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lunedì 20 ottobre 2014

Més que un (rotary) club


Esternamente, il Camp Nou è più brutto e fatiscente del San Paolo, con la differenza che al posto di stencil e murales degli ultras partenopei campeggiano gli enormi teloni degli sponsor, con le gigantografie dei campioni più acclamati. Les Cortes, barrio non troppo distante dal centro che da oltre mezzo secolo ospita l'impianto, appare un posto tranquillo, grazie ai diffusi spazi verdi che ossigenano la folta schiera di palazzacci residenziali.
Dopo essermi divincolato dalla fiumana di turisti provenienti da ogni parte del mondo per visitare il museo del clùb, che con oltre un milione di visite l'anno è tra i più visti della Catalogna, arrivo alla biglietteria: il display si rivela impietoso confermando gli stessi prezzi del sito ufficiale del club. Settanta euro per il settore più popolare, situato all’altezza di un palazzo di sedici piani. Lo sguardo fisso nel vuoto e la salivazione azzerata riacutizzano d'un colpo e prepotentemente un’oscura percezione che ogni calciofilo che si rispetti porta con sè. La contraddizione corrispondente alla nozione di calcio della nostra epoca. Da una parte fede, passione, sport popolare e dall'altra fenomeno tout court del mondo capitalista.
Nel momento in cui mi riprendo dal colpo e inizio vagare senza meta sento di aver buttato una mattinata e con questa l'illusione di assistere dal vivo a una partita del Barça. ..."Mès que un (rotary) club", penso. Eppure ci deve essere una spiegazione, non è possibile che ogni domenica novantottomila posti sono ad esclusivo appannaggio di turisti e ricconi.
Da quella mattina in poi, ogni qual volta si presenta l'occasione interrogo conoscenti e passanti, taxisti e venditori sulle possibili modalità alternative di accesso allo stadio. I risultati a tre giorni dal match sono sconfortanti. Gran parte dei suggerimenti ottenuti oscillano tra il generico "buscar on internet", e quello odioso ma ben più disincantato di vederla nel classico bar.
Dopo una prima reazione di sconforto appare chiara la necessità di cambiare rotta, scartare indicazioni dettate dal senso comune, percorrere strade alternative. Solo così avrei potuto assistere a Barcelona - Athletic Club Bilbao, derby indipendentista per eccellenza.
L'occasione si presenta il giorno dopo tornando a casa verso l'una e mezza di notte, nel quartiere di Sants. Mezzo assonnato, passo vicino alla stazione, davanti ad un anonimo e spartano bar: bancone, sgabelli e televisione regolarmente sintonizzata su canali sportivi. Il mio occhio viene catturato da una sagoma solitaria che indossa la seconda maglia del Barḉa con le sgargianti strisce rosso-gialle della senyera, bandiera della Catalogna.
Victor è alto, a occhio ha meno di trent’anni e quando irrompo al suo cospetto sta terminando una Estrella Damm.
Gli parlo di me, di cosa facessi lì dieci giorni, cercando quanto più possibile di spogliarmi di dosso l’etichetta di turista. Ben presto arrivo al punto. Mi chiede quanto fossi disposto a spendere. Metto subito in chiaro il mio principio etico: non avrei speso più di quanto non avessi mai fatto per sostenere la mia squadra del cuore. Per avvalorare ulteriormente la mia posizione, estraggo dal portafoglio due biglietti stropicciati ma gelosamente conservati, e glieli mostro. "ACF FIORENTINA" e "SS LAZIO" rispettivamente campionato e coppa Italia, entrambi curva B, 10€ e 8€, la sorte è dalla mia. Viktor rimane impietrito, lasciandosi scappare ad alta voce, in un misto di rabbia e invidia, un'imprecazione tanto colorita quanto comprensibile, anche in catalano. Dopo essersi ripreso dallo shock, e aver dato l’ultimo sorso alla birra, tratteggia in breve i contorni della macchina da soldi blaugrana.

In primis, c’è la spartizione dei diritti televisivi della Liga, monopolizzata per il 50% da Barça e Madrid, a seguire l'esorbitante apporto degli sponsor, che rimpinguano le casse dei due club. Ultimo, ma primo fattore a incidere direttamente sul prezzo dei biglietti, c’è la politica della campagna abbonamenti del club, che, annualmente, per una cifra conveniente ma comunque considerevole, comprende tutte le competizioni in cui è impegnata la squadra. Fidelizzato o spennato alla taquilla. In Spagna, per i vikingos e i culè funziona così, conclude allargando le braccia.
Poco dopo abbassa il tono della voce e scandisce le parole, capisco che è arrivato il momento dell’offerta. Mi spiega che il pomeriggio della partita avrebbe lavorato, riuscendo a liberarsi solo per il secondo tempo, e che quindi era disposto a vendermi l’ingresso col suo carné.

Poi chiede carta e penna al barista pakistano e inizia a disegnare un rettangolo inscritto in tre ellissi concentriche, illustrandomi il suo settore. Infine spara il prezzo: cinquanta euro più venti di cauzione, perché sono sempre uno sconosciuto e in caso di mancata restituzione avrebbe coperto le spese per il duplicato. Spiazzato dalla cifra, non sapendo che rispondere, gli faccio notare che anche lui era per me un estraneo e che non avevo garanzie. A questo punto, risentito, solleva il bordo del pantalone mostrandomi lo stemma del Barça tatuato sul polpaccio destro, credo a significare la sua parola d'onore.

Prima di salutarci torniamo a varcare quel meraviglioso terreno drammatico e nostalgico in cui all'istante sembriamo amici di vecchia data. Commentiamo la mancata qualificazione del Napoli alla Champion’s e la disfatta al San Mamès per mano proprio del prossimo avversario del Barça. Victor sentenzia che è un peccato che il Napoli abbia una difesa di merda, non posso che acconsentire. L’ultimo argomento toccato, sovvertendo ogni ordine gerarchico, è il pibe de oro.
"Aqui Maradona solo fiesta e coca" fa lui. Io serro le labbra e annuisco, mascherando forzatamente un filo di compassione, che nel giro di pochi istanti carbura in cieco orgoglio.
Ci scambiamo i numeri di telefono, lo saluto e torno a casa, appagato della chiacchiera ma sicuro che non l'avrei più visto.

I giorni successivi scorrono via intensi e veloci tanto da ridimensionare la fissa Camp Nou alla modesta aspettativa del classico bar e della birra, più amara che mai. In fin dei conti, Barcellona ha molto altro da offrire a settembre, con un clima mite e la temporanea migrazione dei turisti. Fino a quando un pomeriggio, ricevo un messaggio di Alessandra, una ragazza conosciuta la sera precedente, che mi comunica di aver trovato un modo per entrare allo stadio. La sera stessa ci vediamo sulla collina di Montjuïc e mi spiega da vicino. Il nucleo del piano è sempre il famoso carné. Per i soci over 70, mi spiega, sono previste forti riduzioni per l'acquisto di un ulteriore abbonamento per un altro membro della famiglia. Spesso capita che figli e nipoti non possono e prima della partita, fuori lo stadio trovi manipoli di nonnetti pronti ad adottare presunti congiunti, liberamente o per una cifra simbolica. Nell’arco della passata stagione, aggiunge Alessandra, due colleghi di lavoro con questo sistema sono riusciti a seguire quasi l'intero campionato. Queste ultime parole riaccendono quel sentimento di ansia ed emozione legato all’evento che la vita barcellonese assieme al sano buonsenso avevano assopito. Realizzo che l'elevato numero di abbonamenti, principale fattore che si frapponeva tra me e il Camp Nou potrebbe rivelarsi la sola condizione che mi consentirebbe di entrare allo stadio. Nella peggiore dell'ipotesi ripiegherò in un bar di Les Cortes, per soffrire come si deve, fino in fondo.
Il fatidico giorno, sabato tredici settembre arriva, portando con sè un caldo asfissiante e un sole intermittente.
Un'ora e mezza prima del fischio d'inizio, decido di incamminarmi verso la fermata della Metro. L'impeccabile puntualità del treno non mi consente di scambiare due parole con qualche tifoso, posticipando l'occasione durante le otto fermate che separano Paral-lel da Palau Reial. Avvicino un signore di mezza età chiedendo conferme e eventuali dritte sul mio piano. Ben presto capisco che non sarà facile colloquiare per via del suo forte dialetto catalano. Riesco a malapena a intendere il suo nome e la sua disponibilità, mi fa cenno di seguirlo.
Sarà per il complesso universitario ubicato nei dintorni, sarà per il clima pre-partita ma Avda Joan XXIII, lungo discesone asfaltato che conduce allo stadio ricorda in maniera imbarazzante via Cinthia. Sincronizzo il mio passo a quello spedito del mio provvisorio compagno di ventura, Josep, cercando di estrapolare il senso dei lunghi periodi in catalano. Da una serie di informazioni logistiche forse utilissime per le mie sorti ma il cui senso mi sarà sempre ignoto, Il discorso fortunatamente vira sull'universo culè. Josep esordisce connotandomi politicamente l'atavica inimicizia col Real Madrid. Noi storicamente compagni, loro ex-franchisti. Io obietto che non è del tutto vero, in origine la squadra franchista era l'Atlètico Aviación (oggi Atletico Madrid) e che il caudillo, come spesso accade ai dittatori, sposò le merengues demagogicamente, essendo il Real già all'epoca uno dei club più titolati al mondo. Lui rimane un po' spiazzato, annuendo timidamente. Arrivati all'esterno dello stadio ci separiamo, mi augura buona fortuna, mettendomi in guardia da bagarini camuffati da nonni soci. Lo ringrazio, rassicurandolo che per determinate cose la mia città allena a un occhio clinico formidabile.
Detto fatto, intravedo tra la folla un signore anziano dall'aria un po' spaesata. Bassino, occhiali, camicia a quadri e cappellino blu del Barça. Mi avvicino. Capisce le mie intenzioni e lancia subito l'offerta: cinquanta euro, di nuovo. Reagisco con un espressione indignata, e borbotto un "trenta", mimando però con le dita venticinque. Aquilino, questo il suo nome, tentenna, ma alla fine cede. Lo abbraccio. Mi passa il carné del figlio. Sarò per un pomeriggio Aquilino jr. Una volta arrivati all'ingresso, passo la tessera sulla fotocellula. Spingo in avanti il tornello, che non oppone resistenza, sono dentro.


Siempre agradecido de ti, Aquilino  

Il settore dei nostri carné è Lateral, BOCA 36, ed equivale ai distinti inferiore del San Paolo, con la differenza che l'assenza del fossato e della pista d'atletica non sacrifica la profondità, consentendo una visuale ottima. Fino a venti minuti prima del fischio d'inizio lo stadio è semideserto, per via dei posti numerati. Attorno a me gli spettatori si caratterizzano per tre quarti da aficionados e un quarto da turisti, la metà di quali possiede almeno una busta dello store del Barcellona. 
Entrambe le squadre scendono in campo non con le prime divise, bensì con quelle dei colori sociali delle rispettive comunità autonome, Catalogna e Paesi Baschi. Specie di questi tempi, le istanze autonomiste vanno portate avanti a ogni costo, anche a colpi di marketing.           
                                                          

Pronti via e l'occhio cade e resta ipnotizzato per una manciata di minuti sul numero dieci blaugrana, distante da me una quindicina di metri. Gli occhi del mondo sono sempre su di lui, ma per una volta sono i miei ad essere su di lui, senza alcun filtro. E' come osservare un'icona lontana, eterna, perfetta, denudata di ogni pixel e piombata nel mondo sensibile, su un prato verde, che prende corpo in una persona e nient'altro. Una persona vera, che respira, suda e corre, corre tanto.
Dagli spalti le uniche emozioni arrivano allo scoccare del 17'14" di entrambi i tempi, quando per celebrare il tricentenario della Diada, giorno in cui la Catalogna perse l’indipendenza, il coro "i-inde-indepèndienca!" anima un Camp Nou impietosamente addomesticato.


Nel primo tempo il Barça spreca tutto ciò che c'è da sprecare. Hombre del partido manco a dirlo è Messi, che nella seconda frazione di gioco apparecchia sia il primo che il secondo gol al subentrato Neymar. Uscendo dallo stadio penso a Victor, avrà fatto giusto in tempo ad assistere alla vittoria della sua squadra del cuore.