Una base di amarezza, con due parti di disillusione
e una di mestizia, impastare il tutto con una buona dose d’ironia e un pizzico
di sfrontatezza, poi impiattare su un letto di sarcasmo. Nell’epoca in cui lo
spettacolo ha sublimato le nostre pance vuote chez ‘la crisi’ in un continuo
proliferare di poco-reality show sulla cucina, sembra obbligatorio presentare
la nuova uscita del collettivo Kansas City 1927 come fosse una ricetta. E
quindi parliamo di cinema. Il film che Diego ‘Zoro’ Bianchi e Simone Conte
hanno girato quest’anno è la prosecuzione di quella “autoterapia di gruppo” con
cui definirono la loro prima esperienza, e che deve tanto ai Sordi e ai Verdone
(nella malinconia della risata come nella leggerezza del velluto con cui
rivestono il pugno di ferro dell’(auto)critica sociale) quanto ai Bunuel o agli
Herzog della libera associazione e del simbolismo decostruito. Continuando a
parlare di musica, gli autori suonano un piacevole pop raffinato, con una prosa di chiara ispirazione gaddiana e melodie altrettanto gazziane in una contemporanea rilettura del romanesco (dal Belli in giù ndr.), che
si avvale di diverse amichevoli collaborazioni e su Facebook continua a
guadagnare piacitori. Tanto che ha convinto i produttori a confezionare un
seguito del primo disco uscito la scorsa stagione e dedicato alla memoria di Luis Enrique.
Perché visto che lo conoscete già tutti,
sarebbe stato superfluo presentare Kansas City 1927, Anno II. Dalla Z di Zeman alla A di Andreazzoli (Isbn Edizioni, 272 pagine) come un libro che parla di calcio in maniera irresistibile, impreziosito
per questo secondo volume dalle tavole di Zerocalcare, senza dubbio tra i migliori fumettisti in circolazione. E allora, grazie al permesso dell’editore Isbn che
ha concesso questo privilegio a Lacrime di Borghetti, eccovene un (p)assaggio:
Aureliade (Roma-Cagliari 2-4)
Aurelio Marco Tullio Abelardo Antunes
Coimbra Limonov Ruzzle Andreazzoli, meglio noto come Aurelio Andreazzoli dal
giorno in cui Taddei gli dedicò un dribbling sbagliato con relativo avvitamento
di caviglie durante una partita di Champions, nasce tra Massa e Carrara il 5
novembre 1953, su un blocco di marmo.
Di famiglia umile ma cazzuta, il piccolo
Aurelio Marco Tullio Abelardo Antunes Coimbra Limonov Ruzzle s'appassiona da
subito al giuoco del calcio grazie alla clandestina frequentazione di Corrado
Orrico, chiacchierato massese di tredici anni più grande di lui, che di lì a
qualche anno il fato avrebbe voluto allenatore dell'Ambrosiana Inter. I
genitori tentano senza esito di ostacolare quella pericolosa amicizia fatta di
spinelli, Aldo Spinelli, canzoni di Piero Ciampi, escavazioni e sovrapposizioni
di blocchi di marmo, ma dati gli eccellenti risultati scolastici frutto di
un'innata predisposizione per la matematica e le geometrie, abbozzano e fanno
pippa.
Iniziato precocemente alle gioie del sesso,
del fumo e dell'alcol (conosciute tutte in un’unica notte grazie a una
prostituta russa di nome Hulk), Andreazzoli è già uomo di calcio a 11 anni,
allorché, come narra la leggenda che avrebbe plasmato l’immaginario delle
giovani leve locali che nel suo culto cresceranno (Evani, Coda, Francini, Lorieri
e l’indimenticato Cristiano Zanetti), Aurelio si presenta al campo della
Massese con il volto insolitamente ricoperto di ispida peluria. E’ febbraio, il
carnevale impazza, ma il burbero tecnico della scuola calcio Giovanni Pascoli
Footbal Club è omofobo uomo d'altri tempi intollerante a quelle che lui chiama
"frocerie".
Giustappostosi al giovane Aurelio ecc.
ecc., con un colpo secco prova a strapparne la peluria pensandola posticcia. Un
rigagnolo di sangue zampilla dal bulbo sotto al mento del piccolo Andreazzoli.
La sua è barba vera. Aurelio è già uomo.
E un uomo di calcio, per quanto giovane,
spesso è un uomo in pericolo.
Corre l’anno 1964, il Brasile ha vinto i
mondiali di calcio da due anni, l’entusiasmo popolare è alle stelle, ma la
federazione e ancora più in alto il governo sanno che tutto ciò non può durare
a lungo. Occorre programmare, per vincere ancora. Ondate di calciatori verdeoro
dalla scarsa levatura tecnica ma dall’infallibile fiuto per il bel calcio
invadono il vecchio continente pronti a riferire al governo patrio. L’obiettivo
è chiaro: di talento ce n’è da vendere, la disciplina europea è ciò che manca
per il definitivo salto di qualità. Servono struttura, severità, metodo. Ben
presto le attenzioni si concentrano sul giovane Andreazzoli.
Nei quotidiani dell’epoca, solo un
trafiletto. “Il rapimento del piccolo Aurelio tiene Massa col fiato sospeso”.
Dopo pochi giorni, il silenzio. Un silenzio che Brasilia ha pagato
profumatamente.
Il viaggio non è breve. Per sfuggire ai
controlli aeroportuali gli 007 sudamericani optano per un cargo battente
bandiera boema, non senza difficoltà, dato che nessuno sa come sia fatta.
Durante i 25 giorni di navigazione, Aurelio non si scompone: non chiede della
mamma, non chiede giocattoli, non fa domande. Chiede solo tre cose: una
lavagna, un gesso, e un pallone. Ottenuti gli strumenti del mestiere inizia a
fare ciò per cui è nato: insegnare calcio. Di lì a pochi anni, quei marinai
avrebbero giocato nei più prestigiosi club del mondo.
Un bambino a bordo, più piccolo di un anno
di Aurelio, intelligente più della media dei suoi coetanei, lo osserva e
metabolizza, poi un giorno, vinti i timori, gli chiede: “Ma perché se abbiamo
quasi la stessa età tu hai già la barba e io no?”
“Tu sei curioso, questo farà di te un
grande uomo, asseconda la tua curiosità, e poi metti in pratica ciò che hai
imparato su questa nave. Qual è il tuo nome?”
“Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza
Vieira de Oliveira, e voglio avere anche io la barba”.
“Ah però, anche tu genitori stronzi eh? Da
oggi sarai solo Socrates, e quando avrai la barba lasciala crescere, così che
io ti possa riconoscere nel mondo”.
Degli anni brasiliani di Andreazzoli non si
hanno cronache ufficiali, ma vangeli apocrifi e diari trafugati raccontano di
lezioni di tattica alla fine delle quali giovani calciatori piangono
abbracciandosi, di schemi per i calci piazzati intagliati nel legno
dell’Amazzonia e spediti sino ai confini dello stato, di diagonali tramandate
oralmente e a passi di capoeira di villaggio in villaggio.
Il tempo passa, Aurelio insegna, i
risultati, inderogabilmente, arrivano: nel 1970, il Brasile è nuovamente
campione del mondo. Sono passati sei anni, “O Màgico” è ormai un culto
clandestino in tutto il paese, nessuno sa il suo nome, tutti lo amano, ma lui
sa che il suo tempo lì è ormai concluso: è ora di nuove sfide, avrebbe compiuto
la maggiore età in Europa.
Dal Brasile migra in Bolivia, dove apprende
i segreti del fuorigioco d’altura e delle uscite dei portieri sudamericani
gravemente prive di gravità; dalla Bolivia arriva in Colombia, dove lo precede
la fama e lo aspettano i narcotrafficanti del cartello di Zuniga i quali,
informati dai colleghi rapitori brasiliani, gli dicono Senor Andrea, facci
vincere el mundial pure a nosotros e te riempimos d’oro e de coca. Ma Aurelio
insegna calcio per vocazione e non per vil denaro, non accetta e viene
sequestrato per 8 mesi e 8 giorni, fino al giorno in cui un giovane bimbo dalla
criniera bizzarra messo a guardia del prigioniero, lo libera di nascosto.
Carlos Valderrama, intervistato sulla vicenda anni e anni dopo, confesserà:
“quell’uomo mi ha insegnato tutto. Un giorno, portandogli del guacamole per
colazione, guardandomi nei baffi me lo spalmò in testa e mi disse: “solo con
questo colore di capelli potrai farti notare su un campo di calcio. Di
guacamole mi tinsi e da calciatore mi finsi. Senza di lui non sarei quello che
sono”.
Nascosto in un viaggio di rifornimento a
ritroso dei guerriglieri del cartello di Asprilla, Aurelio torna finalmente nel
vecchio continente, in Olanda. Siamo nel 71, il mondo è dei giovani, ma i 18
anni di Aurelio sono come quelli dei cani, ognuno ne vale almeno sette.
Ruzzle Andreazzoli impara il fiammingo in
tre settimane durante le quali compra marijuana da un bullo locale di nome
Johan, campione del mondo di palleggi in corsa. Il carisma del massese è tale
che il capellone locale improvvidamente lo sfida ma al quattordicesimo
palleggio viene colpito da cacarella fulminante e molla. “Aurelio mi si
avvicinò, e invece di umiliarmi mi accarezzò la testa proprio mentre ormai mi
stavo per cacare addosso; tutto si bloccò, quel che era già liquido tornò
solido, mi sentii di nuovo forte e invincibile, grazie a quell’uomo venuto dal
nulla cui regalai tutto il fumo che avevo e il 14 sulle spalle per tutta la
vita”.
Dopo qualche anno l’Olanda insegnerà calcio
totale a tutto il mondo sfiorando la Coppa Rimet. Nessuno tra i commentatori
internazionali capisce quale sia il ruolo giocato nell’imperiosa ascesa orange
dal terzo fratello dei fratelli Van De Kerkhof. Nessuno tranne tutta l’Olanda.
Che sa e saluta commossa Aurelio Van De Kerkhof, una notte d’inverno, dal porto
di Rotterdam.
Ancora un porto, ancora una nave, ancora un
incontro. Nel viaggio che conduce a Genova, Auruzzle incontra un uomo
pensieroso, lo avvicina e inizia a parlargli. Le ore passano come minuti, dopo
tanti anni è bello confrontarsi di nuovo con un italiano seppur bofonchiante,
un allenatore per giunta, una brava persona, alla quale durante la
conversazione insegna anche un gioco di carte: lo scopone scientifico. Aurelio,
che non subisce il destino ma lo plasma con pacata determinazione, capisce che
è ora di tornare a casa, di aiutare quell’uomo a coronare il sogno suo e di una
nazione.
“Enzo, lavorerò con te”.
Bearzot scende dalla nave sorridendo,
felice.
E’ la particella elementare del big bang di
gioia che, qualche anno dopo, in una torrida notte di luglio si propagherà
dalla Spagna all’Italia sancito dal triplice “Campioni del Mondo” che Nando
Martellini aveva segnato su un taccuino qualche mese prima, su suggerimento di
un uomo di Massa, durante un caffè.Sul volo che riporta la Nazionale a casa,
nella storica partita a carte con il Presidente della Repubblica, Bearzot
ricorda i consigli di quella notte sulla nave e vince. Pertini chiede al Ct chi
gli abbia insegnato a giocare così, l’allenatore indica un uomo in fondo
all’aereo. Da quel giorno tutti gli inquilini del Quirinale si sono avvalsi dei
consigli di Aurelio Andreazzoli nelle ore più buie della nostra Repubblica.
Ombra dell’ennesimo trionfo, a 29 anni,
Aurelio fa perdere le sue tracce. Mezzo mondo del calcio lo vorrebbe su una
panchina, l’altro mezzo vorrebbe sapere chi è per riuscire almeno a
proporglielo. Lui, vampiro della fama, fugge dalla luce dei riflettori e,
semplicemente, svanisce.
Biografie non autorizzate hanno
fantasticato ogni possibile scenario per questo buco di vent’anni, dal padre di
famiglia al rivoluzionario accanto ai deboli di ogni parte del pianeta,
dall’esilio all’ibernazione, dal viaggio nel tempo allo studio di nuove
discipline, ipotesi, quest’ultima, che gode di maggiore credito. Ingegneria,
elettronica, chimica, medicina: è plausibile immaginare che ognuno degli
oggetti che popolano la nostra quotidianità debba dire grazie all’intelletto di
un uomo che ha dedicato la sua vita agli altri.
In molti pensano che Bora Milutinovic, in
realtà, altri non sia che Aurelio Andreazzoli sotto mentite spoglie, ma il
Milutinovic smentisce più volte in tutte le lingue del mondo, ma soprattutto
perde troppo spesso per essere Aurelio.
Evitato il disastro mondiale legato al
rischio Millenium Bug, riconosciuta la paternità di un giovane nerd australiano
di nome Julianassange che minaccia di rivelare al mondo i segreti della sua
scomparsa, Andreazzoli entra nel nuovo millennio con un desiderio antico e
sempre nuovo: insegnare calcio.
In una splendida giornata primaverile,
durante uno dei suoi consueti giri solitari in spider, accuditi e curati come
ogni giorno alcuni randagi malati e consegnati alla giustizia due evasi,
Aurelio vede un uomo alle prese con una macchina in panne. Si ferma, lo aiuta,
ovviamente individua il guasto e risolve.
“Piacere, Luciano. Grazie per avermi
aiutato” tende la mano rincuorato l’automobilista.
“Ho appena iniziato ad aiutarti, non dovrai
mai ringraziarmi, Luciano”.
E’ l’inizio di una nuova avventura, prima
nella fredda Udine, poi, ritenutosi soddisfatto di aver portato una squadra in
Champions League per la prima volta nella sua storia, a Roma.
Andreazzoli diventa rapidamente l’eminenza
grigia dell’epopea spallettiana, ma le luci della ribalta, anche per motivi di
riflessi, sono tutte per Luciano. Aurelio ne soffre, Taddei gli dedica la finta
sbagliata ma non basta a risollevarne il morale.La sua autostima tocca livelli
talmente bassi da soffrire la presenza del quasi omonimo Andreolli.
Aurelio s’incupisce, chiede espressamente
alla società “o me o Andreolli””, viene accontentato ma si chiude lo stesso in
se stesso trovando rifugio nelle letture del giovane Stalin, per meglio capire
le quali comincia a studiare il cirillico.
E’ lì che si consuma la rottura del
sodalizio con Luciano, che temendo le intuizioni del collega, decide di
anticiparne le mosse lasciando lui e la Roma al suo destino per volare in
Russia ad insegnare il calcio imparato da Aurelio.
Presi i giusti contatti con i mecenati e la
mala locali, vinti un paio di scudetti, Luciano pensa al suo amico abbandonato
a Trigoria e lo richiama a sé. “Ciao Aurelio, vieni da noi, si beve e si
tromba, si tromba e si beve. Ho pure fatto comprare Hulk apposta per te!”.
Aurelio sviene per la commozione e rifiuta la proposta di incontrare di nuovo
colei che lo sverginò adolescente.
Aurelio diventa inconsapevolmente amico di
ogni rosa, e prima che lui stesso se ne accorga è già il dipendente non
giocatore di Trigoria con più anni di anzianità romanista alle spalle.
Andreazzoli detto “la chioccia di marmo”, supera il periodo di mobbing con cui
un vendicativo e pavido Ranieri lo vessa obbligandolo a comunicare a Totti e De
Rossi di dover uscire tra un tempo e l’altro di un derby compromesso, e torna
ufficialmente a fare capolino nello staff tecnico con il ruolo di “tempera
gessi per le linee del campo B” nei primi mesi di gestione americana.Luis
Enrique e Tonin Llorente ci mettono poco a capire che quell’uomo ha una marcia
in più, motivo per cui lo nominano “responsabile delle marce delle mountain
bike da fotografare e postare su
twitter”, emarginandolo dal golfo mistico delle decisioni tecniche.
Lui, che con le mani in mano non ci sa
stare, passa il tempo presso la carrozzeria di famiglia di un nuovo amico.
"Roberto, io sono homo faber, tu l'hai
capito e mi hai aiutato in questo momento difficile, mi ricorderò di te".
"Più che altro sssss..... ssss... sei
manodopera gggg... gggg... gratis, però figurate, ssss... sss.. sei pure così
saggio che è mpiacere Au... au... areu....".
“Aurelio”.
“Ecco, appunto”.
Insomma, tutti gli vogliono bene, tutti lo
salutano, tutti lo omaggiano e gli portano rispetto, ma nessuno gli chiede
espressamente di fare il suo vero lavoro: insegnare calcio.
Il destino dell’uomo sembra segnato, finché
un giorno tutto cambia.James Pallotta, memore delle figure di merda di Tom Di
Benedetto, chiede espressamente di imparare calcio, nel senso delle regole.
Tutti si fingono malati, tutti tranne Aurelio, che comincia a impartire al
manager doppie sedute di ripetizioni private.
Il miracolo avviene, Pallotta capisce e
ordina: il prossimo allenatore della Roma sarà Aurelio Andreazzoli. Ma bisogna
procedere a fari spenti, la preda è ghiotta, il mondo potrebbe ricordarsi
all’improvviso di quell’uomo capace di cambiare la vita di milioni di persone
per poi scomparire. Ci vuole cautela, averlo non sarà facile.
Ma quando una società è forte, unita e compatta,
non c’è obiettivo che sia impossibile.
Zeman, aziendalista, fondamentalista e
zemaniano fino all’autolesionismo, riesce a far peggio di Luis Enrique.
La rosa, stimata come migliore di quella
dell’anno scorso, riesce a sembrare peggiore.
Sabatini e Baldini usano a cazzo parole con
molte sillabe riuscendo a sembrare più storditi dell’anno precedente, ma lo
fanno talmente bene che a un certo punto riesce credibile pure la manovra di
depistaggio che porta Baldini a New York a simulare interesse per Guardiola.
Gli americani sembrano meno autorevoli di
Pippo e Pluto, le peggio radio tornano a ruggire e gracchiare, i tifosi
riprendono a insultarsi e a dividersi in orfani e vedove, sognatori e
pragmatisti, vittime di complotti di palazzo e amanti di filologia romanza.
Kansas City 1927, infine, nun fa più ride.
L’operazione funziona, il mondo ci casca, è
il momento di agire.
Uno scarno comunicato rivela la notizia che
tutti aspettavamo: Aurelio Andreazzoli è il nuovo allenatore della Roma,
finalmente.
Corete, scappate, ariva lo squadrone
giallorosso.
Giallorosso.
*Kansas City 1927, Anno II. Dalla Z di Zeman alla A di Andreazzoli (Isbn Edizioni, pp. 164-172)