Fernando
Chillida fa la sua comparsa a Parigi nell’agosto del 1932. Questa affermazione,
però, non è proprio corretta. A Parigi, infatti, non arriva Fernando Chillida,
ma Henri Jorge Branca, un giovane cileno di origini francesi (origini nobili,
sottolinea più volte). È con questo pseudonimo, infatti, che viene presentato
dal Racing Club de Paris (per casualità, anche il Racing Club de France aveva
cambiato nome in quell’anno). I motivi di questo mascheramento dell’identità
non sono noti, e c’è da presumere che siano collegati alla fuga senza ritorno
dal Cile sul piroscafo Mendoza. Peraltro,
Chillida rinuncia al suo vero nome (e al nomignolo “Pajarita”) solo in
pubblico, perché le lettere e le testimonianze private dei suoi amici lo
ritraggono quasi sempre come Fernando.
Roger Caillois e Victoria Ocampo |
Prima
ancora del pallone, la vita parigina che interessa a Chillida è quella culturale.
Tramite alcuni intellettuali cileni esiliati (gente come il filosofo Alberto
Von Beck Iraola, padre di quella Tatiana - femminista, gallerista e scultrice -
che animerà la vita culturale cilena del secondo novecento; Esteban Garcìa,
poeta e traduttore dal francese; Juan Josè Macaduck, fotografo e
sperimentatore, aiutò Duchamp a congegnare il suo Anémic Cinéma) entra in
contatto con il demi-monde della cultura sudamericana a Parigi, la cui gran
dama è quella Victoria Ocampo che all’epoca passava molto tempo in Europa e
soprattutto a Parigi e il cui mecenatismo e la cui curiosità hanno segnato il
felice scambio letterario tra i due lati dell’oceano nella prima metà del secolo
scorso. Da alcune lettere successive inviate dalla Ocampo alla sorella
Angelica, può dedursi che tra i due ci sia anche stata una liaison sentimentale, circostanza che non deve sorprendere -
nonostante la differenza di età (l’Ocampo era di vent’anni più grande di lui) -
vista la fortissima carica seduttrice dell’intellettuale argentina e la sua
passione per gli uomini più giovani, come testimonia la lunga e tormentata
relazione che intraprenderà a breve con Roger Caillois (su cui mi permetto di
segnalare la “Corrispondenza. 1939-1978” edita da Sellerio). A proposito di
Caillois, Chillida lo conosce bene perché frequenta assiduamente - tra un
allenamento e un cocktail - il Collége de Sociologie, dove nasce una solida
amicizia tra i due che ritornerà anche più avanti in Argentina.
Andrè Malraux |
Non
è qui il caso di stendere l’elenco delle amicizie che coltiva Chillida negli
anni parigini; stiamo parlando, d’altronde, della Parigi tra le due guerre,
brodo di coltura delle avanguardie artistiche che segneranno un intero secolo. Basti
citare le sue strette frequentazioni - per ragioni di lingua - con i
surrealisti di origine spagnola come Dalì, Buñuel, e in seguito con Picasso, e
soprattutto l'indissolubile legame che si crea con la coppia composta da Rafael Alberti e Maria Teresa Leòn, che (quest'ultima)
Chillida conosce appena arrivato durante una cena a casa di Breton e di cui diventa
inseparabile compagno di viaggio, perlomeno intellettuale (chissà se anche qualcosa in più). Non solo amici
spagnoli, però. Il rapporto di amicizia più sincero Chillida lo stringe in
quegli anni con Andrè Malraux, anche perché lo scrittore francese era un grande
appassionato di calcio. Malraux, a dispetto del suo carattere tramandato come cinico e
sprezzante, ha grande rispetto per le opinioni di Chillida, tanto che lo
presenta a Jacques Duclos, il già fondatore e all’epoca segretario generale del
Partito Comunista francese. Il carteggio successivo intercorso tra Chillida e
Malraux rivela addirittura come il suo romanzo L’espoir, uscito in Francia nel ’37, si basi in massima parte
proprio sui racconti della guerra che gli mandava l’amico cileno. Non è un caso,
peraltro, che quando il film verrà portato sul grande schermo - nel 1945 - il
ruolo del protagonista (la storia è quella degli scontri tra repubblicani e
franchisti nelle lande desolate della provincia di Teruel) è affidato proprio - come si dirà in seguito - ad
un grande amico di Chillida, l’attore spagnolo Andrès Mejuto.
Prima
di accennare, sulla base delle scarne cronache a disposizione, al Chillida
calciatore, sia consentito raccontare due aneddoti che raccontano bene l’impossibilità
di capire completamente il personaggio Chillida.
Nella
sua autobiografia, in una delle tante almeno, è Dalì a mostrare un lato frivolo
- quasi macchiettistico - di Chillida. Racconta il pittore catalano che, nella
capitale parigina, Chillida si dava arie di essere un principe cileno, erede di
non si sa bene quale famoso casato. La sera non era raro vederlo girare per Montparnasse con un levriero afgano
(vezzo surrealista che impallidiva di fronte alle eccentricità dei suoi sodali,
se pensiamo che a Cadaques Dalì si faceva vedere con un elefantino al
guinzaglio, o nel metrò di Parigi, invece, con un esemplare di tapiro). Si diceva,
inoltre, che fosse l’amante di un potente cardinale. Il dettaglio più grottesco
è, però, un altro. Siccome viveva oltre le sue possibilità, Chillida si era
inventato questo sistema per racimolare qualche soldo in più: andava in giro
con la sua automobile lussuosa per farsela urtare da ignari tamponatori, ai
quali mostrava una strisciata sulla portiera che stava lì da anni. Grazie a
testimoni amici - Dalì per primo - si faceva pagare lì per lì qualcosa,
sfruttando il fatto che all’epoca non esistevano le assicurazioni, e con quei
cento o duecento franchi pagava la cena e lo champagne per tutto il gruppo.
il torero Ignacio Sanchèz Mejìas |
Un
diverso lato, più umano, è invece messo in luce da Maria Teresa Leòn nella sua
già citata raccolta di memorie. Racconta la moglie di Rafael Alberti che nel
giugno del ’34, a campionato finito, Chillida andò a trovarli a Madrid. Era stata
proprio lei ad invitarlo, visto che, nel corso del loro incontro a Parigi a casa Breton (come detto, Alberti non c’era), Chillida gli aveva raccontato che uno dei suoi
sogni era quello di conoscere l’autore di Marinero
en tierra. Quando però Chillida entra nell’appartamento di calle del
Marquès Urquijo, non si trova di fronte solo la coppia Leòn-Alberti, ma una
serie di amici radunati per l’occasione del compleanno del grande
torero-intellettuale Ignacio Sànchez Mejìas: tra gli altri, Pablo Picasso, il
torero Mejìas appunto e la sua bellissima amante Encarnaciòn Lòpez, meglio
conosciuta come la Argentinita, una delle più importanti figure della danza
spagnola, con tutta la sua compagnia al seguito (Mejìas era sposato con Lola Gómez Ortega). Racconta la Leòn che il gruppo
si reca a pranzo in un ristorante della calle Segovia, e il pranzo si prolunga
così tanto che, a un certo punto, usciti gli ultimi commensali, il titolare
chiude la porta e lascia le chiavi al poeta Alberti. L’atmosfera si
surriscalda: le gitane ballano a pieni nudi sui tavoli con i lunghi capelli
sciolti, anche la Argentinita si unisce, battendo palmas, cantando una vecchia copla
popolare (“Es tu queré como er toro/que adonde lo yaman ba,/y er mìo como la
piedra,/donde lo ponen està”) in maniera angosciosa, perché una festa, meglio,
una juerga, per come la interpreta la
tradizione andalusa, non è solo allegria, ma è l’esame profondo della
coscienza, il momento dell’assalto dei ricordi. Salgono tutti sui tavoli, sulle
sedie, ballando con ansia, frenesia. Anche Chillida si muove al ritmo del
battito delle mani, segue la melodia dell’Argentinita, alza le braccia e le
riporta accanto al corpo. Suda, come non suda neanche in campo. Sembra che sta per svenire. A un certo punto
scompare. Picasso e Alberti (il torero no perché era completamente ubriaco) lo
vanno a cercare e lo trovano in bagno, mentre piange appoggiato al lavandino da
cui scende un filo d’acqua. I due si commuovono. Che succede, ragazzo?, gli
chiede Picasso. Chillida tira fuori a singhiozzi che tutte quelle emozioni gli
hanno fatto tornare alla mente la sua infanzia cilena, la sua famiglia e la sua
terra che non sa se e quando rivedrà. Tutto qua? Ma è normale, lo rassicura
Alberti. No, c’è altro, dice Chillida: è che non avrei mai pensato, non avrei
mai neanche sognato di essere qui, oggi, con maestri come voi. Non so se sono
all’altezza. Picasso lo guarda e gli dice: ma tu giochi a pallone benissimo. Quando
giochi, sembra che balli. Rinuncerei a tutte le mie opere per sapere giocare a
pallone come te...
La squadra campione nel '36 (Chillida dovrebbe essere il primo a sinistra, seduto) |
Venendo
allora al calcio, Chillida - in quell’ambiente meglio conosciuto come Henri
Branca - si impone subito come il leader della difesa del Racing. Senza rinunciare
al suo stile di gioco - lento ma estetizzante, compassato ma autoritario - si concede
qualche scappatella nell’area avversaria che gli porta i primi gol della sua
carriera. Il suo sguardo misterioso, che trasuda America, ipnotizza gli
attaccanti avversari e le frequentatrici dei caffè di Pigalle. Sotto la guida
di allenatori inglesi conservatori come Curtis Booth, Peter Farmer e Jimmy
Hogan, il Racing gioca un calcio frizzante, in linea con gli standard
spettacolari dell’epoca, che accompagna a buoni, ma non esaltanti piazzamenti
in campionato. La svolta per Chillida e per les
Pingouins arriva, però, nel 1935, con lo sbarco sulla panchina parigina (da
quella della nazionale) di un geniale manager inglese, Sid Kimpton, un vero
innovatore, tanto da essere considerato colui che ha portato il modulo WM in
Francia. Kimpton porta la disciplina nella squadra, ma soprattutto la marcatura
a uomo. Per Branca è la consacrazione: il suo fisico, il suo mestiere, il suo
carisma gli permettono di controllare senza fatica i movimenti del
centroattacco. Questo catenaccio ante
litteram porta dei risultati inaspettati, che si concretizzano - nonostante
le diffidenze e le perplessità dei tifosi, che all’inizio non approvano questo
calcio economico - nella doppietta del Racing, che nel 1936 si laurea sia
campione di Francia che vincitore della coppa nazionale. Testimonianze dell’epoca
raccontano di un Kimpton in lacrime al fischio finale, appoggiato sulle spalle
possenti proprio di Chillida, dal cui viso fiero, però, questa volta non scende neanche una
lacrima. Fernando, infatti, sta già guardando avanti, verso un orizzonte
diverso. Quell’estate - di nuovo, con grande sorpresa di tutti - lascia il club,
lascia il calcio, lascia la Francia, e si lancia in una nuova avventura: la guerra
civile spagnola. (continua)