In questo blog è stata trattata in diverse occasioni l’inestricabile connessione fra sentimenti patriottici, religiosi e calcistici. Non c'è dubbio, infatti, che il calcio è (anche?) politica. Questo aspetto è spesso grandemente sottostimato (rectius, ignorato) dai media occidentali. Voglio allora tornare sull’argomento per affrontare un caso paradigmatico, in grado di illustrare pienamente le interconnessioni di cui sopra: la vita - e soprattutto la didascalica morte - di colui che era universalmente noto in Serbia come il Komandante. Branislav Zeljković “Zelja”.
Zeljković è stato uno dei fondatori, sul finire degli anni ’80, dei Delije Sever (“Eroi della Nord”, uno dei gruppi ultras più importanti della Stella Rossa). Da questo gruppo sarebbero in seguito provenuti molti dei volontari impiegati durante la guerra civile in Jugoslavia nella formazione di Arkan, la Srpska Dobrovoljačka Garda (le “Tigri di Arkan”).
Il “debutto in società” del gruppo paramilitare avvenne, manco a dirlo, allo stadio. A guerra iniziata da poche settimane, nel corso del derby cittadino contro il Partizan, le “Tigri” appartenenti ai Delije - per l’occasione in tuta mimetica - esposero cartelli stradali di Vukovar e di altre città croate conquistate dall’esercito serbo durante la sua travolgente offensiva. Legittimazione delle “Tigri” sottolineata dai boati rigorosamente bipartisan dello stadio festante e inneggiante alla Grande Serbia.
Il Komandante Zelja (nome di battaglia al tempo del conflitto), a dirla tutta, aveva già compiuto spericolate imprese negli stadi della Federazione prima di imbracciare il fucile. Si recò, ad esempio, in trasferta solitaria a Pristina, sostenendo la Stella Rossa dentro uno stadio gremito di inferociti supporters kosovaro-albanesi. L’episodio serve a dimostrare come le linee di frattura etno-religiose che avrebbero portato alla disgregazione della Jugoslavia fossero già pienamente visibili nella “geopolitica” del tifo organizzato, con le rivalità fra opposte fazioni calcistiche a far da cartina di tornasole dello stato delle relazioni fra i diversi gruppi etnici.
In un’intervista concessa pochi mesi prima della sua dipartita, il paramilitare aveva spiegato come non fosse stato il nazionalismo la molla che lo aveva portato a partecipare al conflitto, ma il calcio. Ulteriore conferma della inscindibilità dei legami fra sport e politica, dove l’uno è metafora e immagine dell’altra e viceversa. Ancora, Zelja aveva chiarito di non esser andato in guerra «contro i Croati, ma contro gli Ustascia». Definizioni vecchie di 60 anni, che ancora persistono nelle raffigurazioni collettive dei Paesi dell’area balcanica. A titolo di esempio, l’energumeno immortalato nell’atto di tagliare recinzioni durante la partita di calcio Italia - Serbia a Genova indossava una maglia con scritto Cetnici della nord. Il tifo organizzato trae la sua forza anche dalla ritualizzazione degli eventi bellici, rappresentati allo stadio con cadenza settimanale.
Eppure, il dato che meglio ci permette di comprendere il significato della figura del Komandante è proprio la sua prematura scomparsa. Migliaia di persone in corteo, precedute dai vertici societari della Stella Rossa, hanno intonato canti patriottici e - come da testamento - hanno concluso la celebrazione con solenni bevute. Poche settimane dopo, Zeljković è stato ricordato dai sostenitori della Stella Rossa tramite un’enorme coreografia allo stadio che lo ritraeva ieraticamente in divisa, sguardo mistico e Kalashnikov al collo, alla stregua di una Icona medievale riveduta e corretta.
Qual è il confine del tifo organizzato? Dove inizia il territorio della politica? Come distinguere i due ambiti? Sono certo che a queste domande il nostro Komandante avrebbe saputo dare risposta.