mercoledì 29 gennaio 2014

Matthias Sindelar: o sulla morte di un calciatore

L'uomo di Carta: Der Papierene
Era un’altra Europa. Fatta di imperi, confini mutevoli e tensioni etniche: non è compito nostro paragonare quell’epoca, pur non troppo remota, con la nostra. Lasciamo l’onere agli storici che ci succederanno, ma di certo dobbiamo annotare nei nostri taccuini la più grande differenza tra questa e quell’Europa, ovvero il sostenimento degli sforzi di due grandi e sanguinose guerre che si estesero da Gibilterra e Capo Nord, lasciando dietro di loro un continente devastato.
In questo contesto, Matej Sindelar nasce nel 1903 nella campagna della Moravia, in pieno impero Austro-Ungarico. Oggi sarebbe stato un cittadino della Repubblica Ceca, ma il luogo che gli diede i natali è solo un punto di partenza, visto che papà Jan decise di andare a cercar fortuna facendo il fabbro a Vienna, capitale dell’impero, prima di perire sotto i colpi della Prima Guerra Mondiale. Matej, che sulle rive austriache del Danubio era ormai diventato Matthias, non cresceva tantissimo visto che in quegli anni il cibo non era di certo abbondante, ma in compenso dimostrava di saperci fare eccome con il moderno gioco del fußball: i tifosi dell’Austria Vienna impararono presto ad amare ed apprezzare il giovane Sindelar, ribattezzandolo “l’uomo di carta” per la sua stazza minuta e la capacità di andar via tra più avversari, dribblandoli e passando in mezzo a loro, sottile e leggero come un foglio.
 
Non esattamente le pubblicità di Cantona per la Nike...
Così tanto era il suo talento che Matthias capì ben presto che poteva sviluppare una certa allergia all’allenamento, privilegiando invece altre attività che tuttavia non intaccavano la sua capacità di mettere la palla alle spalle dei malcapitati portieri: pare difatti che durante la settimana lo vedessero più spesso le tenutarie dei bordelli viennesi che il suo allenatore, il quale però arrivata la domenica, chiudeva ben volentieri entrambi gli occhi per permettere al suo “uomo di carta” di consegnare la vittoria all’Austria Vienna.
Gioiello di punta in una generazione d’oro per il calcio austriaco, Sindelar comincia a dar spettacolo con i suoi dribbling anche nella nazionale ed insieme ad altri fuoriclasse come Smistik e Sesta infila una vittoria dietro l’altra, rimanendo imbattuti per quasi due anni e rifilando sconfitte sonanti a rivali di tutto rispetto (per l’epoca) come Scozia, Ungheria e Germania. Da Linz a Salisburgo, la mannschaft si guadagnò il pretenzioso, seppur giustificato, soprannome di “Wunderteam”, una squadra delle meraviglie che sembrava avviata a far sfaceli nei mondiali del ’34 che si sarebbero svolti in Italia. La cosa curiosa è che il soprannome di Wunderteam arrivò dopo una sconfitta, tuttavia in una partita non come le altre.
 
Il Wunderteam e come abbigliarsi a Stamford Bridge
Negli anni ’30, se l’Inghilterra invita una nazionale del continente a giocare a Londra è per due motivi: il primo è perché li rispettano e sanno che non sfigureranno contro di loro che questo giochino l’hanno inventato, il secondo è per batterli nella maniera più cocente possibile proprio per ricordar loro chi è stato, appunto, ad inventare il football. Quando toccò all’Austria affrontare gli inglesi, questi si imposero con un combattutissimo 4-3, ma il gol di Matthias è qualcosa che vale più del risultato finale: serpentina dalla propria metà campo, dribbling di almeno sette giocatori albionici, portiere compreso. Praticamente lo schema che Pelé disegna alla lavagna in “Fuga per la Vittoria”, senza Stallone a parare improbabili rigori.

Il famoso discorso della Hofbrauhaus
Negli anni ’30 peraltro, i figli prediletti dell’Austria non si esprimevano al top solo nel calcio: mentre Sindelar incantava con i suoi gol innovando lo stile di gioco, Freud inventava la psicoanalisi e le pièces di Schnitzler riempivano i teatri di mezza Europa. A rovinare la reputazione di questa generazione di austriaci arrivò tuttavia un omino dai capelli scuri e di bassa statura che riuscì a convincere i tedeschi che loro, alti e biondi, erano il popolo etnicamente perfetto. Ora, la Grande Depressione, le umiliazioni subite a causa del trattato di Versailles e le difficoltà della Repubblica di Weimar possono essere le ragioni scatenanti dell’affermazione del Nazionalsocialismo come fenomeno politico, ma per la questione della razza ariana propagandata da un tizio che meno ariano è difficile immaginarlo, possiamo solo presumere il più colossale e tragico dei buchi di sceneggiatura. È anche vero che molti dei discorsi alla base della sciagura nazista si tennero all’interno della Hofbräuhaus, ma senza timore di smentita, su questi basi non c’è sbornia che tenga…
In ogni caso, Adolf Hitler nel 1934 è solo agli inizi della sua folle ascesa al Reich e le preoccupazioni per Sindelar ed il suo wunderteam provengono “soltanto” dai Campionati del Mondo: l’Austria si presenta con grande fiducia all’appuntamento ed il 27 maggio parte subito alla grande battendo, dopo i tempi supplementari, la Francia e qualificandosi quindi ai quarti di finale. Matthias segna l’1-0 e, visto che i biancorossi non erano presenti al mondiale uruguayano del 1930, pone la sua firma sul primo gol in assoluto dell’Austria nella massima competizione calcistica. Ai quarti c’è il “derby” con l’Ungheria e allo stadio di Bologna le cose si mettono subito bene per Matthias e compagni: 1-0 dopo otto minuti, raddoppio ad inizio ripresa e magiari che riescono ad accorciare le distanze solo su calcio di rigore: gli austriaci si qualificano e ad aspettarli nella semifinale di San Siro ci sarà l’Italia padrona di casa.
 
Sindelaaaaar: quando insacca lui decollaaaaa?!?
La semifinale del campionato mondiale sarà emblematica per Sindelar: l’uomo di carta conoscerà praticamente per la prima volta in carriera il gusto amaro della sconfitta sul campo, abbinato agli effetti propagandistici che i regimi totalitari traggono dal football. Quello del 1934 è il mondiale di Mussolini - che pure all’epoca con l’Austria intratteneva ottimi rapporti politici - e non c’è squadra delle meraviglie che tenga, ad alzare la coppa Rimet dovranno essere gli azzurri di Pozzo e Meazza. Grandissima squadra anche loro, ma per avere ragione della Spagna di Zamora e Langara c’era voluta la ripetazione della partita ed una discreta connivenza arbitrale, figurarsi contro l’Austria allenata da Hugo Meisl, considerato come un grandissimo innovatore tattico. A risultare decisivo però è di nuovo lo schema preferito dei ragazzi col fascio littorio e stemma sabaudo: dopo aver fruttato il gol decisivo contro le Furie Rosse, la tattica di placcare il portiere mentre un compagno tira viene di nuovo capitalizzata alla grande da Meazza e Guaita e dopo soli 19 minuti è 1-0 per l’Italia. Nei restanti 71 è caccia all’uomo legalizzata, senza che ovviamente l’arbitro intervenga in alcun modo, con Sindelar a fare la parte del bersaglio vivente, terminando la partita praticamente da fermo a causa di un colpo che lo priverà anche della finalina per il terzo posto.
 
Passata la delusione, Sindelar tornò per quanto possibile alla sua routine di dribbling e bella vita viennese: il wunderteam austriaco non è più ai livelli di inizio decade ma riesce comunque a qualificarsi per i campionati mondiali di Francia ’38. In verità, tra le due competizioni mondiali, gli austriaci (senza Sindelar) portano a casa anche l’argento alle Olimpiadi di Berlino, ma la medaglia è macchiata dalla controversa ripetizione del quarto di finale contro il Perù: i sudamericani si impongono per 4-2 ai supplementari (ed altri tre gol vengono annullati), ma il reclamo austriaco per una pacifica invasione di campo da parte dei supporters della nazionale andina (ora, ci vuole discreta fantasia per immaginare orde di peruviani sugli spalti nella Berlino fascista, ma tant’è…) viene accolto dalla FIFA e dal CIO, su viva pressione delle autorità locali, ed impongono la ripetizione del match. Il Perù non la prende benissimo, come è lecito attendersi, e richiama tutta la delegazione olimpica in patria, dove scoppiano immediate le manifestazioni anti-germaniche. L’Austria avrebbe tuttavia perso la finale contro l’Italia, grazie ad una doppietta dell’occhialuto capocannoniere del torneo, Annibale Frossi.

Annibale "Clark Kent" Frossi
Per tornare a Matthias, sarebbe giunto all’appuntamento iridato all’età di 35 anni ma comunque ancora in grado di fare la differenza: l’omino col baffo a spazzola però aveva altri piani per l’Austria e di conseguenza per la nazionale di Vienna. Il 12 marzo 1938 la Germania annuncia urbi et orbi l’annessione dell’Austria sotto minaccia di arrivare sulle rive del Danubio in assetto di guerra: collaborazionismo e persuasione, lecita o meno, dei Nazionalsocialisti austriaci scongiurarono resistenza, anche perché nei giorni seguenti circa 70000 possibili dissidenti furono prontamente arrestati dalle SS: ad aggiungere beffa al già evidente danno, la Germania nazista pensò bene di indire un referendum farsa, al cui voto, peraltro a scrutinio aperto e non segreto con gli ufficiali a supervisionare, non furono ammessi circa 400000 aventi diritto. Plebiscito doveva essere e plebiscito fu, con il 99,7% dei votanti ad esprimersi a favore dell’annessione: non che ci fossero dubbi, tanto che per volontà dei tedeschi la settimana prima del referendum si tenne a Berlino una partita celebrativa tra Germania ed Austria, che sarebbe passata alla storia con il nome di AnschlussSpiel.
 
In verità, gli austriaci non avevano granché da celebrare: visto che l’operazione propaganda era riuscita alla perfezione a Mussolini quattro anni prima, Hitler pensò bene di cercare il bis, dato che anche alle Olimpiadi del ’36, con l’eccezione di  Jesse Owens, la missione era stata compiuta con successo. E quindi, se l’Austria era ormai parte della Germania, anche le nazionali di calcio dovevano essere unite per formare un superteam sulla carta imbattibile. In verità, la prima “proposta” avanzata alla Federazione di Vienna fu di partecipare ai Mondiali sotto il nome di “Ostmark”, provincia dell’Est: secco rifiuto degli austriaci, “O Osterreich o niente!” e conseguente risposta tedesca, “Bene, allora niente! E alla faccia vostra, festeggiamo pure il fatto di cancellarvi dalle mappe del calcio con una bella amichevole dal risultato scritto!”
 

Già, perché alla base dell’Anschluss c’era ovviamente il pangermanismo imperante ed una superiorità culturale ed etnica tedesca lasciata nemmeno troppo sottotraccia. Sul campo di calcio però, le cose stavano diversamente e l’Austria, benché in declino, aveva senz’altro la squadra migliore in quel 3 aprile 1938 ed era quindi necessario applicare quel minimo di pressione perché in quel di Berlino le cose andassero secondo copione.
Ora, immaginate di essere Matthias Sindelar: uno a cui hanno tolto una finale mondiale per la propaganda fascista e a cui i nazisti hanno impedito l’ultimo ballo, cancellando de facto la sua nazionale dal panorama calcistico. Uno che ha subito detto che lui nella squadra mista austro-tedesca non ci gioca nemmeno morto e che per quel che lo riguarda, la partita di Berlino sarebbe stata la sua ultima partita con la mannschaft: d’altra parte, per quello che ne sapeva, non sarebbe stata solo la sua partita d’addio, ma anche l’ultima partita dell’Austria come nazione indipendente per chissà quanto tempo.

Una nazionale ed un mondiale a cui Sindelar non parteciperà per sua scelta. Respect!
Nello stadio di Berlino però, in quella che doveva essere la piattaforma per festeggiare l’Anschluss, Matthias decide di diventare protagonista e rovinare i piani. L’uomo di carta comincia rifiutandosi di fare il saluto nazista durante gli inni, poi per tutto il primo tempo fa impazzire gli avversari con i suoi dribbling, presentandosi a più riprese davanti al portiere. In una partita normale, ogni occasione sarebbe buona per segnare, ma in questo match-farsa c’è bisogno di altro: proprio per far capire la trama richiesta dalle autorità, Sindelar per tutto il primo tempo manca volontariamente il gol, in segno di disprezzo. Volete un match truccato? Bene, eccovelo qui, insieme ad un grosso vaffanculo ai nazisti e all’Ostmark.
A venti minuti dalla fine però, Sindelar si stufa di sbagliare gol e prima serve l’assist a Karl Sesta per il gol del vantaggio e poco dopo ci pensa direttamente lui a siglare il raddoppio; non contento, per festeggiare il 2-0 e la vittoria ormai al sicuro, improvvisa un derisorio balletto proprio sotto al palco autorità, ovviamente riempito per l’occasione da dignitari nazisti.
 

Con l’annessione dell’Austria, anche a Vienna entrano in vigore le leggi razziali: il presidente dell’Austria Vienna, di religione ebraica, è costretto a cedere il club. Dopo questo ennesimo affronto, Sindelar si ritira dal calcio giocato e acquista un café viennese, riconoscendo al precedente proprietario, di religione ebraica, un giusto prezzo per la transazione. In quel periodo inoltre, Matthias comincia ad accompagnarsi ad una ragazza italiana, Camilla Castagnola. Indovinate un po’ il credo della signorina? Anche lei tra i figli di David: tre circostanze che non passano inosservate alla Gestapo, che non ha peraltro ancora dimenticato lo scherzetto di Berlino. Il nome di Sindelar fa la sua comparsa nei temuti faldoni della polizia segreta, solo per essere definitavamente depennato il 23 gennaio 1939: visto che raramente tendevano ad assolvere, furono piuttosto compaciuti nel registrare la morte per avvelenamento da monossido di carbonio di Matthias e Camilla, prontamente rubricata come incidente domestico. Ai funerali di Vienna, oltre 20000 persone in lutto resero omaggio al loro campione con un sospetto che non azzardavano a formulare ad alta voce di fronte al massiccio dispiego di truppe naziste pronte a sedare sul nascere possibili rivolte anti-tedesche.

Solo parecchi anni dopo, si venne a sapere che l’ufficiale presente all’obitorio per registrare la causa del decesso fu corrotto al fine di formalizzare il decesso come sfortunata tragedia domestica. Già, maledetta stufa: nella Germania nazista, un funerale come quello riservato a Sindelar non poteva essere concesso a chi veniva assassinato o si suicidava; negare le esequie pubbliche per il calciatore più forte della storia austriaca avrebbe significato ammettere qualche coinvolgimento. Meglio falsificare gli atti e dar la colpa a quella maledetta stufa. Chissà come mai non siamo stupiti e probabilmente, non lo fu nemmeno l’uomo di carta.

giovedì 23 gennaio 2014

Tutto il resto non è noia - Edizione di quando fa freddo - Anno I


Non si possono ignorare i campionati invernali.

BIELORUSSIA
Nel campionato del paese più stimato e allo stesso tempo odiato da LdB, vince ancora una volta il Bate Borisov. Peccato, peccato perché dopo 8 anni di dominio giallo - blu, questa volta lo Shakhtyor Soligorsk (già campione nel 2005) quasi ce la faceva. Il Bate comanda in campionato come  Lukashenko comanda in Bielorussia. Aljaksandar Ryhoravič Lukašėnka è presidente della simpatica  Russia Bianca dal 1994. Con una serie di sfiziosi referendum è riuscito prima ad allungare il mandato presidenziale e in seguito ad annullarne il limite. Secondo Condoleeza Rice la Bielorussa: "È l'ultima vera dittatura rimasta nel cuore dell'Europa" mentre Silvio Berlusconi in visita a Minsk si rivolse a Lukashenko dicendo: "Grazie anche alla sua gente, che so che la ama: e questo è dimostrato dai risultati delle elezioni che sono sotto gli occhi di tutti". Non saprei di chi fidarmi. Parliamo, comunque, di un paese che nel 1995 sparò su delle mongolfiere che partecipavano alla Coppa aeronautica Gordon Bennett (tutti noi sappiamo quanto possano essere pericolose le mongolfiere) perché non autorizzate a sorvolare lo spazio aereo bielorusso. Senza contare quel famoso voto contrario alla creazione della nazionale gilbilterrina. La coppa è stata vinta dal Minsk normale contro la Minsk Dinamo.
LO SAPEVATE CHE - In Bielorussia è opportuno, considerate le drammatiche - e non completamente note - conseguenze dell’incidente di Chernobyl, adottare precauzioni legate all’alimentazione evitando i prodotti della terra e in particolare i funghi. Anche perché te lo consigliano i funghi stessi.
I reati a danno di minori in Bielorussia sono puniti con particolare severità, ed in taluni casi, ove ne ricorrano i presupposti, anche con la pena di morte. Insomma, la classica cena romantica a base di funghi sopra una mongolfiera con una diciassettenne, in Bielorussia potrebbe rivelarsi una bella cazzata.
Ah! Kutozov dopo i 62 anni di squalifica rimediati con il calcio scommesse ha deciso di giocare a hockey.
Un tipico fungo bielorusso

ESTONIA
Torna a vincere dopo 3 anni il Levadia. E lo fa spaccando i sederi. 91 punti, 30 partite vinte, 5 pareggiate e 1 sola sconfitta. Regge botta solo il simpatico Kalju Nõmme che chiude a 84, ma perde anche la finale di coppa contro il Flora. Nel Kalju giocano 2 italiani: Bianchi e Quintieri. Da sottolineare anche i 15 gol del giapponese (sempre del Kalju) Wakui. Terza piazza per il Kalev Sillamäe. L'impianto metallurgico Sillamäe ha prodotto (per la madre Russia) in 40 anni di attività più di 100.000 tonnellate di uranio per quasi 70.000 armi atomiche. Il giorno che alla Russia gireranno le palle, sapremo con chi prendercela.
LO SAPEVATE CHE -  Sono stato a Tallinn. Eh si! C'è una mare di gnagna. Però è quantomeno sospetto che sia tutta concentrata nel centro storico. Mi sa di trappola, tipo Hostel. Sono andato in periferia, ovviamente per andare a comprare una maglietta del Flora Tallinn (sì! Io possiedo una maglietta del Flora e sì! Sono così ebete che non vado in Estonia per turismo sessuale ma per turismo calciofilo) e ho potuto notare che il fregname del centro, in periferia non replica (hanno tipo le branchie e tre braccia, somigliano ai funghi bielorussi). L'eterna lotta tra la birra A Le Coq e la Saku per me è stravinta 10 a 0 dalla Saku. La A Le Coq credo sia lasciata fermentare (insieme a dei funghi bielorussi) dentro una pozzanghera sotto il sole estivo. Per quanto riguarda il Vana Tallinn, poco da dire, personalmente lo ritengo il liquore più stucchevole del pianeta, il sapore ricorda quello delle caramelle Rossana, ma non quelle appena comprate, quelle che trovate nel porta caramelle a casa di vostra nonna, ma non la nonna viva, quella morta da almeno 15 anni.
Se decidete di andare in Estonia è giusto che sappiate che i nostri connazionali (vacanzieri) più aberranti potete trovarli là. Gente che fa tutto il possibile  per: "Farsi rapinare in un locale notturno. Ordinando: due cartoni di Dom Perignon fatto con bicarbonato, cenetta di mezzanotte alla fiamma, tragiche foto ricordo della serata  più tre mostruosi animaloni di peluche regalati alle signore"(cit).

FAR OER
Vince la Formuladeildin 2013, che non è una marca di antitarme ma il campionato fareorense (giusto? boh!) l'HB Torshavn. In coppa, invece, esaltante vittoria del Vikingur che agguanta per 3 volte il pareggio contro lo Streymour e trionfa ai calci di rigore. Mi diverte la presenza in campionato di qualche Brasiliano. Penso al signor Clayton Soares nato 35 anni fa a Rio e che oggi gioca più per la gloria che per soldi a Fuglafjørður, simpatica cittadina di 1500 anime infreddolite nella splendida isola di Eysturoy. E c'è qualche stronzo in Italia che si lamenta per la "Saudade".
LO SAPEVATE CHE - Sono andato in fissa con Ormurin langi, canzone popolare fareoerense che narra la battaglia di Svolder. E' già nel mio MP3. Potete anche ascoltare la versione Heavy Metal dei Tyr.
Fuglafjørður... Molto simile a Rio

FINLANDIA
Vince l'HJK, vince sempre l'HJK. 26esimo titolo conquistato dalla squadra della capitale, trascinata questa volta da un mai domo Mikael Kaj Forssell (14 centri e tanti colpi di tacco). Seconda piazza per l'Honka allenata dal grandissimo ex Perugia Mika Lehkosuo e guidata del capocannoniere Tim Vayrynen (classe 1993), stampellone dai piedi buoni, passato in questa sessione di mercato ai vice campioni d'Europa del Borussia Dortmund. La squadra ha sede nella città di Espoo che ha dato i natali a Kimi Raikkonen e soprattutto allo splendido "Portiere" finlandese Niki Maeempa. In coppa successo del ROPS in finale con il KUPS. La squadra di Rovaniemi (il paese di babbo natale) vince la sua seconda  coppa nazionale dopo quella del 1986.
LO SAPEVATE CHE - A Rovaniemi esiste anche il Santa Claus Fc. Fino al 2012 (anno del suo fallimento, quindi oltre a babbo natale non esiste neanche più la sua squadra) disputava il campionato di terza serie finlandese (Kekkonen).
Ogni anno a Savonlinna va in scena il "Kännykänheitto" o "Mobile phone throwing" o meglio ancora "Lancio del cellulare". Questa antichissima e nobile disciplina si disputa dal lontano 2000 nella simpatica cittadina del Savo meridionale. Il record mondiale di 102,68 mt appartiene a Chris Hughff  che a quanto pare è anche un lanciatore di giavellotto professionista e quindi un fottuto impostore. Quindi per LdB il record mondiale appartiene al finlandese  Ere Karjalainen con 101,46 mt. E che questo record possa portare al giovane Ere fama e donne. Nella versione bielorussa con il lancio devi abbattere una mongolfiera mentre mangi un fungo locale.
Ho visitato la Finlandia, quello che mi ha sconvolto sono i locali che inciampano in continuazione.
A Turku, in un parco, sono stato avvicinato da un loschissimo individuo che mi ha chiesto 2 euro, intimorito non mi sono messo a fare troppe storie, vista: la mole, la barba, la faccia e il suo giubbotto di pelle in  agosto. L' ho ritrovato pochi metri dopo che si comprava un tenerissimo gelato pingviini mentre mi sorrideva e mi salutava ringraziandomi.
Pingviini il gelato più servito nei peggiori chioschi di Turku

IRLANDA
Il non molto cagato campionato irlandese è stato vinto dal St Patrick's Athletic: è il titolo numero 9 per i Saints e arriva dopo 11 anni di attesa. Segue il Dundalk che si avvicina ma non riesce a riportare quel titolo che in bacheca manca dal 1995. In coppa trionfa ai supplementari lo Sligo Rovers (3 a 2 sul Drogheda). E? Una vittoria che vale il doppio per i tifosi dello Sligo perchè i biancorossi sono una cooperativa in mano ai cittadini di Sligo. Retrocede la seconda società per numero di titoli, lo Shelbourne. Coppa di lega allo Shamrock che batte, indovinate chi? Il Drogheda.
LO SAPEVATE CHE - Nella seconda serie irlandese gioca il Derry City. Il club è situato ovviamente a Derry o Londonderry (per non scontentare nessuno) che fa parte però dell'Irlanda del Nord.
Derry al confine con l'Irlanda è una città a maggioranza nazionalista e per motivi di sicurezza nel 1971, durante il conflitto nordirlandese, su pressione delle altre società che non gradivano il clima ostile del Brandywell stadium, la squadra fu costretta a giocare le proprie partite casalinghe a 50 km dal proprio impianto. I match vennero quindi disputati nella città a maggioranza unionista di Coleraine. L'anno seguente, vista l'impossibilità di tornare a giocare nel proprio campo, il Derry City decise di ritirarsi del campionato. Per anni la squadra disputò solo i campionati juniores, fino a metà degli anni 80 quando chiese alla lega irlandese e alla uefa di poter partecipare alla first division irlandese. Fece il suo esordio nella seconda serie del campionato irlandese nel 1985. L'anno seguente venne promosso come primo classificato e due anni dopo vinse: Campionato, coppa nazionale e coppa di lega, unico treble nella storia del calcio irlandese. Il Derry City ha vinto un campionato nordirlandese e due campionati irlandesi.
"Benny the bull" mascotte dello Sligo Rovers, esce dal carcere dopo quella brutta storia di droga

ISLANDA
Ancora KR Reykjavík. Titolo numero 26 per la squadra della capitale. Si ferma a 5 punti di distanza la squadra detentrice, l'FK  Hafnarfjörður che detiene comunque il record di club calcistico più impronunciabile d'Europa. Retrocede malamente lo ÍA (al secolo Íþróttabandalag Akraness), unico 11 nella storia del calcio Islandese ad essere approdato ad un ottavo di una coppa europea, la coppa campioni 75/76 (in quel turno fu polverizzato dalla Dinamo Kiev, in quello precedente aveva superato l'Omonia). Lo ÍA sfiorò l'impresa anche nell'edizione 93/94, battendo davanti al proprio pubblico il Feyenoord per 1 a 0; il ritorno di quei sedicesimi finì però 3 a 0 per la squadra olandese. La coppa nazionale va al Fram Reykjavík (cosa che non accadeva dal 1989) che supera ai rigori lo Stjarnan dopo un pirotecnico 3 a 3.
LO SAPEVATE CHE - Tutti conoscete lo Stjarnan, visto e rivisto su youtube è quel club che festeggia i propri gol in maniera minchiona. La squadra non ha mai vinto nulla a livello nazionale, ma nonostante la finale persa contro il Fram, la compagine di Garðabær parteciperà comunque all'Europa League, in virtù del terzo posto ottenuto in campionato.
Lo Hákarl è un piatto islandese a base di squalo fermentato. A giudicare dalla descrizione dovrebbe emettere lo stesso odore di un cesso pubblico di Termini con lo scarico rotto a fine giornata. Singolare che uno come Gordon Ramsay lo abbia vomitato, dopo aver bevuto un liquore al serpente laotiano e un pisello di bue. Potete prepararlo anche a casa, vi serve solo uno squalo elefante privato della testa, della sabbia ciottolosa dove infilarlo e delle pietre per pressarlo (e far così uscire tutti i suoi fluidi). Dopo 12 settimane lo togliete dalla buca, lo fate a pezzi e lo lasciate essiccare per qualche mese. Per ingannare il tempo potete ascoltarvi a ripetizione la delicatissima Ormuri langi.
lo ÍA del 1977 (almeno credo)

KAZAKISTAN
Stavo per fare il vago, stavo per saltare allegramente il campionato kazako. Poi mi sono ricordato dello Shakhter Karagandy. Lo Şaxter Fwtbol Klwbı (o Shakhter Karagandy) dopo aver vinto lo scorso campionato (parliamo ovviamente dell'edizione 2012) ha disputato la scorsa estate i preliminari della Champions League. Dopo aver superato agevolmente i turni contro Bate Borisov e Skanderbreu, i Kazaki si sono ritrovati ad affrontare il Celtic a un solo turno dai gironi di Champions. Prima della partita di andata (disputata ad Astana) è stata sacrificata una pecora. Lo Shakhter ha battuto il Celtic per 2 reti a 0. L'UEFA però ha imposto ai kazaki di non ripetere il rituale nella gara di ritorno, minacciando pesanti sanzioni. Il Celtic ha vinto il ritorno per 3 a 0. Ora, sono certo che quella pecora non era destinata ad una fine migliore, probabilmente avrebbe terminato i suo giorni a forma di arrosticino (tutti noi sappiamo che il Kazakistan è un piccolo Abruzzo), perché tutte queste storie? Mi pare chiaro che questa Champions è palesemente falsata dalle folli decisioni di Platini.
Vince il campionato l'Aktobe. Finale da infarto con l'Aktobe in cerca di semplice pareggio contro  l'Ordabasy, squadra fanalino di coda del Championship round, che va sul 1 a 2 a soli 3 minuti dalla fine costringendo così l'Aktobe a un massacrante spareggio per il titolo contro l'Astana. In pieno recupero però la squadra di casa trova il 2 a 2 finale con una prodezza del 18enne Abat Aimbetov che regala ai biancorossi il quinto titolo della storia. Lo Shakhter Karagandy si consola vincendo la coppa nazionale (per la prima volta) in finale contro il Taraz.
LO SAPEVATE CHE - La casa presa in affitto a Casalpalocco da Rudi Garcia è la stessa dove, la notte del 29 maggio scorso, la signora Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, è stata prelevata (insieme alla figlia) con molto garbo dalle nostre autorità per essere rimpatriata in Kazakistan.
Un po' tutti sognamo di andare in Kazakistan, ma il sito viaggiaresicuri vi consiglia di evitare la zona di Stepnogorsk, visto che nelle sue vicinanze venivano stoccati a cielo aperto rifiuti radioattivi. Durante la stagione calda è probabile che si alzi polvere radioattiva in un raggio di almeno 15 Km. Per farvela breve, se andate da quelle parti, rischiate di campare meno di una mongolfiera nei cieli di Minsk (o di una pecora a Karagandy).
La pecora giustiziata dallo Shakhter Karagandy. Ciao piccola! Ora vai e insegna agli angeli a belare.

LETTONIA
Ma che noia! Ma che palle! Non solo perché il  Ventspils vince campionato e coppa ma anche perché non riesco a trovare nessuna curiosità sulla Lettonia. Noiosi! Nessuna dittatura, nessun alimento vietato, nessun animale macellato, niente polveri radioattive, nessun piatto al sapore di urina rafferma, il nulla. Diventa difficile scrivere. Si ok, c'è il caso del Metalurgs Liepāja, che nella sua storia ha perso 8 finali di coppa su 9, però è anche la squadra che nel 2005 dopo 12 anni ha messo fine al dominio dello Skonto in campionato. Non ha il fascino dello sfigato in stile Qormi. Per il resto, sono lieto di informare i sostenitori laziali che Daniel Ola sta terminando la sua gloriosa carriera proprio nel campionato Lettone (nel Daugava). Retrocede l'Ilūkstes Novada, con solo 12 punti all'attivo e ben 93 reti al passivo. Hanno salutato la massima serie perdendo in casa 10 a 2 contro il già citato Metalurgs. EROI.
LO SAPEVATE CHE - Pochi calciatori sono più brutti di Aleksandrs Koļinko (portiere della nazionale lettone in Portogallo nel 2004). Credo sia fatto di pongo, una caricatura che ha preso vita.
AHHHH!leksandrs Koļinko

LITUANIA
Storia simile alla Lettonia anche in Lituania. La stessa squadra si porta a casa campionato e coppa ma dietro i biancoverdi dello Žalgiris Vilnius c'è un bella storia. Cinque anni fa la squadra fallisce. A farla ripartire ci pensa una cordata di tifosi: dopo un inizio tragico senza strutture, arrivano nuovi soci e dopo un solo lustro la squadra della capitale torna a trionfare. In fondo non è neanche una bella storia, no infatti, che 2 palle anche in Lituania. Nerijus Valskis vince la classifica cannonieri con 27 centri. In questa finestra di mercato è stato acquistato dall'Universitea Craiova (serie B rumena). Ultimo il Tauras, che a differenza dei vicini lettoni dell'Ilūkstes, subisce solo 92 gol.
LO SAPEVATE CHE - Il lituano Zydrunas Savickas ha stabilito un nuovo Record da Guinness nella categoria: "Maggior numero di auto trainate da un uomo". Il piccolo Zydrunas ha portato a spasso per 5 metri 12 macchine. Detiene anche i record di "Ernia più grande del mondo" e "Record più idiota del secolo".
La Lituania ha una grande tradizione di canti popolari, tuttavia questi canti non valgono un cazzo messi al confronto di Ormurin langi.

Zydrunas e un pupazzo. Il pupazzo è quello a destra.
NORVEGIA
Era il 1970, l'anno in cui Italia si cantava con i Ricchi e Poveri "La prima cosa bella". La nazionale dopo qualche mese sarebbe andata alla finale del mondiale, battendo 4 a 3 la Germania. E' il 1970 e a dicembre fallisce il golpe Borghese, è il 1970 e in Bielorussia ancora è possibile mangiare funghi e volare in mongolfiera. E' il 1970 e in Islanda si mangia squalo marcio mentre nelle Far Oer si balla e si canta sulle note della splendida Ormurin langi. E' il 1970 e per la prima volta nella sua storia lo Strømsgodset vince per la prima volta il campionato norvegese. Nel novembre 2013, 43 anni dopo, di golpe ne hanno piazzati due di seguito e senza il bisogno della forestale, i Ricchi e Poveri ancora ci tritano le palle con "La prima cosa bella" (ma senza più la biondina e dando più spazio al grande "Baffo" Franco), in Islanda si abbuffano ancora di squalo rancido e nelle Far Oer si balla e si canta sulle note della sempre più incantevole Ormurin langi, in tutto questo lo Strømsgodset diventa campione di Norvegia per la seconda volta nella sua storia. La squadra di Drammen vince la Tippeligaen con un solo punticino di vantaggio sul solito Rosenborg. Nell'ultima partita, lo Strømsgodset batte 4 a 0 l'Haugesund, regalando così ai suoi calmissimi tifosi la seconda gioia della loro vita. Effettivamente dalle immagini non sembra (invasione finale a parte) il clima tipico di una squadra che rivince il campionato dopo più di 40 anni, ma in fondo son pur sempre norvegesi. Protagonista assoluto l'attaccante nato a Oslo (di padre sierraleonese) Ola Kamara. In coppa  vince il Molde (4 a 2 sul Rosenborg) di Ole Gunnar Solskjær che ora siede sulla panchina del Cardiff. Purtroppo saluta la massima serie il caldissimo Tromso, però ritorna lo Stabaek che sarà allenato dal papà di Bradley.
LO SAPEVATE CHE -  Il norvegese Thor Bjørklund ha inventato l' Ostehøve o "Cheese slicers": di professione carpentiere ebbe l'intuizione di costruire una pialla per il formaggio. Mi piace il pialla formaggio e mi  piaceva anche Bjorklund  del Vicenza, lui però era svedese.
Non so se vi ho già parlato di Ormurin langi. E' una meravigliosa canzone popolare fareorense che narra le gesta del re norvegese Olaf Trygvason durante la battaglia Svolder.
I campioni di Norvegia
SVEZIA
Tutto secondo copione in Svezia. Campionato al Malmö che conquista così il suo 17esimo titolo e si avvicina al Goteborg (18 campionati vinti). Il Malmö vince con un turno d'anticipo il campionato battendo fuori casa 2 a 0  l'Elfsborg. Da segnalare il gran bel tifo. In coppa invece trionfa il Goteborg che supera ai rigori il Djurgårdens . Noto con sommo dispiacere che l'Hammarby si ritrova in seconda serie. In questa stagione per i biancoverdi ha giocato tale Adis  Hušidić, conosciuto come "Baggio" in onore del divin codino.
LO SAPEVATE CHE - Tomas Brolin è un giocatore professionista di Texas Hold'em. Possiede (o possedeva) un ristorante italo-svedese di nome 11 e a giudicare dalle dimensioni raggiunte, lo ha testato varie volte prima di comprarlo. Non dico che sia grasso, però la sua chiappa sinistra confina con la Finlandia.
Klas Ingesson, uno dei miei centrocampisti preferiti della storia, ha sconfitto tutti i suoi mali e oggi allena l'Elfsborg.
Zwolle MERDA! Anche a gennaio.
Un'immagine tratta dal film "Blob - Il fluido che uccide"


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lunedì 20 gennaio 2014

INNAMORARSI DI MARINELLI

Da quando una figurina di Junior e un gol di Pusceddu contro l’Inter mi catapultarono nel mondo del tifo granata, ho avuto tanti innamoramenti calcistici, alcuni motivati, altri decisamente folli e irrazionali, di quelli che racconti col sorriso sulle labbra agli amici, anche se, in realtà, sei molto serio. Sei molto serio perché pensi realmente che Artistico fosse, potenzialmente, un attaccante fortissimo, seppur in grado di farsi sbattere fuori dall’arbitro mezzo minuto dopo un gol decisivo. Sei molto serio perché credi che Claudio Bonomi, con la sua zazzera al vento, se solo ne avesse avuto voglia, avrebbe replicato all’infinito la tripletta contro il Cagliari (un gol meglio dell’altro), invece di finire all’Empoli o alla Florentia Viola. Soprattutto, però, sei molto serio perché sei certo che Carlos Arturo Marinelli sia stato il più grande genio incompreso del calcio mondiale.

La reazione di Marinelli alla pubblicazione di questo post
Comincia tutto una sera del gennaio 2003, ultime ore del mercato di riparazione. Il Toro di Ulivieri è con tre zampe e mezza nel baratro, uno dei rinforzi è, dopo una delle operazioni più inspiegabili di sempre, l’ormai anziano Francesco Statuto, che in granata non giocherà nemmeno un secondo (“Lo ricordavo nella Roma con Giannini” le parole del patron Cimminelli il giorno della sua presentazione. Peccato che ci avesse giocato insieme quasi dieci anni prima). Sto aspettando, col mio “Fratello di tifo” Stefano, qualche nome in extremis per sperare nell’impossibile, fra un Televideo parco di notizie e un web ancora troppo lento per la nostra fame di acquisti. Poi, all’improvviso, un laconico comunicato: Carlos Marinelli al Toro. Non sappiamo chi diavolo sia, ma ci buttiamo a capofitto nella rete e scopriamo che è argentino, ha tatuato il Pibe de Oro sull’avambraccio, arriva dal Middlesbrough, ha 21 anni e Gascoigne afferma che l’unico motivo per cui si reca a Riverside è proprio per vederlo giocare. Non serve sapere oltre: in una stagione oscura, abbiamo trovato la speranza a cui aggrapparci disperatamente. Il fatto di non averlo mai visto giocare passa in secondo piano.

L’esordio avviene all’Olimpico contro la Lazio, terza di ritorno. Simeone ci ha appena ricordato, purgandoci come all’andata, che sarebbe l’archetipo del giocatore da Toro, se solo avessimo i soldi per permettercelo. A inizio ripresa, Ulivieri toglie lo spento Sommese e fa entrare Marinelli: alto, biondino, espressione indolente. “Entra Maradona” è la voce che arriva dalle retrovie del Torino Club Rivoli, ma lo scherno è solo apparente, quasi a nascondere una febbrile curiosità. Arriva il primo pallone: lo sbaglia e penso subito che, forse, “Gazza” era andato a vedere giocare Marinelli dopo una serata al pub con Jimmy Cinquepance. Poi arrivano il secondo e il terzo: non li sbaglia più. Iniziamo a esaltarci, perché, quando sei abituato a gente che dà del voi al pallone, già tre passaggi di fila commuovono, figuriamoci finte, dribbling e lanci. Al 71’ Carlos calibra un sinistro perfetto per la testa di Ferrante che pareggia. Non è tutto: la Lazio rimane in dieci e, nel recupero, il nostro nuovo beniamino si procura il match point, ingannando Stam con una finta (ripeto: Stam), ma Peruzzi para alla grande il suo sinistro, stoppando il nostro delirio. La zona salvezza dista nove punti, ma non importa: la domenica successiva giocheremo proprio contro il Modena quintultimo e con un giocatore così abbiamo il dovere di crederci, nonostante l’ultima piazza.

Peccato che, per la partita della vita, Ulivieri punti ancora, cocciutamente, su Magallanes, il mix fra Meroni, Best e Gento (cit. il presidente Tilli Romero, verosimilmente dopo un paio di aperitivi di troppo), uno dalla zazzera improponibile, uno che ha anche fatto parte, non si sa come, del Real Madrid. In un “Delle Alpi” in versione freezer, dopo una prima frazione orrenda, finalmente il numero diciannove esordisce davanti alla “Maratona”. Al 58’ Milanetto, su assist di Scoponi, ci fa piombare nell’incubo, ma, 7’ dopo, ci pensa ancora una volta Carlos. Palla ai venti metri, finta a portar via un avversario, sembra scivolare, poi riprende l’equilibrio e manda a spasso un secondo difensore, dribbling su un terzo e assist per Vergassola che pareggia con un pregevole pallonetto. Più che un assist, in realtà, una vera carezza al pallone col sinistro. La curva che alza il volume sulla danza del gaucho è uno dei pochissimi momenti d’oro dell’annata, peccato che rimanga fine a se stesso, anche perché il possibile gol vittoria di Omolade si ferma sulle terga di Ballotta. Tornando a casa dovrei essere devastato per una retrocessione a cui manca soltanto più il supporto della matematica, ma rivivo mentalmente quel numero di Marinelli e ne godo. Come un innamorato. E come un innamorato penso che se Ulivieri lo avesse messo dall’inizio, starei godendo anche per tre punti d’oro.
 
Il giorno in cui gli fu preferito Magallanes dal 1'
La situazione precipita ulteriormente: 0-3 interno contro il Milan, invasione e squalifica del campo fino alla fine della stagione. Ci sarebbe ancora il derby di ritorno, a Torino perchè, secondo il calendario, il turno interno spetta alla Juventus. Non si gioca per la salvezza, ma per l’onore. E, in una stagione ricca di abulia e prestazione vergognose, il Toro, che da Ulivieri è passato alla coppia Zaccarelli-Ferri, almeno ci mette l’orgoglio. Va sotto subito, ma non si arrende, picchia e, a sprazzi, gioca quasi bene. In una gara fortemente nervosa, Marinelli è il condottiero, soprattutto nella prima frazione: il repertorio di dribbling e passaggi illuminanti mette in crisi la difesa bianconera, specialmente verso la fine del tempo, quando rientra da sinistra e sfiora il palo col destro, con una giocata sontuosa. Poi, nella ripresa, col Toro già nove contro dieci, Marinelli mette una mano sulla spalla all’arbitro De Santis per chiedere spiegazioni: espulsione incredibile. Il numero diciannove esce scuotendo il capo e ridendo amaro, non vedrà Fattori sbagliare il più assurdo dei pareggi, non vedrà più il campo, non vedrà più la serie A italiana.
La società vorrebbe rifondare la squadra puntando proprio su di lui e sul rientrante Pinga, una coppia tutta estro per una pronta riscossa fra i cadetti. Carlos, forse consigliato male, inizia a giocare inspiegabilmente al rialzo e sfuma tutto: un duro colpo per chi, come me, lo immaginava insegnare il Verbo per impreziosire i campi più periferici del calcio italiano. E’ solo la prima delle tante assurde trattative di quella stagione (a gennaio, per esempio, ci sarà la perla di Smeets che, raggiunto l’accordo col Toro al mattino, il pomeriggio tenterà un giochino al rialzo col risultato di essere sbattuto fuori dalla sede in malo modo da uno Zaccarelli giustamente insensibile alle successive richieste di perdono del belga), ma è quella che mi farà più male. Incredibile che, dopo sei mesi scarsi, uno con quei colpi lasci la nostra maglia per sempre.

Invece, il 2 gennaio del 2005, vengo svegliato da un messaggio del mio amico Stefano, il cui testo è un laconico “leggi La Stampa”. Apro avidamente il giornale sapendo già dove andare e mi accoglie il titolo: “Riecco Marinelli: con Pinga una coppia da sogno”. Carlos torna a casa, in un Toro che viaggia a vele spiegate verso la massima serie. Sembra che paghi addirittura una penale per svincolarsi dal Racing e rivestire il granata. Per qualcuno è l’iniziativa disperata di un giocatore che stava sparendo prematuramente dal calcio che conta, per me è un segno di amore per i nostri colori: addirittura paga per giocare da noi, mio Dio, IO pagherei per giocare con quella maglia un minuto solo. In attesa del transfer, contro la Ternana fa passerella sotto la curva, accolto come un Dio.
 
Un momento di grande allegria durante la sua seconda venuta
Il benedetto transfer arriva prima di Verona-Toro, gara delicatissima che arriva dopo due sconfitte consecutive. Marinelli, stavolta col numero diciotto, inizia in panchina, come contro la Lazio due anni prima. Dominiamo, Franco Ramallo cicca clamorosamente un pallone a due passi dal portiere (praticamente ci si siede sopra), sbagliamo un rigore e alla prima occasione segna Behrami per loro. A inizio ripresa è il momento del mio idolo: gli lascia il posto lo sciagurato Franco e, mentre sogno che il suo secondo esordio italiano ricalchi quello dell’Olimpico, lui decide di rivivere la sua ultima emozione italiana, cioè un’espulsione, stavolta sacrosanta. Gomitata a Guarente, Toro in dieci e raddoppio gialloblù di Cossu 1’ dopo. Bei momenti.

Marinelli rientra contro il Bari, sostituendo Sasà Bruno a una manciata di minuti dal termine, col Toro sul 2-0. Serata da tregenda, ma, come contro il Modena un paio di anni prima, un doppio passo fantastico e una verticalizzazione di sinistro scaldano la curva, felice di riabbracciarlo. Chi sogna la coppia con Pinga, però, è deluso: per l’argentino, all’inizio, ci sono solo spezzoni dove incide pochissimo. La prima da titolare arriva contro il Cesena, ma è ancora pieno di ruggine nel match che ci vede prendere gol da Ciaramitaro (che ci segnerà anche, anni dopo, con la maglia del Modena. Forse siamo l’unica squadra a esserci fatti segnare due volte con due maglie diverse dal “Ciara”). Col Pescara, però, è un’altra storia: Ezio Rossi prova il trio Maniero-Marazzina-Marinelli e dopo 18’ la partita è in ghiaccio. Segnano tutti e tre, con Carlos che fa il 3-0 con un rigore, tirato maluccio. Il suo primo e unico gol italiano è esteticamente dimenticabile, all’interno di una prestazione personale convincente. Come un titolista senza idee, mando sms agli amici scrivendo “Ma-Ma-Ma: il Toro va”.
Purtroppo le seguenti partite di “Mari” non confermano la gara contro gli abruzzesi e, che sia da solo o, più di rado, con Pinga, le quotazioni calano per poi precipitare vicino allo zero con l’arrivo in panchina di Zaccarelli per le ultime due partite più coda playoff. L’ultima immagine dal vivo che ho di Marinelli è negli istanti finali della grottesca finale contro il Perugia, quando giocavamo, a nostra insaputa, uno spareggio per non retrocedere invece della gara decisiva per la promozione. Carlos è in canotta, rigorosamente senza maniche, ai bordi del campo che incita la folla con commovente tamarria. Ai margini, ma felice. Perché ci vuole bene.

Neanche una settimana e il Toro piomba nell’incubo del fallimento, che, quando diventa realtà, vede soltanto tre granata credere nel salto nel buio, mentre inizia il fuggi fuggi generale e la cosiddetta bandiera Balzaretti si accasa sull’altra sponda del Po. Gli eroi sono Fontana, Vailatti e Marinelli. Sono i giorni dei Lodisti, del braccio di ferro Cairo-Giovannone, degli allenamenti senza palloni, di Carlo Nervo che prima accetta e poi, visto il futuro nebuloso, va al Catanzaro. Sono i giorni in cui Marinelli non può essere tesserato, perché, nel frattempo, il suo geniale procuratore gli aveva fatto firmare un contratto con una società dilettantistica argentina. Bisogna aspettare gennaio per tesserarlo. Gennaio arriverà, ma tra le sei facce nuove acquistate da Cairo nel mercato di riparazione, di lui non c’è nemmeno l’ombra. Stavolta è finita davvero.
Ecco Marinelli con la maglia del Chels...ah, no, scusate.
Il resto della carriera marinelliana è un deprimente girovagare: Sporting Braga, Kansas City (!), Millionarios Bogotà, gli argentini dell’Aldosivi, gli ungheresi del Gyor (che furono avversari del Toro nella cavalcata Uefa ‘86/’87 col nome Raba Eto Gyor) e, infine, i peruviani dell’Universidad San Martin, con Wikipedia che, alla voce “Presenze e reti”, mette mestamente un punto interrogativo per entrambe. Come possano piedi così perfetti essere relegati, con scarso successo, all’estrema periferia del calcio è un mistero a cui non ho risposta: un mix letale di sfortuna, carattere difficile, consigli sbagliati, testa matta. Vorrei avere risposte, ma so solo che, quando il Toro vorrebbe far “frullare” (Ventura dixit) il pallone, preferirei che il pallone passasse dai suoi piedi e non da quelli dei pur bravi Vives e Basha, mentre in bocca continua a rimanere l’amaro sapore dell’occasione mancata.

venerdì 17 gennaio 2014

Guida galattica allo US Soccer #11

 
The Beach Boys

Nella prima metà del Novecento i sobborghi di Los Angeles sono per lo più abitati da operai dell'industria ferroviaria. Nonostante il consistente flusso migratorio, la popolazione bianca rimane maggioritaria rispetto ad altre etnie. Nel corso della Seconda Guerra Mondiale, tuttavia, il rapporto cambia radicalmente. Da un lato, infatti, ha luogo la cosidetta Seconda Grande Migrazione, che vede protagonista la popolazione afro-americana degli Stati del Sud, e dall'altro, speciali accordi tra il governo americano e quello messicano portano alla migrazione dei braceros, lavoranti temporanei legati all'industria bellica.
 
Il flusso continua nei decenni successivi, allontanando i bianchi dai centri urbani a sud di Los Angeles. Complice il concomitante spegnersi della produzione industriale, nella zona si creano importanti sacche di povertà e discriminazione nei confronti degli afro-americani e delle altre etnie immigrate. La necessità di servizi e condizioni di vita dignitose porta queste popolazioni alla rivolta, ai cosidetti Watts Riots.
 
Carson, sobborgo tredici chilometri a sud della Città degli Angeli lungo la Harbor Freeway, è sicuramente una delle città più multietnche della California, così come la sua Università, la California State University Dominguez Hills, nata negli Sessanta in risposta ai Watts Riots.
 
A Carson sono nati Forest Whitaker e Dr. Dre.
A Carson credo ci sia poco o nulla da fare. La si può usare come base per un pellegrinaggio ad Hawthorne, al Beach Boys Historic Landmark. Oppure si può visitare l'Home Depot Centre, il complesso sportivo dove gioca il Club Deportivo Chivas U.S.A..
 
* * *
 
 
I Chivas U.S.A. nascono nel 2004 per assicurare alla Major League Soccer il pubblico latino-americano, ormai maggioranza nella California del Sud.

Il loro proprietario, Jorge Vergara, ha una storia interessante.
Da giovane Vergara vende tacos per strada a Guadalajara. Qualche anno sbarcando il lunario e poi, negli Anni Ottanta, il salto nell'immobiliare, come agente per condomini e multi-proprietà, a Manzanillo. In questo periodo incontra un distributore di prodotti Herbalife, John Peterson, e grazie a questi diventa rappresentante per l'Herbalife in Messico. Al tempo, i prodotti Herbalife (ad esempio, shakes e barrette per il controllo del peso) non erano approvati dal governo messicano e venivano distrubuiti porta a porta. Solo nella seconda metà degli Ottanta inizia il processo di autorizzazione dei prodotti. A fare da intermediario tra la Herbalife di Mark Hughes e il governo messicano è proprio Vergara, che inizia così la sua ascesa. Qualche tempo più tardi - è il 1989 - assieme a due partner americani fonda Omnititrion, replicando il modello Herbalife. In altre parole, #GranSoldi.
Ovviamente, Jorge Vergara è proprietario anche del Club Deportivo Guadalajara.

* * *

ChivaFighter, la mascot ufficiale dei Chivas (qui in dolce compagnia)
I Chivas non hanno mai vinto la Major League Soccer e nemmeno la US Open Cup. La scorsa stagione hanno chiuso in ultima posizione a Ovest e in penultima nella classifica generale (solamente il DC United è riuscito a fare peggio). Tra le file della squadra californiana hanno giocato Francisco Palencia (80 caps con la nazionale messicana), Mauro Rosales (passato anche dall'Ajax) e Sacha Kljestan (ora all'Anderlecht). Nel 2005-2006 Head Coach della squadra di Carson è stato Bob Bradley, padre di Michael Bradley.

Qui il link alla pagina dedicata alle Chicagirls - imperdibili, come sempre, le mini-interviste nei profili delle ragazze. Il voto del sottoscritto è per Cynthia, da South Gate, ariete.

* * *

#mortaio
Veniamo al dunque.

In città Rosario's è rinomato per la pizza. Back Home in Lahaina per la cucina hawaiana.

Il top però dovrebbe raggiungerlo El Pescador con il suo "Molcajete". Un mortaio pieno zeppo di beef, chicken, shrimps, chorizo, cheese e cactus. Il tutto accompained with hot sauce. Il menu online del locale (che vi consiglio di sfogliare) precisa che ci si mangia in due.
Se la cucina messicana non è di vostro gradimento potete sempre ripiegare su The Big Burger, sul Double Bacon di Five Guys Burgers o sul Double Jumbo di Dave's Burgers a Long Beach.
 

martedì 14 gennaio 2014

La maledizione del Rocco


-Dio no xe furlan, se no'l paga ogi el paga doman-


A Tommaso,
che con il suo battesimo
mi ha fatto perdere la trasferta di Lucca
e che da quando va al Rocco
non ne ha vista una giusta
 
“parlerò a fine stagione”

 

La storia del calcio è piena zeppa di iatture, sortilegi e maledizioni. Abbiamo già letto la storia della “maledizione di Guttman”, conosciamo a menadito la storia della “fatal Verona” (per il Milan) o le tragedie sportive di Perugia (per la Juve) e del 5 maggio (per l’Inter), delle due finali mondiali perse dall’Arancia meccanica o dell’incredibile serie negativa della Germania contro l’ltalia. Ci sono poi arbitri, allenatori, avversari che sembrano rebus irrisolvibili, condizioni psicologiche, mistiche, metafisiche che riscrivono la storia del giuoco del pallone, senza una sequenza logica. In fin dei conti sono anche queste “psicosi collettive” che rendono un campo d’erba e 22 ebeti che corrono dietro ad un pallone lo sport più bello e popolare del mondo. Ma esiste una maledizione che supera qualsiasi immaginazione: mai una squadra ha la sua maledizione nello stadio in cui gioca le partite casalinghe. Mai una squadra ha avuto la sua maledizione in casa. Mai, fino al 1992. È la “maledizione del Rocco”.

Tutto comincia con un Triestina - Sambenedettese. I padroni di casa sono in piena corsa per la promozione dalla serie C1 e si impongono con un perentorio 3-0. Sembra l’inizio di un cammino che porterà la squadra alla promozione ma, soprattutto è il commiato dal mitico Stadio Grezar, già del Littorio, già Comunale di Valmaura.
Dopo una lunghissima trafila burocratica e con una spesa perentoria e puntuale (due anni dopo i mondiali di Italia ’90, sempre sul pezzo gli amministratori di Piazza Unità, già all’epoca!) di 80 miliardi, l’amministrazione comunale e gli organi competenti danno il benestare al primo incontro al nuovissimo Stadio Nereo Rocco, sorto alle spalle del Grezar. Uno “stadio da sogno” come viene descritto dal volume stampato dal Comune.

Il 18 ottobre 1992 l’ingresso è gratuito e la città accorre in massa. Ogni seggiolino è pieno. Gli Ultras Trieste si accomodano nella “Curva Furlan”, all’opposto della “Curva nord” del Grezar: in questo modo eviteranno le sferzanti raffiche di bora negli anni a seguire, lasciando volentieri questa gioia ai tifosi avversari. Il giorno prima sulla città si era abbattuto un terribile nubifragio che aveva messo in dubbio la partita. Un segno. Un avvertimento.
La partita è una festa. I tifosi ospiti, della Vis Pesaro, si presentano con delle simpatiche magliette in cui hanno fatto stampare una cravatta e con uno striscione sui cui si legge “Grazie per l’invito”. Anche loro sanno di essere semplicemente ospiti di una straordinaria orgia alabardata. La Triestina domina. Colleziona 16 calcio d’angolo (a 0…). L’arbitro nega due rigori abbastanza evidenti. I pesaresi non fanno troppa resistenza, ma la loro porta sembra stregata. In soldoni: un tiro in porta della Vis e vittoria per 1-0. Qualcuno, camminando su piazzale Valmaura, cercando la fermata della 10 per tornare in città, già borbotta: “No xe che sto stadio porta sfiga?”. Un visionario malinconico o il solito pessimista cosmico?

Per dare una prima risposta bisogna fare un passo indietro di quarantasei anni. Stagione 1946-47: Trieste è occupata da americani e inglesi, che governano la città. Il Governo Militare Alleato vieta alla Triestina di giocare le partite in casa e l’alabarda chiede ospitalità e la ottiene al Moretti di Udine. Ma la stagione senza partite casalinghe si conclude in maniera disastrosa con l’ultimo posto nella Serie A. La federazione decide però di riammettere la Triestina nella massima serie, anche per questioni politiche. Il presidente Leo Brunner decide di affidare la squadra ad un giovane Nereo Rocco che, riabbracciato lo stadio comunale di Valmaura, chiude la porta in casa e non perde una partita. Arriverà uno storico secondo posto, con 49 punti. Il pragmatico Rocco siederà sulla panchina della squadra cittadina per altre due stagioni cogliendo degli ottimi risultati. Ma alla vigilia della stagione 1950-51 un battibecco tra Rocco e la dirigenza, certamente non privo di qualche sonora imprecazione blasfema…, pone fine all’esperienza del “mulo” che torna a lavorare nella macelleria del padre. Brunner chiama sulla panchina uno dei personaggi più emblematici della storia del calcio, il magiaro Béla Guttmann. Quello della “maledizione” di cui sopra. Che sia questa sovrapposizione di blasfemia, rancori, nomi, ricorrenze, a dare il via a quella maledizione che colpirà l’alabarda quarantuno anni dopo?

Ma torniamo con il racconto al 1992: la stagione si concluderà con più bassi che alti e la squadra mancherà la promozione chiudendo al quarto posto. L’anno successivo, nonostante il contentino di una Coppa Italia di serie C, vinta proprio al Rocco, contro il Perugia, la società fallisce e chiude baracca e burattini.

L’Alabarda riparte dalla serie D. La squadra è subito competitiva ma deve scontrarsi con il super Treviso, che promozione dopo promozione arriverà direttamente in serie B. Lo scontro diretto decisivo si gioca proprio al Rocco, gnianche dir! Accorre un pubblico eccezionale per un’interregionale. E gnianche dir!, finisce 1-2, con il Treviso che porta a casa il break decisivo e conquista il primo posto. La Triestina, seconda, verrà comunque ripescata per meriti sportivi e approda in C2.
Seguiranno alcune stagioni interlocutorie, con la squadra che manca sempre la promozione alla terza serie, perdendo anche quattro playoff (e incontrerà in ben due occasioni la Vis Pesaro, quella del 18 ottobre, oltre agli arcirivali del Livorno e ad un famigerato ex, Sandrin che la condannerà nella finale di Mantova). Sembra solo qualche anno sfortunato ma non è nulla rispetto a quanto succederà negli anni successivi, prima con il trionfo e successivamente con le disgrazie. Tra i ricordi di culto di quegli anni il pugno sferrato da un tifoso al portiere livornese Boccafogli (“un caloroso saluto”, cit.), con arbitro e polizia presi da una sorta di trance emotiva, incapaci di reagire. Una scena surreale e tragicomica. L’eroe di quegli anni è invece il “nasutoEnzoGambaro, che dopo una lunga carriera in Serie A e due esperienze all’estero, al Grimsby Town e allo Sturm Graz, sverna per una stagione a Trieste dove colleziona 28 prestazioni al limite dell’imbarazzante. Tutt’ora la definizione di “ciodo” (trad. chiodo) è quella che lo accompagna nei ricordi dei tifosi.

Enzo Gambaro. Il più amato.

Nella stagione 2000-2001 il piemontese Amilcare Berti diventa presidente della società. Cipiglio da sceriffo, sguardo truce, modi poco affabili, finissima intelligenza e sapienza da cinico stratega consumato. Il suo lavoro è quello di “salvatore”: compra aziende decotte, sull’orlo del fallimento, le ristruttura, le fa rinascere e poi le rivende al miglior offerente. Sceglie un allenatore che è il suo opposto, taciturno e serafico ma ambizioso e carismatico, Ezio Rossi. Il binomio porta la Triestina a due storiche promozioni consecutive: in città è l’orgasmo. Piccolo particolare: quel gruppo di giocatori passeranno alla storia come “Eroi di Lucca”, non “Eroi del Rocco”. Le due promozioni sono conquistate, va da sé, in trasferta. Dalla C2 alla C1 a Mestre e dalla C1 all’agognata B a Lucca, dopo 120 minuti al limite dell’epica, tra espulsioni, rigori sbagliati e un protagonista che il grande calcio l’ha visto solo con il cannocchiale: il veneziano Manolo Gennari, autore del rigore decisivo nei supplementari. Per tutta Trieste diventa “Robocop”, per la freddezza con cui spiazza il portiere avversario dopo oltre 100 minuti di fatica (qualche maligno aggiunge, anche per le movenze un po’ “robotiche” e non propriamente feline). Ancora oggi, in città credo siano una decina quelli che lo ricordano con il vero nome di battesimo. Per tutti è robocopgennari. Una parola unica. Un mantra. Uno slogan. Un’invocazione. Una sogno da tramandare ai piccini.

Rimane il fatto che Berti ha sconfitto la maledizione con un’astuzia degna dei grandi conquistatori: ai playoff si arriva da quinti, garantendosi il ritorno delle finali in trasferta, lontani dal Rocco. A mali estremi estremi rimedi. Una strategia degna di Sun Tzu: «quando sei forte, fingi debolezza». «Quando vuoi la promozione, qualificati ai play off per il rotto della cuffia» è il dogma imperativo. Gli infedeli lo chiamano “culo”. Ma per gli adepti è strategia.

Ma anche al Rocco, nella gara di andata, l’Amilcare sembra un estraneo. È epica la foto che lo ritrae in silenzio mentre guarda la Curva Furlan gremita completamente rossa. Sembra quasi una sfida, un duello. Tra lui e lo stadio. Tra la vittoria e la maledizione. Sembra quasi il rivale. Invece è il padrone di casa.

In serie B la squadra vola, è campione d’inverno (e che inverno, da queste parti, con temperature gelide!). Anche il Rocco sembra amico dei colori alabardati, come quando un lunedì in notturna il campano (di Sessa Aurunca, 22.000 abitanti in provincia di Caserta) Dino Fava stende il Napoli e porta la squadra al primo posto. Poi qualcosa si rompe, piovono accuse di “partite sistemate” (nemmeno troppo velate, con Berti che chiama in causa Angelo Pagotto e le sue debolezze che lo relegheranno ad una carriera infima, nonostante un talento mostruoso) e di sfavori arbitrali fin troppo evidenti (Nucini a Napoli…). Qualcun’altro dalle parti di Valmaura la ricorda come il “diktat di Moggi”. L’Amilcare sembra abbia pestato i piedi al Lucianone nazionale, che gliel’ha fatta pagare.
 
L'Amilcare e le sue cravatte.
Ma le prove mancano e possiamo solo dire che Berti si stufa, dura ancora un paio d’anni e vende tutto all’immobiliarista, architetto honoris causa (con un passato nelle giovanili dell’Inter, a suo dire), Flaviano Tonellotto. In un film americano sarebbe definito “un fottuto pazzo”, a Trieste viene subito appellato come un “fora coi copi”. La squadra, guidata da un monumentale Denis Godeas, si salva ai playout, giocati nella sfida decisiva in trasferta, gnianche dir!, a Vicenza.

La stagione successiva si apre con un folle tourbillon di giocatori, ne finiranno sotto contratto in 41, tra arrivi, partenze, rescissioni. Tra gli altri, presenze mistiche come Dino Baggio, Massimiliano Vieri, Marcello Albino, Malik Rezgane, Juan Manuel Landaida, Simone Groppi, Leonardo Raul Villa e soprattutto Massimo Orlando, 35enne ripescato dal prepensionamento nel Tamai in serie D. Per un paio di pomeriggi la fantasia vola: è provinato il figlio di Zico, Diagao Antunes de Coimbra, ma non solo non vale un’unghia del padre, ma nemmeno un paio di mutande sporche di un Moacir Bastos Tuta e poco dopo torna in Brasile. Da Andorra arriva uno stangone di 2 metri, difensore giramondo, capocannoniere della sua nazionale (con 7 reti): Ildefonso Lima Sola. Tonellotto impone il suo impiego in attacco. Non ne vuole sentire. Quel discreto marcatore deve diventare un bomber. I risultati, nonostante l’impegno dell’andorrano, fanno sembrare la sfida “scapoli-ammogliati” del primo Fantozzi la finale di Champions League. Verrà poi schierato a centrocampo, in una sorta di centromediano metodista, e solo come scelta disperata in difesa, il suo vero e unico ruolo, con il quale scaverà una dignitosa carriera. Tonellotto entra in contrasto con il capitano Godeas, uno che non disdegna la buona mangiata e il bicchierino di vino. Secondo il presidente gli atleti devono nutrirsi con cibi macrobiotici (anche se il buon Presidente, riportano i testimoni, ha una dieta più “sostanziosa”: nella sala stampa del Friuli, quando si recava a guardare i “cugini”, mangiava qualsiasi cosa gli si presentava davanti). Il tofu diventa il piatto principale della dieta. Poco meno di uno stuzzichino rispetto ad un bel piatto di ćevapčići o di gnocchi con il gulasch, prelibatezze della Trieste multiculturale.
La gestione della società è tragicomica, gli allenatori saltano come fossero in coda al banco salumi: “chiamiamo il numero 45”. Dopo l’ennesimo licenziamento proclama: «la formazione la facciamo io, Totò De Falco (bomber storico della Triestina e allora DS) e mio cognato Vittorio Meneghin (suo cognato, appunto)». Sembra la reincarnazione in versione tuttofare presidente-allenatore della “Iena del Tavoliere” Oronzo Canà: « Mentre i cinque della difesa vanno avanti, i cinque attaccanti retrocedono e così viceversa. Allora la gente pensa: «Ma quelli che c'hanno cinque giocatori in più?» Invece no, perché mentre i cinque vanno avanti, gli altri cinque vanno indietro, e durante questa confusione generale le squadre avversario si diranno: «Ah! Ah! Che cosa sta succedendo?». E non ci capiscono niente». A Pescara la squadra vince 1-0 dopo pochi minuti: Vierchowood durante il primo tempo fa una mossa tattica per salvaguardare il risultato, Tonnellotto in panchina si avvicina è gli dice «Vierchowood, lei è licenziato, i cambi li faccio io». Finisce 5-1 per gli abruzzesi. Il suo sogno è avere un allenatore che «vada nelle discoteche e prenda per le orecchie quei puttanieri dei giocatori», parole testuali. Arriva un fisioterapista-santone argentino, tale Miguel Enrique, che dura poco più di una settimana. Le soluzioni salvifiche di T8 (il “nickname” con il quale è ormai passato alla storia) finiscono in televisione. È una specie di clown. Propone di aprire un “Triestina store” nella periferica Via Tonello al numero 8. Via Tonellotto, praticamente. Puro auto-culto della personalità. Ma all’apparenza il gioco sembra funzionare e con un gol di Minieri la Triestina sbanca Bologna e si trova in zona promozione. Piccolo particolare: in cassa non c’è un euro. Si è mangiato tutto il “barbón”. Tutti i migliori vengono svenduti o regalati. Tonellotto prova a fare cassa con la vendita di Godeas al Palermo, ma i soldi pattuiti e versati da Zamparini non passeranno mai per le casse alabardate. La farsa è finita. Tonellotto “regala” la squadra alla moglie, Jannine Koevets, che qualche anno dopo dichiara: «di solito per far colpo su una signora le si regala una Ferrari o dei gioielli. Lui invece comperò una squadra, ovviamente, contro la mia volontà». Monta la contestazione, Tonellotto sfiora l’aggressione fisica («a Trieste stanno tutti dalla mia parte», aveva dichiarato). La Triestina entra in amministrazione pre-fallimentare ed è ad un passo dal secondo fallimento. La squadra si compatta e si salva sul campo: i giocatori vanno sotto la curva e cantano con i tifosi “Tonellotto barbón”. Tutt’ora, al Rocco, campeggia su una scalinata una scritta, con una lettera per scalino in una sorta di ordine geometrico-letterario perfetto: quindici scalini, uno per lettera “TONELLOTTO MONA”, spazio compreso. Ad imperitura memoria. Con gli occhi sognanti di un tifoso, sembra un talismano per scacciare il sacrilegio.
 
Flaviano e le sue geniali trovate
La società, dopo una trattativa che vede in campo il Comune e il curatore fallimentare, passa nelle mani del rampante “prosuter” e vinicoltore friulano Stefano Fantinel. Dietro alla faccia pulita, al successo in Lega, ai “conti a posto” sbandierati, si cela una trama sulla quale la magistratura sta indagando: sottrazione di denaro, compravendite gonfiate, consulenze a società di comodo, svendita di giocatori, acquisti misteriosi (come l’emblematico Sodinha) e svalutazione della squadra, nel periodo sotto indagine sembrano addirittura 8 milioni di euro i soldi sottratti dalla casse societarie. Eclatante è la vendita di Davide Bariti al Napoli per soli 10.000 euro. E poi c’è l’apice dell’umiliazione ai tifosi, alla squadra, alla città, con quell’infame installazione dei “tifosi di cartone” con la conseguente chiusura della Gradinata intitolata al bi-campione del mondo Gino Colaussi. Una vergogna che fa il giro del mondo. Ma a fare scalpore sono le dichiarazioni di Carnelutti, vice presidente: «Trieste dovrebbe fare una statua a Stefano Fantinel». L’omaggio nei confronti dell’indimenticato (in negativo) presidente arriva un paio d’anni dopo, quando si scontrano il San Daniele, di proprietà della famiglia di vinicoltori, e la nuova Triestina. I tifosi alabardati giungono in terra friulana con centinaia di maschere con la pingue faccia di Fantinel e il naso da maiale. Superate anche le ferree disposizioni del questore competente, che riteneva i fogli di carta degli “strumenti atti ad offendere”, la curva alabardata è un tripudio di “faccioni maialosi”. Il nostro omaggio. Per la cronaca, finisce 3-0 per la Triestina. In trasferta, ovviamente.
 
I tifosi di cartone.
Sul campo, dopo un paio di anni interessanti, la squadra crolla: «el pese spuza dala testa» recita un vecchio adagio. Nel 2009-2010 arriva ai playout contro il Padova. All’andata, all’Euganeo, finisce 0-0, con una partita sotto controllo. Al ritorno basta un pari per non retrocedere. Ma la legge del Rocco non perdona: finisce 3-0 per gli ospiti che festeggiano la salvezza sul campo. La partita ancora oggi è circondata da un alone di mistero: c’è chi parla di un “aiuto” da parte del presidente patavino per accomodare qualche alabardato. I fatti raccontano di Princivalli, capitano della squadra, che dopo l’infortunio nel primo tempo abbandona indignato lo stadio, di Pasquato relegato in tribuna, di Arrigoni, il tecnico, che scappa dallo stadio subito dopo la gara, senza rilasciare nessuna intervista (con i bagagli già pronti in macchina).

Sembra la fine della gestione Fantinel. Ma l’insperata ancora di salvezza arriva in estate con il ripescaggio (pagato da Cestaro, come confermato da lui, ebbro, in diretta tv?) in serie B. La squadra è però priva di valore e retrocede nuovamente, perdendo in casa, gnianche dir!, il derby con il Vicenza. Nel frattempo ci si toglie la soddisfazione (…caroselli in città, potete immaginarlo…) di vincere la prestigiosa “Capodanno Cup”, ospitata da Malta, con annesso “pittore o becchino” (cit. “Nanu” Galderisi, unica gioia) ad decantare le gesta dei nostri eroi. A pensarci, mi viene ancora da piangere. E non per la gioia.

In estate Fantinel trova un compratore per la squadra. I maligni dicono, e spesso ci azzeccano, che abbia trovato un “utile idiota” per coprire i suoi debiti e le “piste nere”. Rimane il fatto che Sergio Aletti rimarrà nella storia del calcio, oltre che per la sua fragorosa obesità (che combatteva mangiando 8 porzioni di tiramisù alle cene dei Triestina Club), al cuore ad un passo dall’implosione (che combatteva fumando sigari come un turco) e all’aspetto fisico che lo faceva sembrare una sintesi tra Shrek e il Gabibbo (che combatteva portandosi dietro come compagna una “velona” d’annata), per essere riuscito nell’impresa di far fallire due squadre in un anno: Ravenna e Triestina. Bastano cinque mesi per far affondare la nave alabardata, nonostante la “competenza” di compagna, figlia e genero, tutti inseriti in società a vari livelli, con “Sergione” che fugge verso la sua Romagna con una Fiat Punto rubata alla società (e la abbandona al ciglio della strada perché rimasto senza benzina), dopo aver blaterato di sponsor inesistenti (dalla Hyundai a Gardaland), di progetti fantasmagorici (dalla Cittadella Alabardata o Casa dell’Unione al nuovissimo pullman accessoriato, pronto ad essere parcheggiato sotto casa dell’autore di queste righe…), di giocatori di fantasia (come un improbabile sudcoreano [in Lega Pro non era previsto l’acquisto di extracomunitario] o il talento argentino Gaston Peralta, presentato come “il nuovo Zanetti”, in realtà l’uomo del mistero), di improbabili investitori australiani (“lo zio d’Australia”), di malattie inventate al momento di firmare gli assegni (un ictus con guarigione record in un paio di giorni) e di aggressioni avvolte nel mistero investigativo. Interviene costantemente sui social: ogni suo messaggio sembra una preghiera sanscrita, una poesia futurista, un delirio trash: «Ci proviamo Cristina, sperando sia una nebbia naturale...Sai bene che se ad esempio fossero lacrimogeni ...Sai che è sempre un'emozione scriverti». Ma la leggenda è raggiunta con l’ultima dichiarazione da Presidente, rilasciata di fronte al tribunale giuliano: «Triestina... Triestina... Triestina!!!... deve esser da ora in avanti... che quando mi arrabbio poi riesco anche a dire parole con... Triestina deve essere... eeehhh... non QUAQUARAQUA!!... Triestina... se ci son problemi... si viene da me a dirlo!!!... non da voi a dirlo!!!... se qualcuno è questo... Triestina nuova cambia» (un ringraziamento ad Alan per la trascrizione integrale). Poteva chiosare con un «kalimaaaa!» per completare questa straordinaria esibizione da attore consumato, con la chicca della finta convalescenza. Per raccontare tutte le storie assurde di quei cinque mesi non basterebbe un libro. Di fantascienza, naturalmente.

Di tutta questa farsa ci rimane un solo enorme dubbio, al quale solo l’ex DS Antonio Recchi (“gran figlio di portiere”, cit.) può rispondere: ma Gaston Peralta, esiste? A suo tempo mi ero speso in prima persona in un’infruttuosa ricerca telematica del fantasmagorico talento argentino. Ovviamente senza trovarne minima traccia, se non un probabile omonimo sedicenne autore di un clamoroso gollonzo da centrocampo in un torneo minore argentino. Tutto tempo perso, caro signor Recchi? Non QUAQUARAQUA!!
 
Sergione e signora. La classe al potere.
Sul campo si assiste a prestazioni imbarazzanti, con il mister Giuseppe “Nanu” Galderisi a guidare una banda disperata con scelte tattico-strategiche tragicomiche come il lancio rugbystico dal calcio d’inizio (che non solo non ha mai fruttato un’occasione da gol, ma ha causato almeno 3-4 contropiedi avversari insidiosi), l’attesa (“deve riscaldarsi!”) prima di sostituire un giocatore infortunato con la squadra in 10 che subisce 2 gol in 1 minuto o il cambio difensore-attaccante con la squadra avanti di 2-0 e raggiunta sul 2-2. Tutto al Rocco. Il culmine è però raggiunto in trasferta con un imbarazzante Prato-Triestina 5-0 e la squadra che finisce in 8 per tre espulsioni. Ma è al Rocco che si chiude la stagione con la finalissima Triestina-Latina. Ritorno dei playout. All’andata i ciociari hanno portato a casa il 2-0. Ma l’impresa per la Triestina sembra tutt’altro che impossibile, nonostante qualche assenza di troppo. Basta segnarne due senza subirne. Ma, come detto, siamo al Rocco. E nonostante due punizioni di Allegretti finisce 2-2. Gnianche dir! La stagione si chiude con l’ennesima beffa: Ildefonso Lima (ex idolo della curva, l’uomo dalle mille sceneggiate, il fratello di quel Toni Lima buggerato e umiliato da uno scatenato Ruud Van Nisterlooy, in un memorabile Olanda-Andorra 4-0), tornato a Trieste dopo qualche stagione in Svizzera si da per malato, salta tutta la fine della stagione e ritorna sui Pirenei. “Non è recuperabile” garantisce Galderisi. Due giorni dopo la gara di playout è in campo per 80 minuti con la sua nazionale (“i miracoli di Andorra lab”, cit.) contro l’Azerbaijan. Chissà se anche da quelle parti c’è una maledizione legata ad uno stadio…che ne so la “maledizione del Bakcell Arena”?!

La sceneggiata. Il pezzo forte di Ildefonso Lima.
Finisce così l’epoca Aletti e con la sua successiva morte si chiude forse il capitolo più nero della storia alabardata con molti lati ancora più oscuri. Il dubbio, però, si trasforma in certezza: “la maledizione del Rocco” esiste!

Il “simbolo” di questo periodo è il mitico Riccardino Gissi. Uomo adorabile e professionista serissimo, va detto. Ma una carriera che si chiude in modo (sportivamente) tragico: 2005-06 retrocessione con il Catanzaro; 2008-09 retrocessione con il Treviso; 2009-10, 2010-11, 2011-12 tripla retrocessione con la Triestina. Un incubo. Oggi è il capitano nella Lupa Frascati (che a quanto mi dicono non ha uno stadio intitolato a Nereo Rocco, ma a Pietro Desideri), squadra da battere della serie D laziale, dalla quale, sembra, non dovrebbe retrocedere. In boca al lupo, Riccardino!
 
Riccardino Gissi
La nuova società, messa (circa) in piedi dal sindaco, riparte dall’eccellenza regionale. Buttata su nell’arco di un paio di settimane con una dirigenza improvvisata e un tecnico poco più che amatoriale (sostituito nel corso della stagione da Costantini, vecchio capitano di mille battaglie), l’Alabarda si trova a fronteggiare la “corrazzata” (sic!) Unione Fincantieri Monfalcone. Nello scontro diretto al Rocco (in realtà si doveva giocare al Comunale di Monfalcone, ma avverse condizioni meteorologiche e una gestione non propriamente astuta dell’ordine pubblico hanno causato l’inversione del campo) sono Zetto e Muiesan, due “muli” triestini, a portare a casa la vittoria. Sembra, per l’ennesima volta, la fine della maledizione.

Ma poi la squadra perde qualche colpo (soprattutto al Rocco, gnianche dir!) e arriva seconda. Si aprono le porte dei playoff e la Federcalcio gioca un brutto scherzo: oltre alle trasferte lunghissime (Trieste al confine con la Slovenia, Dronero al confine con la Francia, St. Martin al confine con l’Austria…sembra di essere in Europa League), decide che l’eventuale finale di ritorno si giochi al Rocco. Ahia!
Liquidati gli austriaci del St. Martin (che il mitico Fulvio Germani, ex speaker, archetipo e personaggio totemico del Rocco, pronuncia alla francese “san martén”) la Triestina (apostrofata “merde, ma in senso bon!” da un aficionado) gioca la finalissima con la Pro Dronero, società che festeggia il centesimo anno della fondazione e che vanta di aver avuto Giolitti come presidente (sai che roba…tutta Italia ha avuto Giolitti come presidente e non è che va in giro a vantarsi…).
Nel campo parrocchiale di Dronero si chiude 1-1 con gli alabardati che sembrano in grado di vincere agevolmente ma sono bloccati da un nubifragio nel secondo tempo (ricordi del 17 ottobre 1992…). La stella della Pro Dronero è l’argentino Fabricio De Peralta (quasi omonimo del “Mister X” che doveva essere la superstar del mercato invernale di Aletti…) con un passato di bomber anche ad Andorra (altro oscuro presagio…). Tre presagi. Tre maledetti presagi.

Per la gara di ritorno accorrono oltre 6.000 tifosi: sembra il giorno della Redenzione. Si gioca per la D, ma l’entusiasmo e di almeno due categorie superiori. Ma il Rocco non perdona. Dopo mezz’ora è 0-3 per la Pro Dronero, gnianche dir! Spinti dalla forza della disperazione gli alabardati provano a raddrizzare il risultato e riescono a segnare 3 reti. A 20 dal termine è 3-3. Basta solo un tiro sbilenco, una deviazione, un colpo di testa per centrare l’impresa storica. Per avere finalmente da ricordare i primi “Eroi del Rocco”. Non succede più nulla. Il Rocco chiude la saracinesca. Sotto la Furlan l’arrembaggio è sterile. Altra gara decisiva e, gnianche dir!, altra sconfitta. Questa volta ulteriormente gravata da una categoria che non appartiene alla novantacinquennale storia della Triestina.
Nel frattempo, però, dalle parti dell’Acquedotto, Longera, Valmaura, Roiano, Barriera, Rozzol, San Giacomo, San Giovanni, Piazza Unità, Città Vecchia, Borgo, Melara, Altura, più di qualcuno quest’estate avrà goduto, avrà provato un brivido di gioia: preliminari di Europa League, Udinese - Slovan Liberec 1-3. Dove? Al Rocco, ovviamente. E dove sennò? “Vara” qualcuno avrà detto “ghe gavemo passà la sfigà ai lanfur” (sotto l’Impero Austroungarico, i triestini che finivano al fresco usavano come stratagemma per non farsi capire dalle guardie l’inversione delle due sillabe di una parola, usanza diventata di moda a cavallo tra anni ’80 e ’90, tanto che molte parole ormai sono di uso corrente).
Ventun anni di storia con alcune gioie indescrivibili e un museo degli orrori senza soluzione di continuità. Abbiamo ricordi ottimi di calciatori come Aquilani, Parisi, Cacciatore, Longhi, Mantovani, Galloppa, Siligardi, gli anni d’oro di Pagotto, un Eliakwu in stato di grazia, Godeas(con il suo record di ben 4 “ritorni in maglia alabardata”), Allegretti, Ferronetti, “Totò” Criniti (suo uno dei più bei gesti tecnici mai visti sul verde del Rocco, con uno stop volante di tacco su lancio di sessanta metri, altro enorme talento fottuto dal cervello), “Gege” Rossi, Mantovani, Zanini, “Ciccio” Bega, Gorgone, Marchini, “Pippo” Masolini, un Borriello infante, “El Diablo” Granoche, “El Gube” Gubellini, “Brad Pitt” Rigoni, il bomber di Champions Piovaccari, il sontuoso Davide Moscardelli allorasbarbatello ma già mascellone, oltre a straordinari professionisti come Emanuele “gel” Venturelli, Gianluca “Sindaco” Birtig, Andrea “Savonetta” Pinzan, Mauro “il Conte” Briano, Jehad “Mu Mu” Muntasser, Andrea “The Word” Parola, Paolo Scotti, Alessandro De Poli “na-na”, “Giorgione” Kyriazis, “il generoso” Emiliano Testini [ma ci aggiungerei anche gli scalcagnati “mini-eroi” dell’eccellenza, da Del Mestre a Cipracca, da Piscopo al “Toro” Araboni, da “Aladino” Franciosi a Paolucci, da Muiesan a Cardin (“pronuncia Cardén”, cit.), da Kalin (di cui custodirò gelosamente la maglia numero 16, conquistata a Dronero, dopo 700 chilometri e 1 ora sotto il diluvio) al “Premier” Monti, e molti altri… giusto ricordare anche loro, che con la loro-nostra scalognata “armata brancaleone” hanno sempre onorato la maglia]. Ma come a specchio, a causa della dantesca legge del contrappasso (senza la quale, la “maledizione del Rocco” non esisterebbe, ovviamente), abbiamo subito la visione del “Suino di Sidney” Max Vieri, di Andrea Cossu (solo omonimo del cagliaritano e con una carriera chiusa come fotomodello di intimo maschile), del “caminador” Matias Miramontes, del concreto Babù, del giovanissimo Oscar Magoni, di Roberto Gimmelli (Tavano ancora ride a pensare a quel Triestina-Empoli…), di Claudio Pani (successivamente protagonista di un memorabile scambio di opinioni con il leader degli ultras piacentini, Davide Reboli), del “bellissimo” Omar Roma, gli astemi Jaroslav Šedivec e Adrian Piţ, di Dan “salto poco” Thomassen, di Francesco “Ciccio” Evola, di Pietro “Neanderthal” Sportillo, di Darietto D’Ambrosio (il fratello scarso), di Alessio “fasetta” (cit.) Tombesi, di Catilina Aubameyang (figlio di Pierre, storico capitano del Gabon e già alabardato, e fratello di Willy, ora al Borussia), di Sebastian Berko e di tanti (troppi) altri… Ma soprattutto e sopra tutti Filippo Medri. Uno dei “baciati dal Sistema GEA” quindi “da Dio”. Un mistero tragico, non buffo.

In conclusione: "la sintesi della disgrazia" o "l'apice dell'apoteosi dellaschifezza" per dirla come il fine panettiere Antonello, maître à penser, dell’universo alabardato.
 
 
Una "figu" da brividi
La “maledizione del Rocco”, quindi. Qualcuno obietta che comunque abbiamo uno stadio stupendo. Che qualche bella partita l’abbiamo vista. Che qualche godimento ce l’ha regalato (così, a mente, Triestina - Livorno 4-3, Godeas-Moscardelli-Moscardelli-Aquilani, con il Mosca che segna rubando la palla di mano a Pavarini e Aquilani che insacca al novantaduesimo). Che momenti di puro giubilo li abbiamo vissuti (l’intera curva che inneggia all’arbitro Brighi dopo due rigori regalati al Bologna ed esulta ad ogni fallo fischiato). Ma in fin dei conti questo resoconto della mia vita di tifoso degli ultimi 21 anni (quando l’hanno inaugurato, ricordo, a 9 anni, il groppo in gola) è tutto riassunto nel busto che sta dietro alla Tribuna centrale: il busto del nostro caro Nereo Rocco, senza il suo proverbiale sguardo truce e il cipiglio da “boba de San Giacomo”, ma con occhi malinconici e soprattutto abbandonato nella sporcizia, ricoperto di escrementi di piccioni. Una vergogna, che si somma alla maledizione.

E lo immaginiamo, il Paròn, che dall’alto guarda lo stadio che porta il suo nome ed esclama, con il tipico sarcasmo: “ma cossa…no gavè ancora capì che sto mona de stadio porta sfiga? Sveieve! Buttè zo tutto o regaleghelo ai furlani”.

Non so se sotto al Rocco vi sia un cimitero antico, se da quelle parti abitava qualche serial killer, se è la troppa vicinanza con la Risiera, con il cimitero di Sant’Anna o l’area rarefatta e inquinata della Ferriera di Servola (la sorella gemella dell’Ilva di Taranto). Se prima della costruzione bisognava sgozzarci una capretta o bagnarlo con il sangue di una vergine. So solo che quando ci entro mi emoziono sempre. Come la prima volta. E in fin dei conti, maledizioni o meno, non riuscirei a staccarmene. E immagino che quel malinconico visionario del 18 ottobre di ventun’anni fa sia ancora lì sugli spalti a gridare “I disi che semo matti e fora de testa, ma a noi alabardati no ne interessa”.

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Fonti:

- Dante di Ragogna, Storia della Triestina. Dalla fondazione ai giorni nostri, Luglio editore.

- Luca Dibenedetto, I pionieri alabardati.

- I circuiti neuronali in cui alberga la mia memoria.

- I forumisti del Triestina forum - Nucleo Rindondo e de El sito de Sandro, amici e non.

- Le centinaia di tifosi con cui ho scambiato qualche impressione e con i quali ho condiviso un’imprecazione sugli spalti del Rocco e di altri “stadi” in giro per l’Italia.