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martedì 29 marzo 2011
Giornalisti sportivi
giovedì 24 marzo 2011
Aspettando il gol di Ficini (Seconda Parte)
Che bello scorrere i risultati di quella stagione: “guarda, battemmo il Messina, poi vincemmo a Udine, e poi....” Si giunse all’inverosimile dopo quella vittoria con la Roma, mancavano due mesi alla fine del campionato e quello fu il punto più alto mai toccato dalla società in novanta anni di vita:
Inter p. 63 Roma 49 Palermo 43 Empoli 35
Meglio che un tiro di cocaina, eh? Champions League? O che gl’è sta roba? Niente male per una squadra assemblata con quattro soldi... che annata, tutte le volte che i nostri attaccanti tiravano in porta i palloni finivano in rete, uno spasso... Nella mia testa cominciai a pensare ai modi in cui la mia squadra avrebbe potuto rovinare tutto ciò che era riuscita ad ottenere fino ad allora, ma ne ricavai solo un gran mal di testa.
In verità avevo anche un altro piano da elaborare: come riuscire a superare l’anno scolastico arraffando la sufficienza in matematica. Anche in quel caso mancavano due mesi alla fine, e non ero proprio in una situazione comoda. Diciamo che galleggiavo di poco sopra la zona salvezza. Arrivò il fiorito Marzo, altro derby toscano in casa contro il Livorno. Un sole che spaccava le pietre. Una brutta interrogazione il giorno precedente mi aveva inguaiato. Andammo in vantaggio alla mezz’ora con goal di Pampa Pratali, che di li a pochi mesi ci avrebbe traditi per quattro soldi -con tanto di macchina fatta rimuovere dal Presidente per ripicca- dopo un liscio colossale delle difesa amaranto. Prima della fine del primo tempo, raddoppio di Almiron con una ginocchiata al volo (!) su punizione di Vannucchi. L’incredibile si materializzò però al 58esimo, quando una peregrina scarpata del pastore errante Rezaei entrò in rete. Il terrore calò, e Lucarelli, al novantatreesimo, mise la partita in parità: ho ancora un netto ricordo del capitano amaranto che si arrampica sui cartelloni pubblicitari verso la curva, a braccia alzate, e io che non so cosa fare, colto tra l’amarezza e l’ammirazione per il giocatore che l’aveva provocata. Per fortuna, alcune settimane dopo, arrivò una roboante vittoria contro il derelitto Ascoli, sotterrato per quattro a uno. Ricordo la sgarrupata difesa dei bianconeri: nell’azione del secondo goal di Saudati l’attaccante si liberò di due difensori semplicemente circumnavigandoli, di lì in poi si trovò davanti una Autobahn in discesa che lo portò a tu per tu con il portiere, prima di depositare in rete. Da lì in poi, tra fine aprile e inizio maggio, stentammo nettamente: i nostri avevano finito la benzina e spompati, caracollavano per il campo: nelle quattro partite successive segnammo solo due gol: due perse e due pareggi senza reti. 13 Maggio, quattro giornate alla fine: il mio diario di quell’anno recitava: “Empoli-Catania, studiare i radicali aritmetici, Es. 2-3-4-5 Pagina.56” Per mantenere un certo vantaggio sulla ottava - l’Udinese- dovevamo vincere a tutti i costi: la partita, piuttosto sonnacchiosa, si animò con una fulminea sparatoria in sette minuti: gol di Pozzi, raddoppio di Almiron tre minuti dopo, Spinesi che accorcia immediatamente, a mantenere fino alla fine il suspense di questo incontro, nel caldo stagnante della vallata d’argilla del Valdarno... Il goal di Almiron fu particolarmente bello e tipico del suo stile, una staffilata da lontano, mantenuta rasoterra, col pallone che gira e si insacca a fin di palo, beffando Pantanelli, con quel suo cappello e il broncio da clown di periferia. Tornato a casa, controllai il Televideo: ci sarebbe bastata una vittoria nella penultima partita, in casa con la Reggina, coinvolta nella lotta salvezza, per andare in Europa. Nel mio compito di matematica, l’altra faccia della mia bizzarra “sfida doppia” di quella primavera, strappai un sei e mezzo che mi teneva in gioco fino all’ultima giornata, anche in quel caso. La partita con la Reggina, come molte di quel campionato, si giocò ancora in un caldo torrido: entrammo nello stadio dalla nostra solita entrata, con i vecchini che ricordavano di avere visto giocare gli azzurri contro avversari come la Carbosarda, l’Astrea, le Signe, il Brescello; e non potevano credere ai loro occhi nel vederci in lotta per l’Uefa. Scherzai timidamente con mio “babbo” sull’eventualità, tutt’altro che remota, che la società potesse aver venduto la partita alla Reggina, per lucrare su questa storica occasione. L’incontro iniziò tra diffidenza e l’entusiasmo. I giocatori non proiettavano ombre sul prato che aveva assunto una colorazione giallo paglia, così come le guance di chi mi sedeva a fianco. Al nono minuto Vannucchi prese la palla a venticinque metri dalla porta, tutto spostato sulla sinistra, cioè sotto di noi: senza alzare la testa da terra tirò un gran sinistro a giro che colpì il palo opposto ed entrò in rete, tra il visibilio generale: certa gente urlava, i bambini tiravano patatine, altri palpeggiavano a caso, e tutti noi scattammo in piedi.
L’autore del gol venne sotto la Maratona ad esultare: proprio lui, che stava mimando con la bandierina una canna da pesca, alludendo alla sua occupazione preferita (il calcio è solo un hobby- dove lo trovate in Serie A un altro così?- ). Una decina di minuti dopo raddoppiammo con un gol dalla stessa posizione, un pallone calciato in porta da Moro, in uno scriteriato tentativo di sgrezzarsi tecnicamente, noncurante delle proprie limitatezze: primo gol stagionale per il falegname azzurro. Un minuto più tardi, il campo sembrava in discesa come un flipper, e la pallina metallica passò da un lato all’altro: Tosto, Moro...bang! contro il magnete! rimbalzo contro Vannucchi, sgroppata, in profondità per Buscè, la pallina scende... allora una sapiente mano diede la vibrazione giusta al tavolo, la pallina deviò, Saudati la mise dentro da pochi passi... Tre a zero, bonus! Insert coin Reggina. Si andò al riposo. E riposammo increduli. E riposammo ancora. Ed ancora. Ma quanto dura questo intervallo? Per più di venti minuti tra il primo e il secondo tempo, le squadre rimasero negli spogliatoi. Al momento di rientrare, i due allenatori, Cagni e Mazzarri, si mandarono ripetutamente a quel paese.
Nel secondo tempo la partita cambiò nettamente, con la Reggina che dopo sette minuti segnò il 3-1 con Vigiani... ah ah...beh, stiamo tranquilli, non facciamo scherzi ragazzi eh eh, non sul più bello! Dopo quattro minuti Amoruso, giocatore che fino a pochi secondi prima avevo stimato, ebbe la sfrontatezza di segnare il secondo gol. Scese su di noi la più cupa disperazione. Il nostro vicino di posto rimase con la cannuccia a penzoloni per mezz’ora, non accorgendosi nella tensione che la sua aranciata nella bottiglia aveva un livello così basso che il pescaggio non poteva avvenire. Mio babbo sudava producendo una sostanza rossa. L’anziano che ci passava sempre sui piedi per prendere posto vicino a noi aveva ripreso il suo solito tic alla mandibola. Il resto l’ho rimosso, ricordo solo che a dieci-dodici minuti dalla fine ci fu un rigore per gli avversari e il solito Amoruso la sbatté dentro. Cosa stava succedendo? Non passavamo più la metà campo. Saremo andati lo stesso in Uefa? Avremmo preso un altro gol? Avevamo venduto la partita? O ci era semplicemente sfuggita di mano? Cosa era successo negli spogliatoi? Gli ultimi dieci minuti passarono con un catenaccio da trincea carsica, tra il mutismo degli spettatori attoniti. Ad ogni sostituzione della Reggina, il nome del calciatore che entrava in campo aveva un suono aspro, pieno di consonanti forti, minaccioso. Come se proprio lui dovesse segnarci e uccidere il nostro sogno con una sacrilega scarpata. Vi è mai capitato di sentire la stessa cosa in certe occasioni? Saremmo stati molto più tranquilli se avessimo saputo che razza di bidone era Nardini, come avremmo scoperto alcuni anni più tardi, quando costui venne a giocare ad Empoli... Il quarto uomo mostrò il recupero, che passò senza molti sussulti... Buscè prese palla, la alzò, sparò un campanile in aria, e prima che la palla toccasse terra.... finita! Era finita! La luce si era accesa e i mostri se ne tornarono nell’armadio.
I giocatori, fino a pochi istanti prima serrati e chiusi in pochi metri, si aprirono formando un vuoto intorno al pallone, festeggiando, applaudendo e infine ingroppandosi gioiosamente a vicenda nel sollievo collettivo. Volavano borracce. Vennero sotto di noi, cantando ed esultando, comparve una bandiera europea... L’allenatore Cagni volava lanciato in aria dai propri giocatori, che ebbero anche il buon gusto di riprenderlo prima che si fracassasse a terra. Ad agitare la bandiera europea c’era anche un giocatore basso, coi capelli corti e castani, dall’aria trasognata: era entrato a venti minuti dalla fine e non si era notato molto... Io lo conoscevo, quello... era il calciatore che avevo incontrato il giorno prima al pianerottolo dopo la lezione di matematica. Dopo la mia ora di recupero a casa della professoressa avevo notato il cognome “Ficini” sul citofono al piano di sotto, ed uscendo me l’ero trovato davanti, scambiandoci una veloce battuta. Aveva terminato con quei venti minuti di gloria europea la sua picaresca carriera nell’Empoli, cominciata quando io dovevo ancora nascere. Il giorno dopo ci fu l’ultimo compito di matematica, strappai una sufficienza e venni promosso.
(fine)
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