

Il calcio era dissolvenza, racconto continuo e ciclico in
cui non c’era mai un prima e un dopo: l’eterno presente che esondava i confini
dello spazio. La partita infinita, cominciava all’alba, con il primo calcio tirato
a un pallone nei giardinetti vicino a casa, proseguiva nell’eterna adolescenza
delle partitelle con gli amici e non si fermava nemmeno nei ricordi della tarda
età. Poi, emancipato dal lavoro, l’uomo decide di comunicare; e smette di
narrare. Oggi il calcio segue il tempo pseudociclico, oltre la produzione e del
consumo; si gioca sempre e se ne è costretti a parlare anche di più. La
narrazione è costretta a farsi incessante e continua ma non per questo diviene
illimitata. Anzi, si fa effimera. Finita. Diviene cronaca (televisiva) che sostituisce
il racconto e si fa costante, ininterrotta, e perciò alza barriere e confini.
Il rettangolo verde non occupa più l’infinita distesa di generazioni che si
susseguono nei ricordi sovrapposti, ma si rinchiude in uno spazio e in un tempo
spettacolari, falsamente eterni e invece ben delimitabili. E quando un muro
delimita i confini del campo e impedisce al pallone di uscire privandolo della
libertà, il calcio muore soffocato.

Sbiadita la memoria abbiamo cominciato a dimenticarlo, lo
ricordiamo solamente le poche volte che, correndo dietro alla sfera magica,
esondiamo noi stessi e i confini che ci sono imposti. Lo ricordava benissimo Mahmoud Al Sarsak, un ragazzo palestinese che qualche anno fa, inseguendo un pallone che
s’ostinava a rotolare al di là del muro che la politica di conquista
occidentale gli aveva innalzato attorno, inavvertitamente superò la frontiera.
Le guardie armate del calcio moderno lo fermarono immediatamente. Il tempo
pseudociclico del calcio è costruito da muri e barriere invalicabili - gli
dissero -, il calcio oggi non è più libero, è confinato. Parole come dribbling
e finta sono sostituite da rigore e punizione. Il racconto della partita si fa
smisurato, eccedente: squadra e giocatore sono patria e popolo, nel nome di dio
e del potere, non più sinonimo di ricchezza e d’incontro ma di conflitto e di
prigione. Se hai dei confini essi non ti proteggono, ti limitano - continuarono
le guardie -, il tuo campo da calcio è una prigione. E, in base alle leggi dell’oppressore,
lo condussero in galera.
Solo, senza compagni di squadra né avversari con cui
giocare, senza fratelli cui raccontare l’eterna narrazione del calcio, Mahmoud piano
piano cominciò a spegnersi, decidendo di non mangiare più. E anche noi ci stiamo
spegnendo con lui. L’assordante silenzio della sua narrazione è coperto dalle
vacue parole della cronaca del calcio moderno: rigore e punizione, rigore e
punizione, rigore e punizione, rigore e punizione. Per Mahmoud e per tutti i
bambini palestinesi, e non, che nelle terre di mezzo del mondo sognano la finta
e il dribbling di un calcio che non conosce ostacoli, muri e confini. La
cronaca (televisiva) dello spettacolo impone all’altro da sé confini economici arbitrari,
e poi ne spiega il valore con termini che hanno perso di senso o che, come gli
dei, sono già morti. Anche Mahmoud sta morendo, come il calcio e il suo
infinito racconto. Alzare il volume del suo silenzio è l’unico modo per
riprenderci la narrazione del calcio e tornare a vivere. Altrimenti moriremo
tutti, rinchiusi nella galera del calcio moderno che, prigioniero di muri e confini
imposti, non è più capace di raccontare alcunché.