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lunedì 1 agosto 2011

Breve inno alla palletta di spugna

Con la palletta di spugna giocavamo tutto l'anno quando eravamo alle elementari, in camera mia o nel corridoio che portava alla cantina del mio compagno di classe Roberto. In realtà più che alla cantina quel corridoio portava a casa sua, visto che viveva accanto alle cantine (il padre era il portiere dello stabile). Ma le sfide più belle le facevamo da me, lui si metteva davanti all'armadio (che era la porta), io lanciavo la palletta di spugna contro il muro e poi la colpivo al volo, di testa o di piede, spesso lanciandomi all'indietro sul letto. Giocavamo tutte le settimane perchè tanto abitavamo uno di fronte all'altro e non c'era bisogno che i genitori ci accompagnassero. Ogni tanto veniva anche Andrea e a quel punto la cosa si complicava perchè non è che ci fosse così tanto spazio in camera mia, finiva che si giocava a turno e intanto l'altro si faceva una partita al Nintendo 8-bit. A me piaceva moltissimo fare le acrobazione, cercavo di far rimbalzare la palletta sul muro con la giusta potenza, in modo da avere il tempo di avvitarmi e colpire la sfera in aria; Roberto era un portiere straordinario, dotato di riflessi felini, nonchè inventore di una particolare parata sul modello del bagher. Ovviamente ogni gesto atletico veniva accompagnato dalla telecronaca della partita, non si contano le partite che la Roma ha vinto in camera mia.

Alle ginocchia avevamo delle toppe incredibilmente belle, bleu su bleu, sui pantaloni che indossavamo anche per fare ginnastica a scuola. Ogni tanto capitava di colpire qualche oggetto, in particolare i pupazzetti degli ovetti Kinder che stavano sulla mensola sopra la televisione, ma la cosa bella della palletta di spugna era che non rompeva nulla, era gentile anche quando veniva scagliata con forza. Dopo un po' poteva capitare che fosse la palletta stessa a rompersi, si inizavano a staccare dei pezzi, e a quel punto bisognava cambiarla. La cosa peggiore era se finiva nelle fauci di un cane, come succedeva a me con i cani del giardino sotto la mia finestra, se la palla finiva lì la partita era bella che finita. 

Il non plus ultra era una palletta non di spugna, ma gonfiabile, che si trovava solamente al carissimo negozio L'Albero di via Castellini (oggi il negozio c'è ancora ma è all'inizio di viale Romania). Praticamente si comprava una palletta sottovuoto, e bisognava gonfiarla con una specie di cannuccetta che veniva con la confezione. L'odore del materiale del pallone, che ignoro, era buonissimo, e la consistenza era immigliorabile, perchè era leggera ma non volatile. L'unico problema è che si rompeva presto, non durava molto. Dubito le producano ancora.

Non so se oggi, nelle camere da letto e nei corridoi delle cantine delle case medio-borghesi dei Parioli, i ragazzini giocano ancora con la palletta di spugna. Temo di no. Probabilmente "giocano" a Wii, che di fatto simula la nostra simulazione con la palletta di spugna, oppure non giocano affatto, limitandosi a premere i tasti del joy-stick della Playstation. E' un peccato perchè a me sono servite molto le cose che ho imparato con la palletta di spugna, tutte le acrobazie con cui negli anni ho deliziato i miei compagni di tedesca sul bagnasciuga o sul prato vengono da lì, per non parlare dei movimenti in area di rigore quando arriva il cross (le sfide con la palletta di spugna erano un susseguirsi infinito di cross dal fondo, avevo addirittura insegnato al muro a crossare ad effetto). Per questo ho voluto dedicare questo breve inno alla palletta di spugna, e a tutti quelli che si auto-crossavano la palletta facendo sponda con il muro.

domenica 8 agosto 2010

Indubbia utilità del gioco del calcio

A me, personalmente, tutte le giustificazioni e le motivazioni di coloro che non amano il calcio mi vanno bene e le accetto senza problemi. A certi, ad esempio, può dar fastidio il verde che predomina sui prati; costoro seguirebbero piuttosto un calcio giocato su fiori di lavanda, e io prendo atto delle loro posizioni. Altri mi diranno magari che intorno al pallone c'è troppa tensione e troppa violenza; poi se ne vanno, fanno una rissa in strada per un tamponamento, salgono in casa infuriati e picchiano la moglie con la marmitta: ma a me questo sta bene, perché lo dice anche il Vecchio Testamento. In generale, mi va bene qualsiasi cosa mi venga detta, perché sono un tipo comprensivo e tollerante: solo, non mi va giù che affermino che il calcio sono solo ventidue scemi che corrono dietro ad un pallone e che si tratta di uno spettacolo sterile, che non serve a nulla. Questa argomentazione è totalmente campata in aria e io non l'accetto.
A me, ad esempio, il pallone - supposto inutile - ha contribuito ad insegnare la geografia. Se mi avessero detto, intorno ai dieci anni, di piazzare Malines-Mechelen su una carta geografica io, al contrario di qualsiasi bimbo sano di quell'età e anche della gran maggioranza degli adulti, avrei saputo farlo; e l'avrei fatto tra le lacrime, ricordando l'eliminazione per mano belga (Coppa delle Coppe 1987/88) dell'Atalanta forse più forte di sempre. Un Napoli-Ujpest Dozsa, invece, m'aveva ammaestrato sulla geografia ungherese; e uno scontro tra Roma e Carl Zeiss Jena, se non sbaglio vinto dai tedeschi, mi fece scoprire la Turingia ben prima del laido agostiniano Martin Lutero, della Repubblica di Weimar o di una donna alta un metro e ottantasette con cui ebbi una relazione a Norimberga. Le squadre di calcio, per noi della vecchia scuola, hanno svolto una funzione pedagogica paragonabile a quella delle vecchie targhe in autostrada; e d'altra parte i passaggi tra le due cose erano frequenti, perché osservando una vettura targata AP non potevo fare a meno di pensare a Cvetković o a Walter Junior Casagrande. Perciò, non venitemi a dire che il calcio non mi ha insegnato ottimi rudimenti di geografia: già da piccolo, per dire, sapevo perfino dove fosse Sochaux, salvo immaginarmela pittata di gialloblù.
E qui veniamo ad un secondo dei grandi insegnamenti del pallone: il colore. Non mi atteggerò ad un novello Henri Rousseau; voglio però rivendicare il fatto evidente che se oggi molti di noi, senza essere stilisti o vantare frequentazioni ambigue, possono avere più di un'infarinatura di scienza dei colori è soltanto grazie alla nostra passione per le maglie da gioco. Io, per esempio, so da sempre che la divisa della Ternana è efficacissima e molto bella; ma solo in tarda età la teoria mi ha svelato che le cose stanno così perché rosso e verde sono due colori complementari, ed è dunque evidente che stiano bene assieme. Lo stesso discorso si potrebbe fare per l'arancioblù di certe maglie del Montpellier. Ma dirò di più: qualsiasi appassionato di calcio può stupire la propria compagna stabile o occasionale mostrando una perfetta padronanza di tutta una serie di nuances di colore. Basta solo avere l'accortezza di associarle ad una certa compagine. Ad esempio, fra il rosso del Liverpool e il blu dell'Everton troviamo: il Torino (granata), il Livorno (amaranto), il West Ham (vinaccia), il Tolentino (cremisi), l'Anderlecht (malva), il Legnano (lilla) e la Fiorentina (viola). A ben vedere, è facile diventare artisti visivi con un minimo di passione per il pallone.
Ma un'altra cosa ben più seria che il calcio mi ha insegnato è la grandezza del mondo e la diversità dei popoli. Ad esempio, giocava nel Colonia uno con un nome strano, Littbarski; ma era talmente forte che eri obbligato a pensare che anche quelli strani e diversi dovevano essere rispettati e onorati. Ma ancora di più: secondo voi quanti negri potevo aver visto, a dieci anni, in una cittadina dell'entroterra marchigiana (esclusi quelli dei telefilm americani, che non sono persone ma solo barzellette)? Uno? Due? Ma forse meno. E invece in televisione, sulla mai troppo ringraziata Telecapodistria, c'erano Tony Yeboah e Ian Wright, e uno diceva: "Però! Questi sì che giocano, questi sì che devono terrorizzare qualsiasi portiere semplicemente girellando dalle parti dell'area di rigore". Poteva allora capitarti, nei tuoi pomeriggi marchigiani a tirare calci con gli amici, di figurarti di essere lo stesso Yeboah, o il baffuto Kohler o il piccolo Häßler o il grosso Salinas o l'elegante Mychajlyčenko. Poi, una volta che ti sei preso uno del genere come idolo, è difficile tornare indietro al mondo piccolo e chiuso: il calcio, checché se ne dica, fa bene, proprio perché è uno sport per tutti e tutti ci giocano. Ma la cosa più importante di tutti te la insegnavano quei pomeriggi lunghi persi dietro ad un pallone su un campetto liscio di cemento: anni e anni e anni fatti di pomeriggi e di cemento, alla lunga, ti portavano a capire che nel gioco e nella vita servono molte cose, e molte altre ne esistono: esistono quelli scarsi, che non vorresti ma ti tocca prendere, e cui comunque devi passare la palla, perché a calcio non si gioca da soli; esiste la sfortuna dei palloni perduti o bucati, dei gol presi all'ultimo momento, mentre il sole tramonta e bisogna tornare a casa. E anche in quei casi, soprattutto in quei casi, bisogna accettare la sconfitta e tornarsene a casa amareggiati ma consci che ci sarà un altro pomeriggio e un'altra partita. Infine esiste ed è necessaria la pazienza, quando si è perduti e furiosi nella lentezza del gioco che non si sblocca, degli avvenimenti che non accadono e dei palloni che non entrano. Allora bisogna passarla indietro, sospirare senza rabbia, e ricominciare; e aspettare, mentre le ombre si allungano sul campo rosso, che un passaggio fortunato ti metta di nuovo davanti al portiere, unico artefice del tuo stesso destino.

sabato 30 gennaio 2010

Amarcord: I calciatori sono uomini, vol. 2

(Iva, questo pomeriggio giocano con noi..)

Secondo appuntamento con la nostalgia in questa rubrica dedicata alle indimenticabili figurine dure SCORE 92, "marchio indelebile di un'intera generazione". Perchè nell'epoca in cui non c'era la televisione satellitare, i giocatori si scoprivano uomini solo sul loro retro. 

Strano hobby. Iniziamo da Luigi De Agostini, agile terzino sinistro della Juventus che assicura una gran spinta sulla sua fascia, e per questo è "da tempo nel giro della Nazionale". Ebbene, il ragazzo friulano non è un patito delle macchine veloci o dei videogames, come molti dei suoi colleghi, ma "ha davvero uno strano hobby: colleziona oggetti che raffigurano delle tartarughe. Perchè? 'Ho letto che sono simboli di longevità e saggezza'".

Il filosofo. Restando in tema, un altro giocatore molto profondo è Alessandro Zaninelli, portiere di grande esperienza dell'Hellas Verona. Infatti, è uno dei pochi "che ci sanno fare anche con la penna in mano (o con la macchina da scrivere, se volete) e già in passato ha avuto modo di collaborare con svariati giornali". Per questo motivo, è considerato "il filosofo della squadra", anche se lui, con indubbia modestia, preferisce dire che "amo pensare prima di parlare, tutto qua". Considerata la categoria, hai detto poco..

Valtur. Tutto il contrario sembrerebbe Vittorio Pusceddu, fluidificante mancino appena sbarcato alle falde del Vesuvio dopo una positiva esperienza proprio a Verona, dove si è fatto notare nello spogliatoio per la sua verve e la sua simpatia. Ed allora, "appena avrà preso confidenza e si sarà ben ambientato, confermerà anche a Napoli la sua fama di 'animatore' della compagnia".

Nano. Un gruppo davvero ben assortito è quello dell'Atalanta, dove i giocatori sanno divertirsi sia in campo che fuori, e un sagace soprannome non si nega a nessuno. Neanche all'ottimo Eligio Nicolini, centrocampista rapido e tecnico che "quando punta l'uomo son dolori", che per via della piccola statura i compagni chiamano "Nano". Peraltro, Eligio da Omegna "è un ottimo giocatore di carte (uno dei passatempi preferiti dei calciatori, specie durante gli 'odiati' ritiri prima delle partite)", anche se la sua vera passione è il cinema. "La sua coppia ideale? Robert De Niro e Julia Roberts".

Ciccione. L'uomo d'esperienza della difesa bergamasca è il molisano Luigino Pasciullo, che dopo aver girovagato per tutta l'Italia ha trovato ormai da quattro anni la sua consacrazione sulla fascia sinistra della squadra orobica. "Giocatore dal rendimento sicuro e affidabile", peccato faccia "una fatica maledetta a mantenere il peso forma", e così "i compagni non perdono occasione per punzecchiarlo chiamandolo scherzosamente 'Ciccione'". Peraltro, Pasciullo è un gran "amante della natura e degli animali (ha un cagnolino, uno Shitzu)" ed è anche "un buon intenditore di vini". 

Elicottero. Il faro del centrocampo della Dea è invece Roberto Bordin, nato in Libia ma italianissimo. Vero motorino del centrocampo, "pur essendo non molto alto ha una  grande elevazione: quando va su di testa va proprio alto, tanto che lo chiamano 'Elicottero'". Fuori dal campo non gli mancano le passioni: "fa il tifo per la Ferrari ed oltre a collezionare Swatch, è un ottimo sistemista con il Totocalcio". Anche a tavola ha le idee chiare, e se gli chiedete qual è il suo piatto preferito, vi risponderà senza incertezze "la pasta fatta in casa, sicuro!".

Un solo difetto. Protagonista della favola del Parma, Luigi Apolloni da Frascati è, accanto a Lorenzo Minotti, uno dei due marcatori della impenetrabile difesa a zona dei ducali. Gran fisico, ottimo di testa, sa cavarsela bene, nonostante la struttura, anche negli spazi ridotti. I compagni lo chiamano "Apollo", e "scherzosamente gli riconoscono un solo difetto, meglio un punto debole: quello di odiare le cipolle! Beh, tutti i gusti sono gusti, no?". Ci mancherebbe.

Beautiful. Chiudiamo con "un giovane di grande avvenire", il laziale Rufo Emiliano Verga, libero capace di chiudere con diligenza per poi proporsi in avanti per aiutare i compagni nella costruzione del gioco: "elegantissimo, molto tecnico, ha avuto un inizio di stagione difficile, ma certo elevatissima è la sua qualità". Intanto, il bel Rufo, biondo con gli occhi azzurri, si gode la sua fama anche fuori dal campo: "è l'idolo delle fan biancazzurre (ma è già sposato..)", e per questo "i compagni nello spogliatoio lo chiamano Beautiful".

mercoledì 13 gennaio 2010

Amarcord: I calciatori sono uomini, vol.1

foto gentilmente concessa da questo bel blog di collezionisti

Premessa: anni fa alcuni di noi ci divertivamo con il cartaceo, e in particolare con l'Humiltè, una fanzine davvero per pochi intimi. Approfitto di LB per ripubblicare una seguitissima e nostalgica rubrica dell'Humiltè, "I calciatori sono uomini", che aveva lo scopo di spingere i lettori a riaprire i vecchi cassetti impolverati delle elementari, per dare uno sguardo alla vita privata dei calciatori, i loro vizi, i loro soprannomi, le loro passioni, i loro hobby, insomma, per scoprire cosa facevano i campioni della nostra infanzia fuori dal campo, così come testimoniato dal retro delle indimenticabili figurine dure SCORE 92, marchio indelebile di un'intera generazione.

Condor. Non potevamo che iniziare dall’idolo del direttore di questa fanzine, quel Massimo Agostini “attaccante del Parma con spiccato fiuto della rete: lo chiamano Condor ed effettivamente, da ottimo opportunista, è sempre in agguato dentro l’area, pronto a cogliere la prima occasione. Gli piacciono molto le belle auto ed ha una collezione di orologi da fare invidia. Ama il mare e possiede una bella barca”.

Gabibbo. Tutti si ricordano di Giovanni Picasso, “centrocampista del Foggia di grande senso tattico e buon carisma, ottimo tecnicamente, sa effettuare sia lanci lunghi che scambiare con i compagni negli spazi stretti’. Solo i più attenti sapranno però che “è un ragazzo aperto e simpatico che i compagni, per prenderlo in giro, a volte chiamano ‘Gabibbo’”.

Buon padre di famiglia. Sempre nel Foggia troviamo Maurizio Codispoti, “che ricopre molto bene il ruolo di difensore esterno sulla fascia sinistra, e ha nella velocità la sua arma migliore”. Ebbene, il difensore calabrese è “molto legato alla famiglia e ha il ‘record’ di essere sempre il primo (fra le immancabili battute e prese in giro dei compagni), alla fine dell’allenamento, a mettersi sotto la doccia e correre a casa”.

Negretto. A Foggia un soprannome non si nega a nessuno, neanche al capitano della squadra. Leggiamo infatti la scheda di Onofrio Barone: “centrocampista di sinistra, è tutto mancino e, come si suol dire, il destro gli serve per salire sul tram. A parte gli scherzi, sarà forse il fascino del nome, ma nelle movenze è il più elegante della squadra. Ha una grande passione per gli orologi ed i compagni di squadra, per via della sua carnagione scura scura, lo chiamano ‘Negretto’”.

Films. A difendere la porta della Fiorentina c’è Gian Matteo Mareggini: “forte tra i pali, sicuro nelle uscite e con ampi margini di miglioramento, si è conquistato il posto da ‘titolare’, dopo le belle prestazioni dello scorso anno. Se gli chiedete un suo hobby, probabilmente vi dirà che gli piace molto il cinema anche se i compagni potrebbero aggiungere che lui va a vedere solo i films in cui c’è la bellissima attrice americana Carol Alt”.

Malasorte. Anche nella Fiorentina non mancano i soprannomi, come sa bene il fluidificante di fascia sinistra Stefano Carobbi. Infatti, “si tratta per lui di un ritorno a Firenze, dopo le sfortunate stagioni a Milano col Milan, dove è stato tormentato da una lunga serie di infortuni. Proprio in ‘memoria’ di tanta malasorte che lo ha a lungo tenuto fermo, lo ‘spogliatoio’ ha coniato per lui un soprannome tutto speciale: ‘Muffa’. Sì, mica male come fantasia, vero?”.

Animali. Non si rivela nulla di nuovo al pubblico napoletano ricordando che Alemao è un ‘centrocampista che riesce a mettere assieme tanta quantità di gioco con altrettanta qualità: bravissimo nei recuperi difensivi, è un ottimo ‘cacciatore’ di palloni”. Ma pochi sapranno che il baffuto brasiliano “possiede, in Brasile, una fattoria con moltissimi animali (cavalli, mucche, ecc.). Un’ultima curiosità: è bravissimo a giocare a biliardo”.

Compact disc. Chiudiamo con un altro “attaccante con buon ‘fiuto’ del gol, opportunista con i fiocchi dell’area di rigore”, Antonio Soda del Bari. Pensate, “appassionatissimo di musica, è un collezionista di compact disc”. Che matti, questi calciatori!

(1.continua)