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giovedì 9 maggio 2013

Il Monolite Scozzese (ovvero i 26 anni che sconvolsero il mondo)


Manchester è il posto più ripugnante (…) Masse di immondizie, rifiuti e melma nauseabonda sono sparse dappertutto, in mezzo a pozzanghere permanenti; l'atmosfera è ammorbata dalle loro esalazioni e oscurata e appesantita da una dozzina di ciminiere; orde di donne e di bambini laceri si aggirano nei pressi, sudici come maiali sguazzanti tra mucchi di immondizia e nelle pozzanghere.

Friedrich Engels, La Situazione della Classe Operaia In Inghilterra, 1845





I PIANI QUINQUENNALI: MANCHESTER E’ ROSSA


In settembre il generale Kornilov marciava su Pietrogrado con l'intenzione di proclamarsi dittatore militare della Russia. Si riconobbe presto dietro di lui il pugno ferrato della borghesia, pronto ad abbattersi sulla rivoluzione”. A novembre, due mesi dopo, la storia si ribalta però clamorosamente. Arrivato in treno da Glasgow attraverso la Finlandia, appare a Manchester un immenso monolite - che gli indigeni giurano oggi ci fosse sempre stato - dalle sembianze di un tornitore e sindacalista scozzese. A questa pietra grezza, è dato il nome socialista di Alex Ferguson. Nato durante la seconda grande guerra a Govan, sobborgo di Glasgow, come tutti i ragazzi cresciuti in quelle strade di pietra levigata dal mare, a nemmeno 16 anni Alex Ferguson comincia a lavorare come tornitore nei cantieri del porto. Qui, grazie ai racconti dei compagni più anziani, nelle fredde notti passate a ubriacarsi intorno a fuochi che ardono nei bidoni industriali, si avvicina al comunismo. Legge Marx e Kropotkin, apprende il pensiero rivoluzionario sui testi di Lenin e Gramsci. In breve diventa sindacalista, e il suo cuore oramai rosso come la bandiera che sventola, lo porta a esporsi a tutela dei giovani e di quei compagni più anziani che lo hanno educato. Il monolite è comunista. Dopo il lavoro nel porto, la sera Alex Ferguson gioca a calcio nel Queen’s Park. L’impatto con il campo è duro. E’ tra il tornio e il terzo libro del Capitale, tra le lotte sulle banchine e sui campi di calcio della periferia di Glasgow, che il monolite chiamato Alex Ferguson consolida la sua tempra d’acciaio. 

Da calciatore vince un titolo di capocannoniere nella Scottish Football League e gioca per due anni nei Rangers Glasgow, la squadra unionista della sua città. Quegli anni al servizio del capitale imperialista lo convincono ancora di più della necessità storica della presa del  potere come culmine della lotta di classe. E qualche anno dopo, la mette in pratica. L’esportazione della rivoluzione pallonara comincia nel 1978, quando diventa tecnico dell’Aberdeen, con cui riesce a rompere il duopolio scozzese di Rangers e Celtic e a vincere tre campionati. Qui realizza l’impresa più bella. Nel 1983 a Goteborg con un manipolo di diseredati scozzesi travolge l’esercito franchista del Real Madrid in un’indimenticabile finale di Coppa delle Coppe. E’ il momento di partire: direzione Manchester. Il primo piano quinquennale (1986-1991) mancuniano comincia il 7 novembre del 1986, il giorno dopo la presa del Palazzo d’Inverno, coincisa con l’arrivo in città del monolite scozzese chiamato dal popolo a risollevare le sorti della repubblica decadente e imborghesita dal governo menscevico. L’inizio non è facile, mai. Dopo cinque anni l’eroe della battaglia di Goteborg è sull’orlo del licenziamento. Solo una fortunosa vittoria sul Crystal Palace nel replay della finale di FA Cup lo salva dal processo popolare e dall’allontanamento a fini rieducativi in un campo di lavoro in Siberia. Il secondo piano quinquennale (1991-95) coincide con l’arrivo del bandolero marsigliese Eric Cantona: rivoluzionario spontaneista di chiara matrice anarco-insurrezionalista. 

Nella pietra sono ancora scolpiti i nomi di quegli eroi. Roy Keane: mastino irlandese cresciuto nella rivolta repubblicana. Andrei Kanchelskis: immenso talento perso nell’alcol e nel gioco a furia di leggere romanzi di Dostoevskij. Lee Sharpe, sfortunato fuoriclasse cui lo stesso Fyodor dedica le sue pagine più toccanti ne L’Idiota. Saldata nella potenza dell’acciaio di Govan, temprata dal ritmo ossessivo delle catene di montaggio del Lancashire e foraggiata dagli stati satellite allineati e alienati del north-by-northest inglese, a Manchester si forma una res publica sovietica a immagine e somiglianza del monolite rivoluzionario che l’ha forgiata. Il terzo piano quinquennale (1995-98) è quello della crescita e dell’affermazione della generazione nata ai tempi della rivoluzione: i vari Giggs, Scholes, Beckham e Butt. I frutti più preziosi dei kolchoz, allevati dal monolite scozzese e iniziati ai segreti di Eisenstein e Majakovskij. Si vince ancora, anche grazie all’arrivo di Teddy Sheringham, vizioso dandy occidentale che abiura l’occidente capitalista e cerca la perfezione dell’essere, e quindi il suo oblio, al di là della cortina di ferro. Il quarto piano quinquennale (1998-99) è quello del trionfo, in cui i carri armati dell’Armata Rossa riescono a liberare il proletariato oppresso spingendosi fino a Barcellona: città socialdemocratica, le mani ancora sporche del sangue dei comunisti rivoluzionari e degli anarchici massacrati anni prima su ordine di Mosca. La vittoria in Coppa Campioni della brigata combattente del Lancashire contro le sturmtruppen naziste del Bayern Monaco - dopo aver rischiato il tracollo fino all’ultimo minuto - rimpiazza nella mitologia sovietica di Manchester e degli stati satellite perfino la Battaglia di Stalingrado. 





LA NEP (NUOVA POLITICA ECONOMICA): LA FINE DI UN SOGNO

Il quinto piano quinquennale (1999-2005) è dove appaiono le prime crepe sulle pareti del Cremlino di Manchester. Nonostante l’arrivo dello scrittore argentino surrealista e sovversivo Juan Sebastian Borges Veron, e dell’imnplacabile macchina da guerra olandese sottratta ai nazisti Ruud Van Nistelrooy, si contano i primi voti sfavorevoli e passano le prime mozioni contrarie. Nel 2001, al termine dell’odissea spaziale che certifica la supremazia comunista sull’occidente capitalista, tramite la certificazione dell’eternità spaziortemporale del monolite rivoluzionario scozzese, Alex Ferguson annuncia la sua decisione di ritirarsi a fine anno. E’ il primo segnale. Un nuovo occidente, basato sul neoliberismo finanziario e postindustriale, decreta la vittoria delle squadre della capitale come Arsenal e Chelsea: tigri di carta al servizio dell’impero. E’ l’inizio della fine. Terminato lo slancio rivoluzionario, messe da parte le speranze sulle magnifiche sorti e progressive dell’umanità nuova, il monolite scozzese comincia un lungo esilio che lo porta a intraprendere una lunga marcia dallo Jiangxi allo Shaanxi. Attraverso monti e pianure, boschi e altipiani, fiumi e foreste, cambi di clima e di stagione, conosce se stesso e l’antica sapienza cinese rivisitata nel conflitto di classe da Mao Zedong. Qui il monolite scozzese comporende l’importanza di una rivoluzione culturale che porti l’araba fenice della res pubblica mancuniana a risorgere nel nome splendente del comunismo e della libertà.

Anche perché, nel frattempo, nella oramai gloriosa res pubblica sovietica mancuniana, come dopo ogni rivoluzione è cominciato il periodo della restaurazione termidoriana. Nel maggio del 2005 una quinta colonnna menscevica approfitta dell’assenza del monolite dalle sembianze di tornitore e sindacalista scozzese, e del fatto che la società, benché sin dagli albori (1902) fosse costituita secondo la formula dell’azionariato popolare, per partecipare alle competizioni internazionali nel 1991 era stata costretta a quotarsi sul mercato azionario. Aggirando la vigile presenza di una brigata di Guardie della Rivoluzione, che sotto il nome di Manchester United Supporters' Trust vigila contro takeover ostili, la res pubblica mancuniana è scalata sul mercato da un manipolo ex cortigiani zaristi rimasti nell’ombra. E riapparsi quell’anno con l’appoggio della Cia. E’ il fantomatico miliardario americano Malcom Glazer - nom de plume di Henry Kissinger già usato in alcune delle più cruente Operazioni Condor - ad accaparrarsi il 97% della società e a decretare la fine dell’utopia egalitarista dell’Assemblea del popolo. La Nep (nuova politica economica) sovietica di Mr. Glazer prevede che per l’acquisto del club si chieda in prestito alle banche l’intero ammontare (circa 800 milioni di sterline) del valore d’acquisto. Il Lancashire entra definitivamente nel vortice critico dell’economia del credito: non più omnia communia sunt.

Eppure il monolite scozzese, grazie ai servigi dei fedeli luogotenenti Giggs e Scholes e delle nuove leve Rooney e Ronaldo, ritrova la tempra dell’acciaio in cui fu forgiato nel porto di Govan. Grazie ai preziosi insegnamenti maoisti, capisce che è ora di fare pulizia all’interno della res pubblica. La vittima sacrificale della rivoluzione culturale che sublima il nuovo corso, è il traditore Beckham. Il dissidente, discepolo di Solzenicyn, attratto dai jeans e dalla cocacola, è prontamente spedito nei campi di rieducazione siberiana, dove a lungo si convince di giocare a calcio per i monarchici imperialisti del Real Madrid, il nemico più acerrimo della rivoluzione mancuniana. Solo che lui a calcio non giocherà mai più, crederà solamente di farlo a furia di ripetersi che quell’immesa distesa di ghiaccio sia in realtà un rettangolo verde. Sono quindi il sottoproletario scouse, educato alle scuole del popolo del minatore Alexey Stakhanov, da cui ha appreso che la libertà è una forma di disciplina, e l’artista del popolo lusitano, figlio dell’incesto meccanico tra il vecchio centrocampista argentino Borges e il figlio Saramago, a rinvigorire l’ideale rivoluzionario del monilte scozzese. Oramai vecchio e stanco, non più in controllo della politica economica della res pubblica mancuniana, in mano alle multinazionali dell’imperialimo, Alex Ferguson deve concentrarsi sulla politica interna, riuscendo a ricacciare indietro i vanagloriosi tentativi del fronte italiano della triplice intesa e a suggellare un trionfo dietro l’altro.





FUORI DA MANCHESTER

Sul fronte esterno invece, il destino vuole che a fermarlo due volte (2009 e 2011) sia proprio quella Barcellona socialdemocratica in cui in altre epoche storiche la sua armata rossa aveva sconfitto l’avanzata delle truppe tedesche. Il mondo è cambiato.  Non solo la res publica sovietica del Manchester United, ma il globo intero è oramai preda dell’ultima fase dell’economia capitalista: l’età dell’immagine, intesa come capitale che si accumula fino a diventare spettacolo. Un’epoca in cui sulle barricate gli slogan cercano l’inclusione piuttosto che il conflitto, in cui il timore è di precipitare al di fuori dello spettacolo, dove c’è la vita ma dove si teme ci sia il vuoto. Un’epoca in cui regna sovrana l’immagine del falso, ben rappresentata da quel Barcellona che sconfigge due volte il monolite scozzese sussumendo tutte le istanze sovversive e rivoluzionarie e tramutandole nello spettacolo supremo del capitale. E nell’anno di grazia 2013 la narrazione tossica dell’immagine balugrana corrode definitivamente l’acciaio millenario del monolite, che accetta di sgretolarsi nella res pubblica sovietica mancuniana, solo perché consapevole che la sua materia si è già trasferita fuori da Manchester. Ovvero nella stessa Manchester dove nel frattempo un manipolo di valorosi eroi, fedeli alla linea dell’idea originaria che portò alla rivoluzione, si sono riorganizzati nell’opposizione totale e hanno officiato la nascita del sovversivo Fcum: il Football Club United of Manchester. 

E’ qui che una brigata di allegri combattenti, internazionalista, sognatrice e utopica, aperta al dialogo con i non-allineati e promotrice della rivoluzione permanente, ha deciso di vestire nuovamente i colori gialloverdi del Newton Heath. Luogo dall’alto valore simbolico, fu qui che nel 1878 un gruppo di giovani proletari e sindacalisti rivoluzionari delle ferrovie del Lancashire, fondò il Newton Heath LYR Football Club, la squadra da cui nel 1902 nacque il Manchester United. Questi valorosi rivoluzionari permanenti, contrari però ai calciatori che giocano con la permanente, allo stadio di Gigg Lane di Bury, periferia industriale di Manchester, hanno decretato la morte del calcio moderno e la rinascita della res pubblica socialista mancuniana. E’ qui che il proletariato unito ha dato scacco matto al capitalismo, e allo spettacolo che ne certifica il suo tardo impero. E sul luminoso sentiero che li condurrà a vedere sorgere il sol dell’avvenire, da pochi giorni è appraso un immesno monolite scozzese - che gli indigeni giurano oggi ci fosse sempre stato - dalle sembianze di un tornitore e sindacalista scozzese. E grazie a quel monolite, l'8 maggio 2013, il giorno in cui Alex Ferguson annuncia il suo ritiro dal Manchester United, finalmente: “II comitato centrale esecutivo panrusso dei Soviet degli operai e dei soldati, il Soviet di Pietrogrado ed il Congresso straordinario panrusso dei contadini, ratificano i Decreti sulla terra e sulla pace, (…) e così pure il Decreto sul controllo operaio (…) Le assemblee riunite dello Zik e del Congresso contadino panrusso esprimono la loro ferma convinzione che l'unione degli operai, dei soldati e dei contadini, questa unione fraterna di tutti i lavoratori e di tutti gli sfruttati, consoliderà il potere che essa ha conquistato e prenderà tutti i provvedimenti rivoluzionari necessari per affrettare il passaggio del potere nelle mani dei lavoratori negli altri paesi, assicurando così una vittoria duratura alla causa della pace giusta e del socialismo”.



Nota a margine. Questo post è stato pubblicato originariamente in due parti sul blog lo zio di holloway nell’ottobre 2010 (qui e qui) Essendo nel frattempo il suo autore passato a miglior vita, impegnato tutt'ora a fare la comparsa in un film di Ciprì e Maresco già uscito nelle sale più di sei anni orsono senza che lui se ne accorgesse e nessuno lo avvisasse, abbiamo pensato che editarlo e ripubblicarlo qui fosse cosa a lui gradita... 

lunedì 27 giugno 2011

Ma quand'è che un terzino gioca bene?

domande che mi vengono il lunedì mattina mentre faccio colazione
Pur considerarmi un attento e curioso osservatore della realtà, nella vita faccio spesso fatica a cogliere il senso delle cose che mi sono intorno, in particolare i messaggi delle cose che vedo. Quando esco da un cinema, ad esempio, sono il primo a rompere il silenzio rumoroso dei "ti è piaciuto?" "sì, e a te?" "l'ho trovato un po' strano" per chiedere che cose volesse dire il regista con quell'ermetico finale; quando finisco un libro, e corro a leggere le recensioni, mi viene sempre il dubbio che qualcuno ha scambiato la mia copertina con un altro testo, e comunque il "messaggio" lo perdo sempre. Una cosa simile mi succede quando guardo le partite: se mi chiedono "è stata una bella partita?" oppure "come ha giocato X?", pur avendo visto la partita e pur avendo in mente le giocate di X, mi mancano i criteri per dare una risposta che non sia prettamente umorale (se abbiamo vinto, è stata una bellissima partita; se X ha segnato, ha giocato benissimo; e viceversa). Perchè, e questo è il punto, trovo che sia difficilissimo, più di quanto uno si immagini, dire e capire se è stata una bella partita e se un calciatore ha giocato bene.

Mi ha quindi sorpreso leggere un lungo articolo di Simon Kuper sul Financial Times dedicato all'esplosione della statistica nel calcio. Vi consiglio di leggerlo tutto perchè è interessantissimo ma comunque ne riassumerò i punti essenziali (tanto il messaggio non l'avrò comunque colto). Praticamente da qualche tempo le grandi squadre, e non solo le grandi, hanno iniziato a fare le scelte sui giocatori - in sede di mercato, ma anche in campo - in base alle loro statistiche. All'interno le società hanno arruolato degli statistici che si occupano solo di quello, di raccogliere e organizzare ogni tipo di dati e informazioni, su cui poi i manager e gli allenatori prendono le loro decisioni. Mi sono ricordato degli anni di Scudetto 2 in cui, per fare il mercato, si potevano mettere dei requisiti nella ricerca. Ad esempio, mi serviva un centrocampista centrale: ne volevo uno che avesse almeno 18 in passaggi, creatività e gioco di squadra. Ne uscivano quattro o cinque, di cui uno era sempre Kinkladze. Se invece cercavo un attaccante, e gli chiedevo un 20 in finalizzazione, tecnica e accelerazione il prescelto era sempre Victor Leonenko della Dinamo Kiev (Michael Owen, tendenzialmente, non aveva mai voglia di venire al Castel di Sangro). Il Bolton ha comprato nello stesso modo Gary Speed:
"Take Bolton’s purchase of the 34-year-old central midfielder Gary Speed in 2004. On paper, Speed looked too old. But Bolton was able to look at his physical data, to compare it against young players in his position at the time who were at the top of the game, the Steven Gerrards, the Frank Lampards. For a 34-year-old to be consistently having the same levels of physical output as those players, and showing no decline over the previous two seasons, was a contributing factor to say: ‘You know what, this isn’t going to be a huge concern.’ Speed played for Bolton until he was 38."
Oppure la storia di Mathieu Flamini. Ecco, Wenger è uno smanettone delle statistiche. Bergkamp iniziò a farlo uscire sempre al 70° minuto perchè secondo i dati correva di meno e non scattava più (peraltro mi domando se ci sia bisogno delle statistiche non per comprovare un dato del genere, ma anche solo per prevederlo). Quando se ne andò Vieira,

Wenger wanted a player who could cover lots of ground. He scanned the data from different European leagues and spotted an unknown teenager at Olympique Marseille named Mathieu Flamini, who was running 14km a game. Alone, that stat wasn’t enough. Did Flamini run in the right direction? Could he play football? Wenger went to look, established that he could, and signed him for peanuts. Flamini prospered at Arsenal before joining Milan to earn even more.
Alle volte si fanno anche delle gran cazzate. Ad esempio Ferguson ha venduto Jaap Stam alla Lazio solo per il fatto che, sulla base dei dati, a 29 anni risultava fare meno tackle che in passato. Ferguson si era immaginato un declino che in realtà, i tifosi biancocelesti sanno bene, non c'è mai stato. L'esempio in questo senso è Paolo Maldini, che a giudicare dai criteri utilizzati dagli statistici doveva essere un gran pippone, poichè faceva in media un solo tackle ogni due partite. Il fatto è che lui non aveva bisogno di entrare in tackle, perchè era sempre posizionato alla perfezione. Ma anche dare una letta ai numeri - o semplicemente al buon senso - può aiutare. Può aiutare ad esempio, se sei Florentino Perez, a non regalare Makelele al Chelsea o Cambiasso all'Inter, perchè non sono capaci di fare il sombrero o la rabona o perchè la passano sempre indietro, quando da soli corrono più di tutti i galacticos messi insieme. 

Più che dirti chi comprare, i dati possono dirti se fai bene a fidarti del tuo istinto. Resto infatti convinto che un gran direttore sportivo, un gran osservatore, un gran talent scout, non ha bisogno dei numeri, ma gli bastano cinque minuti di una partita su un campetto di periferia, per capire chi può fare strada e chi no. Alla fine il calcio è questione di istinto, in campo e fuori. Torno quindi a una delle mie metafisiche domande: chi ha giocato bene? Chi ha giocato male? Premesso che tutto cambia se vedi la partita a casa o allo stadio (in televisione ti accorgi di maggiori sfumature, ma perdi la visione di insieme, il ritmo della partita, il suo respiro, i movimenti a vuoto), è troppo facile lasciarsi condizionare dalla giocata, dal gran gol, dal salvataggio sulla linea, dalla parata. Lo rendo ancora più difficile: come si fa a dire se il terzino destro - uno che non fa giocate, non fa gol, non salva sulla linea e presumibilmente neanche para - ha giocato bene?

Ho fatto ieri un sondaggio a bordo piscina e Andrea diceva una cosa ragionevole: un calciatore ha giocato bene se ha fatto quello che il suo ruolo gli imponeva. Non c'è deficit cognitivo che i dati debbono colmare: si tratta solo di pensare al modello del suo ruolo (l'Interdittore, l'Ala, lo Stopper), ai compiti che gli sono richiesti, e verificare se si è comportato in maniera conforme. Eppure ci facciamo soggezionare da un sacco di stupidaggini: Gattuso, nelle pagelle e nelle menti dei tifosi che sciamano verso casa, ha sicuramente giocato meglio del solito nella partita in cui ha fatto una di quelle sue insopportabili e plateali corse propagandistiche cercando di non far uscire un pallone dalla linea laterale, quando era ovvio che sarebbe uscito.
Di Alberto Aquilani ci si ricorda una partita meravigliosa a San Siro contro il Milan perchè ha inventato quell'assist di rabona su cui poi è nato il gol di Totti, ma magari i dati potrebbero dirci che ha corso di più e passato meglio in uno squallido Roma-Chievo 0-0 di un mese prima. E poi: se del terzino destro si può dire che ha giocato bene se - fondamentalmente - non ha fatto grosse cazzate, si può usare lo stesso metro di giudizio difensivo per un Vucinic o uno Zarate? Bastano tre lampi sparsi nella partita (uno al settimo, uno al dodicesimo e uno al sessantaquattresimo minuto) per essere soddisfatti? E se magari, nell'intervallo tra quelle giocate, non hanno mai raddoppiato sul terzino avversario che spingeva, non hanno mai fatto il movimento giusto senza palla per portare via l'uomo alla mezza punta che si inserisce, non hanno mai tenuto il pallone per far risalire la squadra in difficoltà? Bastano ancora "il coraggio, l'altruismo e la fantasia", o c'è bisogno di qualcosa meno poetico? E il dogma della maglietta bagnata di sudore che tutti i tifosi vogliono strizzare all'uscita?

Non so voi come la pensate, ma io se un calciatore ha giocato bene lo capisco solo il giorno dopo, quando leggo le pagelle sui giornali...

venerdì 29 aprile 2011

Inglourious Glories, Ch. VI, Aberdeen Football Club

Aberdeen. Costa est scozzese. Duecentomila anime. Granito e petrolio a far da contorno. Quell’estate del ’78, quando lui arrivò, il vento soffiava forte e vago sul bagnasciuga e i televisori nei pub del centro raccontavano le avventure di Mario Kempes. Alexander Chapman Ferguson veniva da una breve esperienza nella Scottish Premier League, al St. Mirren di Paisley, una piccola città del Renfrewshire. Con i Saints aveva ottenuto due anni prima la promozione ed evitato una temuta retrocessione la stagione successiva. Nonostante il buon risultato, però, la dirigenza aveva deciso di esonerarlo. Arrivava sulla costa con mille pensieri in testa. Pochi soldi in tasca, la malattia del padre e una carriera che seppur agli inizi aveva già subito un brutto colpo. L’esonero di qualche tempo prima, poi, non era stato digerito. Aveva, infatti, fatto ricorso alle competenti autorità (gli Industrial Tribunal) reputandolo del tutto ingiustificato. Qualche tempo dopo avrebbe però perso la causa. Un articolo pubblicato sul Sunday Herald nel 1999 a firma Billy Adams - “Saints still wear their shame over one of football's greatest” - proverà a fare un poco luce sulla vicenda, offuscata nelle carte processuali da accuse di scarsa diligenza e correttezza, vociferando incompatibilità e dissapori sulla gestione con la dirigenza di Love Street. Timido tentativo di portare chiarezza, nulla più. Ciò che rimane altro non è che l’incipit dell’articolo dedicato alla tifoseria della squadra scozzese: “Paisley that day came to a standstill, unable to take in the absurdity and cruelty of what had been done”. Quell’estate l’umore dei tifosi dell’Aberdeen era dunque torvo e disilluso. L’Aberdeen era tra i principali club della Lega scozzese ma non portava a casa il campionato dal 1955. Mentre Passarella alzava la Coppa più prestigiosa, si chiedevano come accogliere il nuovo manager. Se mai sperare di frapporsi tra Celtic e Rangers.
* * *
L’Aberdeen F.C. nasce nel 1903 dalla fusione di tre club locali: Aberdeen, Victoria United ed Orion F.C.. Poca storia, nessun successo. Solo l’Orion F.C. regala un momento interessante. Il club ha infatti subito una delle peggiori sconfitte della storia della Scottish Cup, contro l’Arbroath, il 12 settembre del 1885. In verità, si tratta di uno spiacevole equivoco. Viene invitato a partecipare alla Coppa l’Orion Cricket Club, la sezione della società dedicata al cricket e anche conosciuta come “Bon Accord”, in onore della parola d’ordine utilizzata da Robert The Bruce per violare il Castello di Aberdeen - in mano inglese - durante le Guerre di Indipendenza Scozzesi. L’Orion Cricket Club fa il possibile, ma la sconfitta è rovinosa: 36 a 0. Si narra che il portiere dell’Arbroath non abbia mai toccato il pallone e abbia, invece, rubato un ombrello ad uno spettatore per trovare riparo dall’incessante pioggia. Lo stesso giorno, qualche chilometro più a sud, a Dundee, l’Aberdeen Rovers perde a sua volta 35 a 0.
Dopo la fusione, moltissimi anni segnati dalla mancanza di vittorie e dalle crisi finanziarie dovute agli eventi bellici. Poi un lampo. Nel 1939, Dave Halliday viene nominato manager dei Dandies e subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, guida la squadra ad una serie di successi in ambito nazionale. Prima la Southern League Cup nel ‘45/’46, poi due finali consecutive di Scottish Cup nel 1953 e nel 1954, entrambe perse. Infine, nel 1955, la prima Scottish League, vinta in volata sulle due squadre di Glasgow. Halliday lascia il club l’anno successivo, che vede i Rangers di nuovo campioni davanti ad Aberdeen ed Hearts. Per ripetere i trionfi degli anni precedenti i Dons cambiano vari allenatori (tra gli altri, Davie Shaw, Tommy Pearson e Eddie Turnbull). Ma i risultati sperati non arrivano. L’Aberdeen assapora pessime e confuse stagioni e solamente alla fine del valzer, con Turnbull alla guida, riesce a raggiungere due finali di Scottish Cup, entrambe contro gli Hoops di Glasgow. Turnbull perde la prima, nel 1967 (doppietta della punta del Celtic William Wallace), ma si rifà tre anni dopo grazie a due gol di Derek McKay e ad un penalty realizzato da Harper in un Hampden Park con 108.000 spettatori.
* * *

La prima stagione di Alex Ferguson alla guida dell’Aberdeen non fu proprio un trionfo. Quarto posto e solamente 13 vittorie a fronte di 14 pareggi e 9 sconfitte. Cui si aggiunse una finale di League Cup malamente persa contro il Dundee United. Il gruppo però c’era. Alex poteva contare sui migliori giovani di Scozia. Occorreva solo ottenere la loro fiducia, portarli alla disciplina e plasmarli alla difesa a quattro ed al gioco sulle fasce.
Lui lo fece. E i risultati arrivarono in un attimo. La stagione successiva fu fragore biancorosso. All’ultima giornata il Celtic era avanti di un punto e giocava in trasferta a St. Mirren. L’Aberdeen faceva visita agli Hibs in quel di Easter Road. Il Celtic steccò, bloccato sullo 0 a 0 a Love Street. I Dons, invece, sommersero di gol gli avversari. Alex Ferguson era per la prima volta campione di Scozia. Grazie ai 12 gol di Jarvie ed Archibald ed ai 10 di Gordon Strachan il Celtic di McCluskey era in ginocchio. E di fatto, con quel pareggio all’ultima giornata, il St Mirren si condannò alla derisione eterna.
Nella stagione ‘80/’81 l’Aberdeen partì con il favore del pronostico, ma le 19 vittorie a nulla servirono contro le 26 di un Celtic con il miglior giovane del campionato, Charlie Nicholas, che dopo il debutto con il Celtic - e i 50 gol nella stagione ‘82/’83 - divenne anche bandiera dell’Arsenal. Stesso piazzamento nella stagione ‘81/’82: seconda posizione alle spalle sempre del Celtic, ma con soli due punti in meno. Il campionato perso per un soffio pesò tuttavia relativamente poco grazie alla vittoria in Scottish Cup. 4 le reti incassate dai Rangers ad Hampden Park. L’Aberdeen alzò la Coppa di Scozia e si qualificò così per la successiva Coppa delle Coppe: era il tassello decisivo per il ciclo di Alex Ferguson nella città del granito e del petrolio.
* * *
L’avventura dei Dandies in Europa inizia con un preliminare contro il malcapitato Sion. Nel doppio scontro gli schemi di Ferguson mandano in gol ben 7 giocatori e gli svizzeri con 11 reti subite cedono il passo.
La griglia dei Sedicesimi è terrificante: oltre al Barcellona campione in carica anche, tra le altre, Tottenham, Bayern Monaco, Real Madrid, Internazionale, Stella Rossa e Paris Saint Germain. L’Aberdeen, però, pesca bene e affronta gli albanesi della Dinamo Tirana. La vittoria di misura al Pittodrie (rete di Hewitt) viene difesa dai biancorossi in Albania e l’Aberdeen accede agli Ottavi. Anche le grandi della competizione passano il turno, ma la fortuna strizza di nuovo l’occhio agli scozzesi: di fronte c’è il Lech Poznan. Non c’è gara. i polacchi vengono presi a pallonate. A testa alta i Dandies si presentano ai Quarti contro i tedeschi del Bayern Monaco. Un pessimo cliente.
L’andata si gioca in Baviera e gli uomini di Ferguson azzeccano la partita attenta, bloccando il risultato sullo 0 a 0. Nel finale McGhee si trova addirittura sui piedi l’occasione per ipotecare il doppio scontro, ma spreca malamente.

Al ritorno, Pittodrie è stracolmo, vestito a festa per quella che è la serata più importante nella storia dell’Aberdeen Football Club. Purtroppo per la curva scozzese, però, i bavaresi con a capo Breitner, in un elegantissimo completo bianco, non sono facilmente impressionabili e gelano subito gli animi: vantaggio firmato Augenthaler. Botta di destro dal limite dell’area, Leighton vola ma non può nulla.
L’Aberdeen accusa ma non si scompone e inizia a macinare gioco. Al 38’ gli scozzesi trovano il tocco giusto. Cross lungo dalla destra, Eric Black, un centravanti come non se ne vedono più, dalla linea di fondo rimette al centro di testa e Simpson pareggia in anticipo sull’uscita del portiere avversario. Ancora troppo poco, però. Perché il Bayern raddoppia - ancora una gran botta da fuori, questa volta di Pflugler - appena dopo l’inizio del primo tempo, deciso a spegnere la favola dei 24.000 cuori sugli spalti. Ai Dandies servono ora due reti e il cronometro scorre.
Quello che succede in seguito al Pittodrie Stadium tra il 76’ ed il 77’ non credo possa essere ridotto in parole. A noi interessa che in due minuti una banda di ragazzini piegò il Bayern di Hoeness e Rumenigge. Prima McLeish con un colpo di testa dal cielo pareggia i conti, poi un inverosimile tiro al volo di John Hewitt passa tra le gambe di Muller e gonfia la rete.
Sweet Dreams degli Eurythmics scala le classifiche di mezza Europa e l’Aberdeen vola in Semifinale.
Dove, tra l’altro, avrebbe incontrato una sorpresa: il Waterschei Thor di Genk, che nel 1988 sarebbe diventato il Koninklijke Racing Club Genk a seguito della fusione con l’altra squadra di Genk, il K.F.C. Winterslag. I belgi avevano prima ricoperto di reti i lussemburghesi del Red Boys Differdange, poi il B93 (Boldklubben af 1893) di Copenhagen e infine PSG di Mustapha Dahleb. Ad ogni modo, il doppio scontro si rivela affare da poco. I Dandies mettono in cassaforte il passaggio del turno già all’andata, grazie ad un sonoro 5 a 1: reti di McGhee, Blake, Simpson e Weir. Il ritorno diventa quindi un pretesto per visitare le miniere di Genk. Per la cronaca, vittoria del Waterschei per 1 a 0.
E’ Finale. Semplicemente, vertigini.
Le rive del Garda attendono la squadra con la maglia rossa a strisce bianche strette. Di fronte il club più forte di sempre, il club delle 5 Coppe dei Campioni consecutive. Per l’occasione, Alex Ferguson punta sullo stile. Completo ardesia e cravatta sociale blu con striscia sottile bianco-rossa. Bomber aderente Adidas a righe orizzontali rosse e blu. D’altronde, sulla panchina avversaria siede il più grande tra i grandi: “Don” Alfredo Di Stefano.
Il Real Madrid parte, ovviamente, favorito. Ai Quarti ha eliminato l’Internazionale e in Semifinale l’Austria Vienna, carnefice a sorpresa del Barcellona campione di Diego Armando Maradona (schierato, però, solamente al, ritorno essendosi appena ripreso dall’epatite). Una serie di fattori interviene, tuttavia, a Goteborg. In primo luogo, il pubblico. Solamente i tifosi scozzesi affrontano in massa la trasferta e ciò riempie lo stadio Nya Ullevi come fosse Pittodrie. Poi il clima. Tanta pioggia rende il campo quasi impraticabile, troppo pesante per i leggeri spagnoli.
L’Aberdeen ne approfitta subito. Al 7’ un colpo di testa sporco di McLeish viene intercettato da Black, che quasi per sbaglio batte Augustin. Come contro il Bayern, però, i Dandies vengono raggiunti in un batter d’occhio. Poca concentrazione, troppa confidenza, arriva il timido errore di McLeish, che spiana la porta a Capitan Santillana. Leighton taglia corto, commettendo fallo da rigore. Dal dischetto Juanito non perdona, come spesso quella stagione.
La partita si trascina stanca fino all’intervallo e per tutto il secondo tempo. Qualche occasione sprecata da Weir e McGhee consegna le squadre ai supplementari. L’Aberdeen d’un tratto ha fretta e timore dei rigoristi del Real Madrid. Ferguson in panchina si gioca l’ultima carta, l’uomo che uccise il Bayern.
E come se niente fosse, al minuto centoquattordici, una luce rischiara Goteborg.
Weir scarta un paio di giocatori sulla linea laterale e appoggia bene a McGhee, il cui cross inganna l’uscita di Augustin, che manca il pallone. John Hewitt, l’uomo dell’inverosimile gol al Bayern, è al posto giusto e insacca a porta sguarnita. Il bianco reale china il capo bagnato. Alex Ferguson si gode con viso da bambino il grido della curva rossa mentre Willie Miller alza la Coppa delle Coppe sotto gli occhi di Santillana.

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Le stagioni successive diedero ulteriore sfarzo al palmares dell’Aberdeen di Ferguson. Oltre alla Supercoppa Europea vinta contro l’Amburgo di Felix Magath, due campionati nazionali consecutivi (‘83/’84 ed ’84/’85) e due Coppe di Scozia (’83 e ‘84).
Fino al 1985, quando un malore colse John Stein, coach della Nazionale scozzese, e la Federazione compose il numero di telefono di Alex Ferguson. Lui accettò subito e ad Aberdeen si chiuse il ciclo più importante. Quello che spodestò le arroganti squadre di Glasgow e consacrò i biancorossi in Europa. Di quella banda di ragazzi scozzesi solo Willie Miller ed Alex McLeish rimasero a Pittodrie. Stracham firmò per il Manchester United, Black per il Metz e Rougvie per il Chelsea.
Ferguson allenerà la Nazionale per circa un anno. Rifiuterà Tottenham ed Arsenal prima di trasferirsi a Manchester, sponda United. Continuerà a vincere. Tantissimo. Continuerà ad allenare ragazzini terribili e a dominare in Europa.
Più a nord, tra granito e petrolio, il vento ha ripreso a soffiare e i televisori dei pub del centro sono ormai solo il rumore di sottofondo di dolci ricordi.