Quello che sto per raccontare è successo ormai da quasi
due mesi e non sono ancora riuscito a dargli una spiegazione.
* * *
Mi trovavo a Barcellona, “la città del buon senso, la città del senso comune”, il giorno 5 di settembre. Mi ero
svegliato tardi, quasi alle undici, con un cerchio alla testa che provai a
sfumare con un oki e una doccia. Faceva caldo, caldissimo, un’afa che mi impediva di ragionare. Piano piano mi ricordai dell’unica commissione che avrei
dovuto fare quel giorno, vale a dire portare il vestito blu alla tintoria all’angolo
affinché me lo stirassero in giornata. La sera, infatti, dovevo andare al
matrimonio di un mediocre tennista, Jordi Samper, famoso più che altro per
essere il fratello maggiore di una giovane promessa del Barcellona, tale Sergi
Samper, di cui il proprietario del Bar Barela, mio bar sport di riferimento,
parla un gran bene. Jordi si sposava con una mia cara amica, bruttina ma molto
ricca, Cassandra Puig i Mateu, primogenita di Bernat Puig i Molins, il magnate
del cemento catalano, uno degli artefici - o forse dovrei dire carnefici - dell’indiscriminato
sviluppo turistico della Costa Brava negli anni Settanta e Ottanta. Il matrimonio
era alle sette in un’anonima parrocchia di Pedralbes, il quartiere borghese in
cui Jordi e Cassandra vivono, mentre il ricevimento era previsto in una masia di proprietà
della famiglia Puig i Mateu che si trova sulla strada per Sant Cugat del Vallès.
Lasciai dunque il vestito in tintoria e pensai che, visto
il tipo di giornata, non ne sarei arrivato vivo in fondo se non mi fossi
rinfrescato in piscina. Presi quindi un costume e un libro e, scartata l’ipotesi
di andare in spiaggia a Sitges, camminai
un quarto d’ora fino a un hotel di discreto lusso dell’Exaimple che ospita, all’ultimo piano, una
piacevolissima piscina. Il primo bagno nell’acqua fresca mi diede
vigore e soprattutto appetito, così ordinai al ristorante l’unica cosa che non
mi facesse venire la nausea dopo tutto quello che avevo bevuto la sera prima, e
cioè una bistecca alla piastra con l’insalata. Mangiai con gusto e tornai al
mio lettino.
Ero lì, dunque, a bordo piscina, facendo la digestione
dell’insalata e della bistecca alla piastra, sdraiato sul lettino azzurrino con il logo dell’hotel, circondato da ombrelloni di plastica e corpi che
profumavano di Nivea e cocco, mezzo addormentato, in attesa che si alzasse la
brezza del pomeriggio, con la bottiglia d’acqua che si riscaldava al mio lato, ogni
tanto mi giungevano le grida dei bambini grassi seguite dagli splash e dalle
lamentele delle straniere in bikini, allegramente stanche dopo due giorni in
cui si erano iniettate piccole ma costanti dosi di alcool nelle discoteche
sulla spiaggia, lontano dal mondo reale fatto di notizie e persone,
convalescente dopo il mio fine settimana di bagordi, pensando distrattamente al
matrimonio della sera, quando sentii una mano che si poggiava sulla mia spalla e
pronunciava il mio nome. Mi voltai di scatto, in maniera brusca, come se avessi
aspirato il fondo di una granita. Dietro di me c’era un volto familiare. Erano almeno
cinque anni che non lo vedevo, ma l'ho riconosciuto, dalla sua elegante pelata, dai
suoi occhi penetranti. Arturo.
La verità è che su Arturo non ho molto da dire. Più grande
di me di almeno una decina d’anni, prima dei fatti di settembre avevo giusto trascorso con lui alcune estati in Sicilia. Quando l’ho conosciuto non lavorava più
come giornalista, professione che, per quello che ho avuto modo di capire (ma
lui non me ne ha mai parlato apertamente), decise di lasciare dopo la famosaintervista che gli concesse Luis Cesar Menotti quando fu esonerato dallaSampdoria. Quando l’ho conosciuto, dicevo, nel 2007, lavorava come guardiano
presso il campeggio di Favignana, dove io trascorrevo almeno quindici giorni
ogni agosto. Nel corso di tre estati consecutive ci eravamo quindi frequentati,
e apprezzati, sulla piccola isola a forma di farfalla, dove Arturo cambiava
spesso ruolo (l’anno successivo faceva il cameriere, quello dopo gestiva l’edicola,
l’ultimo anno affittava le biciclette e i motorini). A partire dal 2010 smisi
di frequentare l’isola e, pertanto, anche Arturo, a cui però mi legavano ricordi
molto cari.
Per la verità, nel corso degli ultimi cinque anni ho
ricevuto una serie di cartoline, e anche un paio di lettere, di Arturo. Il fatto
è che non ho mai capito se scherzasse o se fosse serio. In queste missive - che
mi arrivavano soprattutto dall’Argentina (ne ricordo una, molto poetica, con un’immagine
in bianco e nero di Buenos Aires, in cui mi scriveva: “Caro Federico, oggi è
domenica, ma le domeniche a Belgrano, se non c’è la partita, non sono domeniche,
sono palloni sgonfi che aspettano il fiato dei tifosi per prendere forma”) - mi parlava di una ricerca che stava facendo
sulle tracce di un vecchio allenatore argentino, ormai cieco, di cui era dubbia
non solo la dimora ma anche la stessa esistenza, e di cui ora non ricordo il
nome, di cui Menotti gli aveva parlato come del suo maestro. Nel corso di
queste sue ricerche, Arturo mi aveva raccontato, per la verità in maniera del tutto ermetica, gli incontri che faceva con ex
giocatori, allenatori, dirigenti, tifosi, i quali il più delle volte finivano
per depistarlo. Quel giorno di settembre, era più di un anno che non ricevevo sue notizie e immaginavo
che o fosse morto o fosse tornato in Sicilia, e in ogni caso che avesse interrotto
la sua ricerca. Ed invece me lo trovai lì, a bordo piscina, in un hotel dell’Eixample, più vivo che mai.
La cosa più incredibile, però, non fu quella. Mentre bevevamo
due birre al tavolino del bar della piscina, riparati da un ombrellone, Arturo, dopo avermi
fatto parlare per venti minuti filati della mia vita, alla mia domanda su cosa
ci facesse quel giorno a Barcellona, mi rispose che era venuto per il
matrimonio di un suo vecchio amico, il tennista Jordi Samper. Lì per lì la cosa
non mi sconvolse più di tanto. Arturo, infatti, da ragazzo era stato un ottimo
tennista, quasi una promessa, se così si può dire. Tanto che, a Favignana,
giocavamo quasi ogni pomeriggio al campo dell’ex villaggio Gassman, dove lui
conosceva tutti, avendoci lavorato per alcune estati. Si limitò a dirmi che era
molto amico dell’allenatore di Samper, un catalano di cui non ho afferrato il
nome, e tanto mi bastò. Mi rallegrai della fortunata casualità, sperando che
fosse così fortunata da farci finire anche nello stesso tavolo durante il ricevimento. Quanto al
motivo della sua presenza in piscina, in quella piscina, mi disse che alloggiava proprio in quell’albergo,
dal momento che era l’albergo che gli sposi avevano messo a disposizione degli
invitati. Anche questa spiegazione, perfettamente plausibile, fu sufficiente a
non farmi dubitare delle sue parole. Dopo aver parlato un altro po’ del più e
del meno, con la stessa velocità con cui era apparso, Arturo scomparve. Quando provai
a chiedergli della sua ricerca, dei suoi viaggi in Argentina, cambiò
leggermente espressione, si incupì, e mi disse che mi
avrebbe raccontato tutto durante la festa, nell’aria fresca di Sant Cugat, allietati
dai gin tonic e dalle ragazze che ballavano, e che ora doveva proprio scappare
perchè aveva ancora una serie di commissioni da sbrigare nel Barrio Gotico, compresa
la ricerca di un papillon per la cerimonia. Per un attimo pensai di offrirmi di
accompagnarlo, ma faceva così caldo, il Barrio Gotico mi è così indigesto,
avevo ancora l’eco del mal di testa, e non volevo arrivare distrutto al
matrimonio, che restammo che ci saremmo visti direttamente in chiesa all’ora
convenuta. Ci abbracciammo in maniera affettuosa e ci salutammo.
La sera, la sposa arrivò con venti minuti di ritardo. La
cerimonia durò poco più di un’ora. Uscimmo alle otto e mezza sul selciato della
chiesa con il sole ancora forte, vigoroso, spagnolo. Di Arturo neanche l’ombra.
Pensai che non aveva fatto in tempo a venire alla cerimonia e che ci saremmo
incontrati direttamente alla festa. Andai in macchina con alcuni cugini
simpatici di Cassandra. Quando arrivammo alla villa, una masia antica ma non
particolarmente pittoresca, ci attendeva un esercito di camerieri con vassoi
pieni di tapas. L’aperitivo fu lungo e piacevole; l’afa, giunti nel Vallese, si
era smorzata, e il tramonto colorava di sfumature violacee i volti degli invitati. Venni
presentato al vecchio allenatore di Samper, che era stato amico di Arturo, e
parlammo degli anni Novanta, anni d’oro del tennis spagnolo che avevo vissuto
in prima persona, ma non gli chiesi se conosceva il mio amico. Venni presentato, anche se di sfuggita, al fratello
calciatore dello sposo, e mi premurai solo di consigliargli di non seguire troppo il suo
nuovo allenatore, quel Luis Enrique che avevo conosciuto a Roma, perché tanto
non sarebbe durato molto. Venni presentato, infine, a un’amica molto
avvenenente di Cassandra, Valeria, una ragazza argentina, di origine italiana
(di cognome faceva Bertuccelli), con cui Casandra aveva
recitato in alcune coproduzioni minori (erano entrambe attrici) e che era
venuta apposta da Buenos Aires per il matrimonio, la quale, in maniera forse
inconsapevole, mi fece dimenticare, un bacio alla volta, l'assenza di Arturo.
La mattina successiva, ormai il 6 di settembre, mi
svegliai nella stanza di un hotel che, a quel punto, mi era diventato
familiare. Dopo aver fatto la doccia, provai a fare nuovamente l’amore con
Valeria, ma avevamo entrambi troppo mal di testa. Indossai allora faticosamente
il vestito sgualcito del matrimonio e la salutai, promettendole che sarei
tornato nel pomeriggio, per fare un ultimo bagno nella piscina all’ultimo piano
e magari poi andare al cinema a vedere un film con Elena Anaya che era appena
uscito e in cui lei era la co-protagonista. Valeria aveva delle sopracciglia
bellissime e mi dissi che sarei dovuto assolutamente ritornare a baciarle. Prima
di uscire dall’hotel mi fermai alla reception per sapere se il signor Arturo
*** fosse già ripartito. Fui quasi sollevato quando il ragazzo francese dietro
la reception - che immaginai fosse lì in stage - mi disse che non risultava
alcun ospite registrato con quel nome nell’ultima settimana.
Anche se non ce n’era bisogno, sulla strada di casa decisi
di telefonare a Cassandra. Dopo un rapido preambolo di ringraziamenti, auguri
di buon viaggio (con il marito erano in partenza per il Perù) e ammiccamenti su Valeria, le
chiesi se avesse mai conosciuto un amico del marito, o comunque se avesse mai
sentito nominare il nome di Arturo ***. Mi disse che non sapeva chi fosse. Ci salutammo
dandoci appuntamento al suo ritorno. Arrivato a casa, per la verità esausto, mi accorsi subito, già quando aprii la porta, che c’era
qualcosa di strano, com’erano sempre state strane, d’altronde, le lettere di
Arturo, in cui quello che voleva dirmi non era mai nelle righe, ma tra le
righe. La porta di casa, infatti, era come bloccata. Dovetti fare forza per
aprirla. Entrando a casa capii il motivo: sotto la porta qualcuno aveva
lasciato una busta, che quindi aveva fatto attrito. La presi in mano e riconobbi
subito la scrittura di Arturo. Sulla busta c’era questa frase, tra virgolette: “Lo
spettacolo calcistico è l’unico rito che ancora vale la pena di far
sopravvivere, perché a volte l’esistenza filtrata attraverso la finzione,
chiarisce qualcosa”. Non sapevo se era una frase sua o di qualcun altro (magari
del famoso allenatore cieco). Aprii la busta con un misto di ardore e timore. Per
prendere tempo con me stesso, misi l’acqua sul fuoco per farmi un tè. Quando fu
pronto, mi sdraiai sul divano a leggere
la lettera.
* * *
Caro Federico,
come avrai già verificato
tu stesso, non ce l’ho fatta a venire al matrimonio. Purtroppo sono dovuto
ripartire immediatamente. Sappi però che mi ha fatto un enorme piacere
incontrarti. Io e te siamo fatti della stessa materia, una materia calda, siamo
come due scolature di catrame che invadono le strade che percorrono.
Mi hai chiesto della
mia “ricerca”, e io sono stato forse elusivo. Mi accorgo ora che la nostra
amicizia richiede che io mi apra un po’ di più. Ed allora voglio dirti questo,
anzi mi sento di dirti questo. Prendilo come un anticipo sui nostri incontri
futuri.
Il ventisette settembre,
nello stadio S. Siro, Batistuta segnò per tre volte al Milan, di cui una con un
curioso calcio di punizione tirato all’interno dell’area di rigore, con i
giocatori rossoneri in barriera sulla linea di porta. Esultò come se
imbracciasse una mitraglietta e il giorno successivo un quotidiano progressista
pubblicò l’accorato articolo di un intellettuale che dipinse Batistuta come un
porco e un guerrafondaio. Seguirono: su una rivista giuridica internazionale,
la lettera aperta di un noto tennista che rivendicava il diritto di spaccare la
racchetta per terra; l’intervista, su un rotocalco cattolico, a un prete di
Avellaneda che millantava di aver impartito i sacramenti al piccolo Gabriel; la
raccolta di firme, a cui Batistuta non diede alcun peso, di un nucleo pacifista
del Valdarno perché abiurasse quell’esultanza.
Il diciotto ottobre,
Batistuta segnò un gol alla Roma. Era un pomeriggio tiepido e nel primo tempo
della partita Batistuta, cui arrivavano pochi palloni, ebbe modo di riflettere
sulla conversazione tenuta la sera prima con Gustavo Bartelt, suo connazionale
che giocava nella Roma e che gli aveva chiesto di incontrarlo tramite il comune
amico Nestor Sensini. I due si erano visti in un bar dei Parioli, Batistuta
indossava un cappello da giamaicano per non farsi riconoscere, Bartelt non lo
riconosceva nessuno, perché non era molto famoso e assomigliava, se mai,
all’altro calciatore argentino Claudio Caniggia, talentuosa ala destra e
latin-lover che qualche anno prima, a Roma, era stato squalificato per cocaina:
lo avrebbero al limite scambiato per qualcun altro e dopo una pacca sulla
spalla o uno sputo sarebbe finita lì.
L’ospite romano di
Batistuta aveva l’aria furba (in questo Bartelt ricordava molto Caniggia) di
chi si fosse trovato, senza nemmeno accorgersene, a vivere a scrocco un più
fortunato destino (in questo Bartelt, almeno per qualcuno, era Caniggia). Tra
le altre cose (il conto gratis dal meccanico, un appartamento con un numero
elevatissimo di specchi, fornicare con un numero elevatissimo di donne le cui
posture si moltiplicavano nel numero elevatissimo di specchi), questa
reincarnazione aveva dato a Bartelt la possibilità di incontrare i suoi idoli,
come lo sbigottito Batistuta che seduto al tavolino del bar si sentiva lontano
anni luce dal conseguimento di quei vertici sessuali. Bartelt gli confidò di
essere un calciatore non più che mediocre, ma per ordine dell’allenatore della
Roma, un boemo di cinquant’anni, complice una stagione fortunata nel Lanus
(tredici gol in diciotto partite), era stato acquistato per ricoprire il ruolo
di ala destra, guarda caso lo stesso di Claudio Caniggia. Per come glielo
descrisse Bartelt, il boemo, che si chiamava Zdenek Zeman, non parlava quasi
mai, fumava sempre e proponeva un gioco d’attacco quasi suicida. Soltanto un
giorno, nel ritiro pre-campionato, si era avvicinato a Bartelt pronunciando le
seguenti parole: “Sappiamo tutti e due che sei pressappoco una pippa. A me non
importa, mi serve solo che tu corra verso l’area avversaria più velocemente che
puoi. Possono succedere due cose: o t’insegno a essere la più grande ala destra
del mondo oppure non ci riesco, ma le persone penseranno che sei comunque
fortissimo, perché in te gioca ancora lo spirito di Claudio Caniggia”.
“Mister, mica è
morto Caniggia”.
“Lo so, ma certi
giocatori hanno lo spirito vasto”.
Al trentaduesimo del
primo tempo, Batistuta agganciò un pallone che sembrava spiovere dall’altra
parte del tempo o della terra. Era immerso in un torpore che non sapeva se
imputare alla tattica troppo difensivista del suo allenatore o al fatto che i
difensori della Roma erano sistemati in modo che la loro linea di difesa coincidesse
con quella di metà campo, confinando, in virtù della regola del fuori gioco, la
metà in cui la Fiorentina
avrebbe dovuto attaccare al di là del lecito calcistico. La nuova disciplina
cui si era sottoposto cominciava a funzionare, perché in un solo istante si
riscosse dall’abulia e di esterno al volo scavalcò il portiere in uscita.
In genere, i
difensori delle squadre avversarie lo tempestavano di botte, qualcuno gli
diceva che si sarebbe scopato sua moglie, un paio di volte si era ritrovato con
un dito in un occhio. La difesa della Roma al contrario era, la parola giusta
gliela offrì proprio il ricordo della sera prima, spirituale, di una sostanza
strana fatta di aria e mistero. Tutti si disinteressavano di lui, forse un
altro pallone giocabile sarebbe arrivato, avrebbero vinto due oppure tre a zero
(la Roma non
sembrava intenzionata a segnare, ci furono risse, l’arbitro cacciò alcuni
giocatori per comportamento scorretto, ma tutto si svolgeva al di là di una
bruma nebbiosa e a Batistuta veniva di chiudere gli occhi), che importa,
pensava, l’importante è vincere e che vincano i buoni.
Verso la fine della
partita, l’allenatore boemo mandò in campo Bartelt. Non gli disse nulla, solo
gli strizzò l’occhio sorridendo. Bartelt pensò: “Che cazzo ridi, stiamo
perdendo, siamo rimasti in nove e non ho la più pallida idea di come giocare”.
Batistuta pensò: “Sono ridotti alla frutta, io potrei sdraiarmi sul prato per
sognare di quando ero bambino, e questo schiera il sosia di Claudio Caniggia,
che ieri sera si è pure fatto quattro gin tonic”.
L’ingresso di
Bartelt, senza una ragione visibile, ha l’effetto di una scarica elettrica. La Roma, che fino a quel momento
aveva giocato in modo a dir poco confusionario, è percossa da uno slancio
convulso e teatrale. Lo stadio Olimpico lo avverte e intona una litania
crescente di cori. Al novantesimo Bartelt scarta con una mossa fulminea il
terzino sinistro della Fiorentina, un tedesco dalle orecchie a sventola, non
senza averlo prima irretito con una sequenza di pasodoble che gli aveva
insegnato una puttana di Mataderos. A Batistuta, che adesso vede tutto con
chiarezza da sfiorare la premonizione, la chioma giallastra di Bartelt pare una
lama efferata e incosciente: chiunque al suo posto tirerebbe verso la porta o
passerebbe a un compagno, Bartelt no, continua ad avanzare verso la fine
dell’area di rigore, rallenta per non oltrepassare la linea, si avvicina all’area
piccola del portiere, e da qui offre una traiettoria radente a un compagno di
squadra con cui prima di allora non aveva mai avuto a che fare (nessuno per la
verità ci aveva mai avuto a che fare, Dmitrij
Anatol'evič Aleničev era un idraulico russo che sbarcava il
lunario nello Spartak di Mosca, ma sul cui acquisto Zeman aveva molto
insistito, sfinendo gli scetticismi della dirigenza) e che non chiede di meglio
di pareggiare la partita.
Allo scadere dei
minuti di recupero, Bartelt corre in verticale nell’area della Fiorentina,
riceve un pallone che arriva dalla destra e prova a girarlo verso la porta. Ne
scaturisce un tiro pietoso, neutralizzato da un difensore diverso dal tedesco di prima. Il pallone torna di nuovo sui piedi di
Bartelt, che ha la visuale sgombra e può sprecare la sua seconda occasione. Il
tiro sbatte sul portiere ma - questo Batistuta già lo sapeva, era ineluttabile
- Francesco Totti, il giovane e promettente regista della Roma, si avventa
sulla sfera di cuoio e non fallisce il gol del due a uno.
Bartelt, forse con
innocenza o forse con perversione, propose a Batistuta di scambiarsi le maglie
come ricordo di quella partita. Batistuta non sapeva più cosa pensare, tutto
gli pareva assurdo, ridicolo e miracoloso. Scendendo negli spogliatoi incrociò
l’allenatore boemo, che lo guardò con una maschera di silenzio dietro cui
c’erano il vuoto della saggezza e il vuoto della follia.
Spero di rivederti
presto.
Con affetto, il tuo
amico Arturo
* * *
Verso le sei tornai in albergo a cercare Valeria. In
camera non c’era. In piscina neanche. Alla reception, un altro ragazzo, questa
volta catalano, mi disse che la signora Bertuccelli aveva fatto il check-out
verso le dodici. Telefonai a Cassandra, ma il telefono era staccato. Pensai di
mandarle un messaggio, ma non mi sembrava il caso di disturbarla durante il suo
viaggio di nozze. Da Valeria, ovviamente, non mi ero fatto lasciare il suo
numero. Quando stavo per allontanarmi dalla reception, il ragazzo mi chiese se
per caso mi chiamassi Federico ***. Risposi di sì, che ero io. Ah, fece lui. Ah
cosa?, lo incalzai. La signora Bertuccelli ha lasciato questa per lei. Una lettera.
Il ragazzo mi allungò la busta azzurrina con il logo dell’hotel. Senza neanche
pensarci, gli dissi che non la volevo. Mi guardò perplesso. Non la voglio, gli
dissi un’altra volta, scandendo le parole. No-la-quiero!
Va bene, disse lui. Mi chiese se allora dovesse buttarla. Sì, certo, tagliala
in quattro pezzi e buttala nel cestino, gli risposi. Però fammi un favore,
aggiunsi: prima di buttarla, leggila. Uscii dall’albergo e mi incamminai verso
il cinema, sperando di fare in tempo per lo spettacolo delle otto.