1)
Urbino, 1991-1995
Ai tempi dell’oratorio non
eravamo che il germe della ciurma di blasfemi e fumatori che avrebbero animato
nel giro di qualche anno i vicoli dell’Urbe. Coltivavamo con parsimonia il mito
di un tale Angelo, molto più grande di noi, che aveva giocato nel vivaio del
Parma e poi nelle serie minori. Sapevamo anche che se giocavi bene ti prendeva
il Cesena. Sapevamo che Andrea e Simone a 16 anni avevano fatto alcune presenze
nella Vis, che Danilo non aveva passato il secondo provino con il Toro per
colpa (versione mai confermata) di un piatto di tagliatelle ai funghi maldigerito
nell’incauto pranzo pre-partita, che altri (Mattia, in particolare) si erano
rotti il crociato alla vigilia del provino della vita. Quelli forti
arrivavano al massimo tra Pesaro e Fano; qualcuno, più di rado, finiva tra
Ancona e Ascoli. Sapevamo che l’Urbino negli anni Quaranta aveva militato in C e
che tale Gaudenzio Bernasconi, ex-Samp e Nazionale, aveva trascorso un periodo
a Urbino tra 1968 e 1970: allenatore-giocatore, che manco Vialli al Chelsea.
A parte che ero scarso
duro e stavo in panca anche ai tornei tra le varie sezioni delle scuole medie, avevo
capito con buon anticipo che nessuna società avrebbe posseduto il mio
cartellino. Non ho mai disputato una partita d’addio: dei miei scarpini appesi
al chiodo si sono accorti solo i più nostalgici del me grasso e novenne, che
aveva qualche chance come difensore centrale quando tutti erano alti uguale.
Scelta saggia, avrei pensato in seguito. Meglio il nozionismo di chi ne parla
senza giocarci. Ricordare a memoria Figurine; collezionare magliette-rarità:
l’armadio raccoglie, a tutt’oggi, quintali di polyestere declinati in Overmars
all’Arsenal, Gullit al Chelsea, Savicevic financo al Rapid Vienna, Butragueño
al Real.
Non l’ho mai troppo
capita, questa propensione dei miei (di miamadre, in particolare) a disprezzare
gli sport di squadra. A parte che ero scarso e non potevo certo imputarlo a
loro, non gradivano che mi sbucciassi le ginocchia e consumassi tute sempre
nuove e di marche importanti. Volevano che portassi la camicia e la riga da una
parte: benché atei e compagni di prim’ordine (la tecnica della persuasione
“porta a porta” era rievocata con grande pathos
ad ogni elezione comunale, prima che diventasse appannaggio nord-leghista)
temevano il mio contatto con la bestemmie e la suburra, con le botte in campo e
le goliardate in spogliatoio. Sottoproletariato culturale, they said.
Dunque tennis, nuoto,
bicicletta. Purché non ci fosse squadra. Purché si rimanesse ben distanti da
qualunque ambiente replicasse lontanamente quella specifica modalità di
aggregazione. Tennis, per non sbagliare, anche con un maestro privato. Centri
Federali Estivi; il C.O.N.I.; Serramazzoni.
Ormai ginnasiale, mi
restava solo la saltuaria soddisfazione di giocare - solo nei tornei scolastici
- nella squadra del Bomber: uno alto un metro e sessanta che in qualunque sport
dava la merda a tutti, con cento metri in undici secondi e 180 centimetri di
salto in alto. Mi è sinceramente dispiaciuto, quando anche il mio Bomber ci ha
rinunciato: ho appreso solo di recente che, passato al calcetto, il Bomber si è
trasformato in difensore e rompe i culi stricto
sensu. Tutti hanno avuto almeno un conoscente Bomber, una volta nella vita,
ma sono pronto a giurare che il mio meritasse la qualifica molto più di tutti
gli altri simil-bomber di cui i miei colleghi millantavano conoscenza diretta.
I miei amici, nel frattempo, qualche presenza l’avevano pure fatta: D,
Eccellenza, Promozione. Stavano iniziando piano piano, a dare la colpa alle
dirigenze, a procuratori che via via bruciavano i loro sogni trequartistici
obbligandoli a pensare all’Università, se non alla ricerca di un lavoro per
subito.
Comunque non mi è mai
andata giù, ‘sta roba del “sottoproletariato culturale”.
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Culla del Rinascimento, fine dei sogni calcistici. |
2)
Piobbico (PU); Parma (PR); Padova (PD), 1975-1995
Il Montefeltro è terra di fatiche, di abnegazione non
ripagata, di monti che cingono persone che guardano a quegli stessi monti come
a dolci catene cui imputare ogni insuccesso. È la prigionia della gente d’Appennino,
condannata a contemplare con amore folle una terra straordinaria e maledetta. Daniele non
fa eccezione: anche a lui quelle colline sembrano un giorno mostri e un giorno amici
del cuore. Anche senza la minima idea di chi sia Paolo Volponi, Daniele sa che il
cammino che potrà portarlo via da quella classe di geometri di Urbania, dove è
l'ultimo non solo per ordine alfabetico, è tortuoso almeno quanto i suoi monti.
Gli è successo, incidentalmente, di diventare un mediano polmonare, di
concentrarsi cioè ossessivamente sull'andare su e giù. Non è che non voglia fare il
geometra, Daniele: è solo che non vuole fare il geometra per forza.
In realtà Daniele non è un sentimentale.
è anzi un discreto stronzo e se
ne compiace. Se in campo non parla, in classe non è il ragazzino impacciato
davanti ai professori che lo correggono; risponde spesso di traverso e quando
può prende per il culo i più disadattati. A cosa si giochi, nelle ore di
ginnastica, è superfluo domandarselo: intanto perché al geometra sono tutti
maschi; in secondo luogo perché Daniele, democraticamente, impone a tutti la
sua politica. Certo non ama studiare: riversa tutto il suo odio su quella di
diritto, un'aristocratica venticinquenne che ha avuto una supplenza annuale nel
bunker urbaniese e che presto
diventerà avvocatessa. La odia, perché ha proposto di non fargli passare
l'anno. Daniele è venuto a saperlo dalla madre, dopo i colloqui di metà
quadrimestre. “Signora Zoratto”
si è sentita dire la madre dal corpo docenti “non ci è chiaro se il ragazzo non si applichi o sia un po', come dire,
limitato nell'apprendimento. Soprattutto,
signora, il problema è che il ragazzo a volte è molto sgarbato”. Mamma
Zoratto ne soffre, perché vorrebbe che il figlio si togliesse da sotto le
unghie quella terra che per generazioni ha sporcato le mani di tutta la loro
famiglia e li ha costretti ad emigrare in Lussemburgo, dove Daniele, peraltro,
è pure nato. In realtà Mamma Zoratto soffre più per lo “sgarbato”, ma quando
torna e s’incazza la butta prevalentemente sul discorso dei voti. Teme che dovrà
rassegnarsi molto presto: Daniele, il tempo per fare i pallosissimi compiti di
diritto, non ce l’ha. Come tutti i quindicenni molto forti a pallone.
Daniele si allena quattro volte a
settimana, il sabato ha la partita e ogni tanto lo mandano nell'under. Se
rimane almeno un altro anno a Piobbico lo porteranno in prima squadra, nei
dilettanti. Potrà fare qualche presenza, avrà centomila lire al mese e si vedrà
messo alla prova in una categoria già importante. Vedrè che quest’ maché i
dilettanti li magna, dicono i piobbichesi classe millenovecentodieci che
passano i pomeriggi a vedere gli allievi di quello strano capitano, arrogante
ma muto, che non segna nemmeno per sbaglio. Hanno vinto tutti gli incontri
casalinghi del girone d'andata. Hanno umiliato il Fermignano, ne hanno dati due
all'Urbania e hanno beffato l'Urbino al 79'. Nel derby con l'Apecchio
Daniele ha notato dei movimenti dalle sue parti, si è sentito osservato.
Sergio, il tuttofare del campo sportivo, l'ha ribadito a capitan silenzio
a fine partita, e poco dopo gli hanno presentato quel signore di Bologna che
voleva conoscere i suoi genitori.
Al babbo, Daniele non ha mai parlato
apertamente delle sue possibilità di riuscita nel calcio. Prima di tutto perché
sono due orsi, lui per primo. E per quanto sappia che il babbo gli vuole bene, pensa
che non dia importanza a questa storia del pallone, perché ha conosciuto la
miseria e vuole solo che il figlio finisca gli studi e si metta a lavorare. In
più, tra un po', Babbo Zoratto vorrebbe andare in pensione. In realtà il babbo
lo guarda eccome, Daniele, agli allenamenti. Passa al campo in lambretta, dopo
le cinque, fingendo di essere lì per caso perché non gradisce che lo credano uno
dall’illusione facile. In ogni caso Daniele è sempre troppo occupato per
accorgersene: in genere sta pressando a centrocampo, perché non sopporta di
dover aspettare che i suoi compagni recuperino palla. Il babbo guarda per
qualche minuto, poi se ne va. Si agita, perché sente che non saprebbe come
consigliare il figlio per il meglio. Sarebbe un coglione a non essersi accorto
che Daniele ha una dote, anche perché non fanno che dirglielo tutti: lo fermano
per strada, per ricordarglielo. Solo, ha paura che Daniele - che a suo avviso è
solo un buono mascherato da bulletto - accarezzi un miraggio per poi essere
costretto a tornare a Piobbico in veste di carpentiere.A casa, dopo una certa telefonata, il
babbo prende coraggio e si decide. Affronterà l'argomento in presenza della
moglie, perché da solo teme di non farcela. Mamma Zoratto, che parla e ragiona
proprio come una mamma, sa invece che Babbo Zoratto ha solo paura di voci rotte
e lacrime preventive: è così che lo prende per mano e aiuta i suoi due uomini-orsi
a ragionare. La soluzione migliore per Daniele è che aspetti un altro anno, poi
potrà lasciare Piobbico per Cesena.
Daniele mantiene il segreto ma è
contento, perché ha davanti un po' di tempo per prepararsi al salto. A giugno,
viene ammesso alla terza geometra con un solo debito. Tutto sommato non gli
dispiace, poteva andargli peggio; pazienza se a settembre avrà l'esame di riparazione.
Quando però settembre arriva, quella di diritto è cambiata e l'orale è una
formalità. Il nuovo insegnante, informato della particolare situazione
professionale dell'alunno, si complimenta con Zoratto per i suoi meriti
sportivi, senza fargli nemmeno uno straccio di domanda sulla Costituzione. Il
verbale, in qualche modo, viene riempito; Zoratto è congedato e ufficialmente
promosso. È strano per Daniele, perché non si sente amareggiato: eppure, pensa,
ha passato l'esame in qualità di imbecille. Si sente una merda solo perché,
mentre lui è passato, Franceschino è stato stangato. Franceschino è affetto da
nanismo, che in una qualunque scala gerarchica sarebbe un motivo per essere
promossi persino più valido del suo brillante avvenire calcistico. In macchina verso la Romagna, Daniele giura
che proverà a fare meno lo stronzo. Almeno sul campo, sarà molto severo con se
stesso. Tornando da Cesena il signor Zoratto non resiste, e mette il nastro di Lugano
Addio di Ivan Graziani.
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Ai tempi d'oro, allenato da Nevio Scala. |
Daniele - che talvolta riesce persino
ad essere un razionale - intuisce in fretta che tra i professionisti è
durissima, tanto che il Manuzzi nemmeno lo vede. Quando raggiunge la squadra in
ritiro, lo mandano subito a Casale, in serie C, senza discutere. La provincia
di Alessandria si rivela un posto freddo e inospitale, per di più lontanissimo
da casa, in cui Daniele si sente come un ragazzo del Novantanove. Se possibile
parla ancora meno e fisicamente soffre il confronto con colossi dal fisico già
formato, uomini fatti e finiti rispetto ai quali si sente - a ragione - ancora
un ragazzino. Non gioca quasi mai, Zoratto, e torna dal prestito con appena
quattro presenze in tutta la stagione. Va meglio l'anno seguente a Bellaria. Il
problema è che l'hanno fatto scendere di un paio di categorie, e in molti sono già
scettici sul suo effettivo valore. Secondo gli allenatori è un po' stupido,
forse non si applica, sarebbe forte ma a volte si perde.Quando il Cesena ci scommette, a
Daniele non sembra vero. Zoratto esordisce in Serie A nel 1981-'82: i
marchigiani più in voga in quel periodo sono il guizzante Roberto Mancini,
attaccante del 1964 che stupisce tutti a Bologna, e Luca Marchegiani, di Jesi
anche lui, con cui Zoratto si incrocia un anno a Brescia, nel 1987. Poi Rimini,
per un ritorno in Romagna in grande stile, proprio mentre la riviera sta
sfornando non mediani ma attaccanti capelloni: su tutti, pare, Neri Maurizio e
Agostini Massimo, che nel particolare bestiario del tempo è conosciuto come il condor. Questa Romagna attorno a cui sta
ruotando la sua carriera non è male, pensa Daniele, ma è tutta un'altra cosa.
Come sempre: nulla da dire sulla piadina, ma la crescia sfogliata è nettamente
meglio. È il triplo strato di
strutto che fa la differenza.
A Brescia Daniele è ormai un ometto e ci
rimane per un po'. Dopo qualche anno può permettersi il lusso di giocare in
A, salvo poi riuscirci stabilmente solo a Parma, dove vince addirittura delle
Coppe Europee e viene premiato dalla Nazionale di Arrigo. Esordisce in
Svizzera, a Berna, e l’Italia di Arrigo perde 1-0. Qualcuno, a Piobbico, ripensa
ad un certo giorno, con Lugano Addio
sparata a mille e si commuove. Ha trentatre anni, Daniele, ma si rifiuta di
pensare che il punto più alto della sua carriera l’abbia raggiunto da coetaneo
di un certo predicatore fricchettone che è molto simile, nell’immaginario
comune, al suo amico Marco Osio. Ritorna anche ad essere spavaldo come ai
vecchi tempi. Per carità, in campo vige il silenzio più assoluto, ma con
qualche ragazzo più giovane ed educato, tipo Melli, può anche permettersi di
fare lo sborone. Pare che Osio ancora lo prenda in giro, quando si sentono: Marcone
ricorda a Zoratto di quanto si risentisse (l’espressione più appropriata
parrebbe “come una bestia”), quando gli davano del marchigia’. Finisce a Padova
per chiudere con dignità, ma non si risparmia l’incazzatura di giocare poco e di
rischiare in prima persona l’onta della retrocessione. In fondo, quando ci
ripensa, sa di non essere stato poi tanto male. Meglio di un morto in casa,
perlomeno.
A cinquant'anni Daniele Zoratto è un
punto di riferimento delle rappresentative under. Allena, per conto dell'Italia,
ragazzi che hanno di regola non più di 17 anni. La scelta della Federazione è
caduta su di lui perché, oltre ad aver accumulato importanti trascorsi nei
settori giovanili di varie società (meno bene a Modena, tra gli adulti, in combo con l’amico Apolloni), rappresenta
un percorso reso esemplare dal sacrificio. Daniele ora è un cinico che ne ha
viste tante, è persino spiritoso con la stampa che lo intervista nelle tournée delle sue rappresentative. Del
ragazzetto arrogante delle origini non restano che i lineamenti, ma solo sullo
sfondo e molto più addolciti. Daniele è una figura d’esperienza, che guida i giovani
verso carriere assennate e sogni controllati. Dice ai suoi ragazzi che per non
finire come Vincenzino Sarno ci si deve, semplicemente, rimboccare le maniche.
Fa spesso battute, con i suoi giocatori: gli servono per dire ai suoi ragazzi -
tra le righe - che il peggior nemico di Zoratto è stato Zoratto.
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Poteva andare meglio, in quel di Berna... |
3)
Urbino, Palazzo di Giustizia, 1996 o poco più
Miamadre non ha mai amato
il calcio. Non in quanto donna, ma in quanto figlia, sorella, cugina, moglie e
madre di calciomani che l’hanno bombardata dal primo quarto d’ora della sua
esistenza. Giornali della Juve al cesso, fratelli sivoriano-charlesiani fino
alla morte, che scrivevano Anzolin et
cetera su ogni superficie possibilmente imbrattabile, senza risparmiare i
dizionari di Latino.
Poi è scappata a fare supplenze
tra Udine e Saluzzo, proprio nel periodo in cui un suo amico giocava nella
Triestina. Bel clima, nella Napoli del Sud, ma che palle andare allo Stadio a
venerare il reame di Rocco solo per mostrarsi ospitali con tutti gli urbinati
che, ogni quindici giorni, andavano in pellegrinaggio in Friuli a dare manforte
al conterraneo.
Quindi è stata assorbita da
un compagno che in realtà aveva la fissa di Lasse Viren, Anquetil e Gianni
Brera, ma la filastrocca di Anzolin la conosceva benissimo anche lui (come
Sarti-Burgnich-Facchetti, ma quella pare fosse d’obbligo fino a Jair-Guarneri-Picchi).
Dunque si è sempre detta juventina, miamadre. Che io ricordi, ha avuto solo
qualche momento di baggismo come ogni madre italiana. Al massimo, ha pensato
che Padovano fosse un personaggio romantico (dire “bello” pesa come un macigno,
ad essere edipicamente onesti); ha ammesso davanti a testimoni che Zinedine aveva
un certo stile, e che la chierica lo rendeva forse ancora più interessante. Ha
amato Gigirìva, quello sì.
Poi ha avuto un figlio,
collezionista di magliette, che dal Novantaquattronovantacinque (parola unica e
indivisibile) non ci ha capito più un cazzo, mentre Romario e Baresi, in
copertina, ballavano un ballo nuovo.
L’umanizzazione di
miamadre è iniziata quando un giorno, tornata a casa, mi ha raccontato di un
incontro avvenuto con un tale in tribunale, di mattina. “Non mi riconosce?” le
domanda il tizio, che ci tiene a precisare come stia facendo la fila in attesa
di ufficializzare una separazione. “No” risponde miamadre, aggiungendo, in
pieno formalismo avvocatizio “Mi scuso. Chi è?” - “Ma come, non mi riconosce
Professoressa? Io sono Zoratto, lei è stata la mia insegnante di diritto!” “Ah!”
dice miamadre simulando interesse e ricordando all’istante registri compilati
per conto di direttive arrivate dall’alto. “Molto bene! Che piacere! Cosa sta
facendo adesso?” Pare che Zoratto, a quel punto, si sia scurito in volto e
abbia glissato, tornando in fila. A pranzo, raccontandomi l’incontro, miamadre non
ha potuto fare a meno di aggiungere: “Non c’è niente da fare. è rimasto proprio un gran patacca”.
Non ho capito se in quel
momento a parlare fosse mia mamma, un avvocato o una professoressa di diritto.
Ma forse, alla fine e col senno di poi, miamadre l’ho capita un po’ di più.
Forse l’autografo l’avrei
voluto, ma non importa.