendere fiato, sentii distintamente un pianoforte; impugnando la pistola mitragliatrice, aprii la porta della camera da letto: all'interno, sul letto disfatto era sdraiato un cadavere sovietico, e uno Hauptmann in colbacco, seduto a gambe incrociate su uno sgabello, ascoltava un disco su un grammofono appoggiato per terra. Non riconobbi l'aria e gli domandai cosa fosse. Attese la fine del pezzo, una musica allegra con un piccolo ritornello ossessivo, e sollevò il disco per guardare l'etichetta: "Daiquin. Il cucù"".

[i collage sono del grande James Gallagher]