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giovedì 4 agosto 2011

In morte di un Komandante


In questo blog è stata trattata in diverse occasioni l’inestricabile connessione fra sentimenti patriottici, religiosi e calcistici. Non c'è dubbio, infatti, che il calcio è (anche?) politica. Questo aspetto è spesso grandemente sottostimato (rectius, ignorato) dai media occidentali. Voglio allora tornare sull’argomento per affrontare un caso paradigmatico, in grado di illustrare pienamente le interconnessioni di cui sopra: la vita - e soprattutto la didascalica morte - di colui che era universalmente noto in Serbia come il Komandante. Branislav Zeljković “Zelja”.
Zeljković è stato uno dei fondatori, sul finire degli anni ’80, dei Delije Sever (“Eroi della Nord”, uno dei gruppi ultras più importanti della Stella Rossa). Da questo gruppo sarebbero in seguito provenuti molti dei volontari impiegati durante la guerra civile in Jugoslavia nella formazione di Arkan, la Srpska Dobrovoljačka Garda (le “Tigri di Arkan”).
Il “debutto in società” del gruppo paramilitare avvenne, manco a dirlo, allo stadio. A guerra iniziata da poche settimane, nel corso del derby cittadino contro il Partizan, le “Tigri” appartenenti ai Delije - per l’occasione in tuta mimetica - esposero cartelli stradali di Vukovar e di altre città croate conquistate dall’esercito serbo durante la sua travolgente offensiva. Legittimazione delle “Tigri” sottolineata dai boati rigorosamente bipartisan dello stadio festante e inneggiante alla Grande Serbia.
Il Komandante Zelja (nome di battaglia al tempo del conflitto), a dirla tutta, aveva già compiuto spericolate imprese negli stadi della Federazione prima di imbracciare il fucile. Si recò, ad esempio, in trasferta solitaria a Pristina, sostenendo la Stella Rossa dentro uno stadio gremito di inferociti supporters kosovaro-albanesi. L’episodio serve a dimostrare come le linee di frattura etno-religiose che avrebbero portato alla disgregazione della Jugoslavia fossero già pienamente visibili nella “geopolitica” del tifo organizzato, con le rivalità fra opposte fazioni calcistiche a far da cartina di tornasole dello stato delle relazioni fra i diversi gruppi etnici.
In un’intervista concessa pochi mesi prima della sua dipartita, il paramilitare aveva spiegato come non fosse stato il nazionalismo la molla che lo aveva portato a partecipare al conflitto, ma il calcio. Ulteriore conferma della inscindibilità dei legami fra sport e politica, dove l’uno è metafora e immagine dell’altra e viceversa. Ancora, Zelja aveva chiarito di non esser andato in guerra «contro i Croati, ma contro gli Ustascia». Definizioni vecchie di 60 anni, che ancora persistono nelle raffigurazioni collettive dei Paesi dell’area balcanica. A titolo di esempio, l’energumeno immortalato nell’atto di tagliare recinzioni durante la partita di calcio Italia - Serbia a Genova indossava una maglia con scritto Cetnici della nord. Il tifo organizzato trae la sua forza anche dalla ritualizzazione degli eventi bellici, rappresentati allo stadio con cadenza settimanale.
Eppure, il dato che meglio ci permette di comprendere il significato della figura del Komandante è proprio la sua prematura scomparsa. Migliaia di persone in corteo, precedute dai vertici societari della Stella Rossa, hanno intonato canti patriottici e - come da testamento - hanno concluso la celebrazione con solenni bevute. Poche settimane dopo, Zeljković è stato ricordato dai sostenitori della Stella Rossa tramite un’enorme coreografia allo stadio che lo ritraeva ieraticamente in divisa, sguardo mistico e Kalashnikov al collo, alla stregua di una Icona medievale riveduta e corretta.
Qual è il confine del tifo organizzato? Dove inizia il territorio della politica? Come distinguere i due ambiti? Sono certo che a queste domande il nostro Komandante avrebbe saputo dare risposta.

martedì 4 maggio 2010

L'avvocato dei lupi


Il legame tra Saddam Hussein, le conturbanti e un po' volgari bellezze del turbo-folk balcanico e il Campobasso Calcio, ambiti in effetti abbastanza lontani tra loro, esiste e si incarna in un avvocato anglomolisano di 55 anni, Giovanni Di Stefano. Se il suo illustre cognome sia il segno di una parentela calcisticamente importante, non lo sappiamo; sappiamo solo che a sei anni Di Stefano lascia la natia Petrella Tifernina, nel fondo del Molise verde e povero, e si ritrova a crescere nel Northamptonshire, dove il padre ha trovato impiego in una fabbrica di scarpe. Per questo motivo, e com'è ovvio che sia, gli risulta più familiare e fluente l'inglese rispetto all'italiano natio; d'altra parte, questo non gli impedisce di considerarsi italiano, rivendicando anzi il suo essere sannita.
Il giovane Di Stefano non è privo di iniziativa e di capacità, se è vero che negli anni Ottanta accumula una piccola fortuna importando videocassette da Hong Kong (le fonti non dicono di più su queste videocassette). Quando e dove abbia studiato legge, poi, non è chiaro; si sa che gestisce uno studio a Roma, lo Studio Legale Internazionale, che definire prestigioso è poco: si contano infatti tra i suoi clienti Saddam Hussein, appunto, Charles Bronson, Tariq Aziz, Gary Glitter (un simpatico cantante pop inglese, più volte condannato per pedofilia), Alì il Chimico e altri personaggi di primo piano del jet set internazionale.
Nel 1992, in ogni caso, Di Stefano si reca nella Jugoslavia che si sta sfasciando, e qui la sua carriera si impenna e comincia ad intrecciarsi con il calcio e la politica che, nei Balcani e non solo là, non sono campi troppo lontani. È noto che la guerra civile fu sinistramente anticipata, pochi giorni prima del mondiale 1990 (che con un po' di fortuna in più la Jugoslavia avrebbe anche potuto vincere. E chissà se la Storia sarebbe cambiata), da furibondi scontri al Maksimir di Zagabria tra gli ultras della Dinamo e i rivali della Stella Rossa. Questi ultimi erano guidati da un estremista serbo di nome Željko Ražnatović, più noto come Arkan: come molti estremisti serbi, anch'egli peraltro era montenegrino. Due anni dopo quel 1990 la situazione era già compromessa, la guerra divampava in Croazia, e numerosi ex ultras si combattevano in divisa per il possesso della città di Vukovar, in quell'angolo di Slavonia in cui è nato anche (da madre croata e padre serbo di Bosnia) Siniša Mihajlović. In questa situazione tremenda Di Stefano si trova stranamente a proprio agio, diviene amico del presidente serbo - di origine ovviamente montenegrina - Milošević, da cui ottiene la cittadinanza in tempi rapidissimi; soprattutto, stringe ottimi rapporti con Arkan. Quest'ultimo trova nell'avvocato anglomolisano un perfetto Dioscuro, e ne fa il proprio portavoce, poi un socio d'affari, infine il proprio avvocato di fiducia.
D'altra parte, Di Stefano ripaga l'amicizia e la fiducia di Arkan: e nel 1995 arriva al punto di pagare di tasca propria lo sfarzosissimo sposalizio dell'amico con la giovane cantante Ceca, stella di quel volgarissimo e onnipresente genere musicale che è il turbofolk nei Balcani.
Il 1995 è però anche l'anno degli accordi di Dayton; finita la guerra, bisogna trovare nuovi interessi, ed Arkan, oltre a possedere ed amministrare tutta una serie di attività (dai casinò alle panetterie), nel 1996 compera una modesta squadra di calcio, l'Obilić, sempre in comproprietà con Di Stefano: in due anni, l'Obilić passa dalla serie B alla vittoria del campionato serbo, battendo Stella Rossa e Partizan (chissà cos'avranno pensato i tifosi biancorossi del voltafaccia del loro ex capo). Non altrettanto bene era andata invece l'avventura calcistica tentata nel 1995 dal solo Di Stefano: infatti, questi aveva acquistato il natio Campobasso, precipitato dalla gloriosa B degli anni '80 alla bassa classifica in Serie D. Nonostante grandi proclami in un italiano stentatissimo, Di Stefano non cambia l'inerzia delle cose; e l'anno dopo lascia i lupi ancora in D e in procinto di fallire.
Nel 2000, però, il sodalizio tra Arkan e Di Stefano si scioglie per l'omicidio del primo; il secondo lascia la Serbia e si dedica alla sua professione forense in Iraq e in Inghilterra, sempre privilegiando casi controversi e di grande impatto mediatico. Non rinuncia però al calcio: nel 1999 tasta il terreno al Dundee FC, nel 2001 prova a comperare il Norwich City dalla cuoca televisiva Delia Smith (da allora i due, si dice, si odiano; e fa specie che un buon amico di Arkan e Saddam Hussein abbia problemi personali con l'equivalente inglese della Clerici), nel 2002 prova ad entrare nel Northampton Town, nel 2003 acquista finalmente il Dundee e riesce a farvi giocare anche Fabrizio Ravanelli (per cinque partite); poi succede qualcosa di strano a livello finanziario, quindici giocatori devono venir svincolati e Di Stefano se ne va.
Anche oggi, tra un partito politico da fondare e un processo da seguire, Di Stefano gironzola intorno al mondo del calcio, con i suoi modi diretti e il suo eloquio evocativo; e non sarebbe giusto credere che lo faccia solo per calcolo o per interesse e non per genuina passione. Costui, in effetti, è pur sempre l'uomo che nel 1999 torna a Belgrado, che sta per essere bombardata dalla Nato, solo per stare vicino ai suoi amici Milošević e Arkan. Così lui stesso commenta la vicenda: "Uno non può mangiare al tavolo di un amico, di un cliente e poi scappare nel momento in cui l’amico è in difficoltà. Questo sono io, Giovanni Di Stefano, di Petrella Tifernina, figlio di gente leale. Neanche i romani ci hanno conquistato a noi".
Questo è Giovanni Di Stefano, di Petrella Tifernina, l'avvocato dei lupi.