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giovedì 17 novembre 2011

Gente da stadio: i primi anni

breve elogio del ragazzo del Cucciolone
Il primo anno mi abbonai allo stadio con il mio compagno di classe Raimondo. Non l'ho mai più rivisto.

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Approfittare della riduzione under 16 non fu un grande vantaggio. Ci diedero dei posti osceni in Distinti sud, giusto a metà della gradinata, con la vista al campo tagliata in due dal vetro delle scale. Di fatto, durante la partita dovevo scegliere se ingobbirmi (e vedere la partita attraverso il vetro, che più o meno equivaleva ad andare allo stadio con una maschera da immersioni) o stare sulle punte (e vedere la partita sopra il vetro, al naturale, ma facendo incazzare quello dietro di me). Era il secondo anno di Zeman e la Roma andava a fasi alterne. Non so di cosa parlassimo con Raimondo, nè ricordo chi fosse con noi (forse Giorgio, che poi, nel corso degli anni, è comparso e scomparso al mio fianco con rassicurante continuità). Dubito avessimo alcun rapporto con i vicini. In quella stagione si consumò il dramma di Roma-Inter 4-5, una partita folle in cui l'idealismo zemaniano scolorò - come purtroppo accadeva spesso - nel masochismo, nel manierismo ottuso, nella stupidità insomma. Quella sera c'era anche mio padre a vedere la partita. Non sono mai più tornato allo stadio con lui.

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Era mio padre che mi aveva portato per la prima volta allo stadio. Coppa Uefa, al primo turno la Roma sfidava il Benfica di Eriksson e di un certo Aldair. Entrammo in ritardo perchè volevano farmi pagare nonostante io non superassi l'altezza minima richiesta per pagare (all'epoca funzionava così: ti facevano mettere spalle al muro per misurare quanto eri alto, lo stesso gesto - ma meno tenero - di mia madre, con i segni a matita sulla carta da parati ogni anno un po' più alti). Andrea Carnevale segnò al primo minuto. Io mi persi quel gol. Altri non ce ne furono. Poi tornammo spesso. Partite di secondo piano. Ricordo una goleada contro la Cremonese e una contro il Bologna. In quarto ginnasio iniziai ad andare anche da solo. Un rocambolesco Roma-Empoli 4-3 lo vidi in curva con Federico. Lo andai a prendere a casa della zia dietro la Farnesina portando in dote un buon numero di crocchette del bar Euclide e poi sciamammo a piedi fino allo stadio parlando dei Marlene Kuntz. Indossavamo entrambi lo stesso loden che, almeno io, indosso tutt'oggi, e che fa tanto governo tecnico. All'epoca il tecnico era Zeman ed infatti la partita fu al limite del ridicolo, tant'è che la dovette risolvere il russo Omari Tetradze con una improbabile discesa sulla fascia destra (dopo il gol, il mio amico urlò: "Omarì, ti amo e ti ho sempre amato sin da quando giocavi nel campionato russo"). Di quella squadra ricordo con piacere il centrocampo: Eusebio di Francesco, Ivan Helguera e Cristiano Scapolo. Soprattutto per il terzo stravedevo. Peccato che, neanche a dirlo, dopo un paio di apparizioni nel girone di andata, anche lui non l'ho mai più rivisto.

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Scottato dall'esperienza-vetro, il secondo anno decisi di cambiare posto. Cambiai anche compagno di abbonamento e mi ritrovai in fila a piazza Colonna insieme al caro Nesat, colui che, negli oscuri anni delle scuole elementari, lontano dagli occhi indiscreti di suor Maria Luisa, mi aveva introdotto al calcioscommesse ("Stasera c'è Cagliari-Mechelen: giochiamoci 500 lire su chi vince"). Per gustarci dall'alto i movimenti delle linee zemaniane, dolci come una coreografia del Teatro Mariinsky di San Pietroburgo, facemmo la scelta coraggiosa di abbonarci in ultima fila. Fila 80, per l'esattezza. Dietro di noi, il vuoto. Dopo 11 anni, siamo ancora lì.

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Peccato che il nostro piano venne frustrato dall'esonero del boemo. Arrivò Capello e stare così in alto non ci servì più a nulla (per anni non si è più visto un fuorigioco ben fatto all'Olimpico). Però rimanemmo e quei primi anni della mia vita allo stadio, una buona prima metà, sono stati segnati da una confortevole ripetitività di luoghi e persone. Mentre la Roma vinceva come mai nella sua storia, e allo stesso tempo sprecava occasioni per vincere di più come mai nella sua storia, io e Nesat riuscimmo tuttavia a non integrarci mai davvero con la gente intorno a noi, che pure era sempre la stessa. In particolare davanti a noi sedevano tre ragazzi di qualche anno più grandi di noi, di cui due erano fratelli e l'altro un amico del fratello minore. Questi tre - con cui, in tani anni, non familiarizzammo mai, probabilmente neanche scambiammo mai una parola - erano espressione di quell'inconfondibile ceto quasi-medio romano, di ex-borgata ormai urbanizzata, di emerita stirpe ministerial-catastale, che all'epoca si riconoscevano per il pizzetto e le Adidas scamosciate che portavano ai piedi, oltre che per una maniera di comportarsi che trasudava cd di Vasco Rossi in macchina, placide estati ad Anzio-Lavinio e certe minime aspirazioni di lasciare al loro destino gli amici del baretto per entrare, magari dopo aver impalmato la figlia del dirigente dell'Agenzia delle Entrate compagna di liceo, nella borghesia adagiata sulla direttrice Piazza Irnerio-Via Baldo degli Ubaldi-Via Candia. Il più grande dei tre - il fratello maggiore - era un tipo silenzioso, dall'aria introversa di quello che la sapeva lunga, che "aveva vissuto", che rasentava la sosiaggine con il cantante Daniele Silvestri. Non parlava molto ma quando lo faceva tutti lo ascoltavano con devozione, soprattutto quando tirava una bestemmia contro l'arbitro o un avversario falloso. Il fratello minore gli assomigliava solo fisicamente. Spesso colto da trance agonistica, poteva lanciare improperi anche per novanta minuti di fila. Erede della grande tradizione istrionica romana, si vedeva lontano un miglio che arrivava allo stadio con alcune battute di spirito già preparate a casa, e al momento giusto si alzava in piedi - sempre approfittando di un momento di silenziosa risacca del settore - e le declamava agli amici, facendo ben attenzione a farsi sentire anche dagli altri vicini (noi per primi). Peraltro, per rendere queste sue frasi ancora più ad effetto, calcava il più possibile la sua cadenza romanesca. Adesso non ne ricordo più molte, ma sì ricordo che una su tre aveva a che vedere con Marco "a' cammellò!" Delvecchio, il quale veniva di solito assimilato a Bocelli. Poi ci fu l'episodio di Mondragòn.

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Faryd Aly Camilo Mondragòn era il portiere colombiano del Galatasaray. Nel più bell'anno della Roma, quello in cui strapazzammo anche il Barcellona, la nostra corsa trionfale in Champions League venne frenata, prima del tracollo sotto la Kop, dal pareggio interno contro i turchi (una vittoria quel giorno avrebbe trasformato il viaggio inglese in una scampagnata sul Merseyside). Prima, durante e dopo la partita c'era quindi molta tensione, sia in campo (tutti si ricordano il parapiglia all'uscita di scena) che sugli spalti. Dopo il vantaggio ottomano ci fu, proprio all'inizio della ripresa, il pareggio di Cafu. Il secondo tempo si convertì così in un assedio giallorosso all'arma bianca, che non portò però al gol-qualificazione anche per colpa dei miracolosi interventi del folcloristico portiere ospite. Esasperato da tale performance, il nostro vicino di posto con l'improperio facile produsse quello che, a mio parere, rimane il suo capolavoro. Tiro dalla distanza; gran parata di Mondragòn; "uuuhhhh" dell'Olimpico seguito da silenzio tombale; il nostro amico si alza in piedi, si sistema il ciuffo, rotea l'occhio a destra e sinistra per palpare la tensione della gente, capisce che tutti aspettano la sua sentenza, e la spara:
A' Mondragò, tanto torni a casa e trovi tu fijo impiccato.
Così, totalmente gratuita. Io e Nesat ci guardiamo e pensiamo alla stessa scena: il pullman dei giocatori del Galatasaray che arriva al centro sportivo alle 3 di notte, Mondragòn che prende la macchina per tornare a casa, la parcheggia in garage, sale le scale, gira la chiave nella serratura, apre la porta, si toglie la giacca, appoggia la sacca all'ingresso, beve un bicchier d'acqua, apre la porta della sua camera da letto, la moglie dorme silenziosa, prosegue per il corridoio, sbircia dentro la stanza di suo figlio, non lo vede a letto, per un attimo si spaventa, accende la luce, e lo trova dondolante, appeso con una corda ad una trave del soffitto. Sulla scrivania, accanto al quaderno dei compiti di matematica, un foglio a quadretti, con una scritta: "Lo siento, papà".

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A riportatre l'allegria ci pensava il terzo amico, che peraltro non veniva sempre. Era un ragazzo tarchiato e pelato che diventò presto il nostro mito per via del suo rapporto bizzarro con l'umorismo. Si capiva che soffriva la presenza dei due fratelli: il minore, che poi capimmo essere il suo amico, era troppo più brillante di lui; il maggiore, che poi capimmo non lo sopportava proprio, era troppo più saggio. Questo povero ragazzo era il classico romano che vuole sempre fare il brillante, quello che, per citare un noto film di Verdone, a a me 'a battuta me piace. Peccato che le sue battute facevano pena, non facevano ridere per niente. Quando poi provava a condirle con qualche improperio, per scimmiottare il suo amico, gli riuscivano ancora peggio (non era credibile il suo atteggiamento da duro). Per questo motivo noi l'avevamo ribattezzato "il ragazzo del Cucciolone". Ci eravamo cioè convinti che fosse lui il misterioso autore delle mirabolanti freddure che si trovano impresse sulla cialda del celebre gelato (del tipo "ho un gommone da otto metri" "e che ci devi cancellare?"). Il livello era quello. Ma la cosa più divertente fu un'altra. Il ragazzo del Cucciolone, per innalzare il livello della sua performance cabarettistica, e farsi così benvolere/accettare dai due fratelli, aveva trovato uno stratagemma. Fondamentalmente, quando ci sentiva ridere (e ridevamo, e ridiamo, molto spesso), si metteva ad ascoltarci, carpiva le battute che io e Nesat ci scambiavamo, le memorizzava, faceva passare dai trenta ai quaranta secondi (i quaranta secondi più lunghi della sua vita, perchè fremeva al pensiero della risata scrosciante che avrebbe provocato con quella battuta che stava per pronunciare, di solito anticipata da un concitato "a regà a regà sentite questa") e poi le sparava ai due fratelli, che alle volte gli facevano caso, altre meno. Ora, a parte il fatto che ci faceva ridere che ci copiasse le battute, sapendo peraltro che noi lo avremmo sentito, la cosa più spassosa era che, da sempre, l'umorismo che condivido con Nesat è molto personale, auto-referenziale, nonsense; cioè, il più delle volte ridiamo per cose che, tendenzialmente, possiamo capire solo noi e chi ci conosce. Il ragazzo del Cucciolone, accecato dal bisogno di ilarità, non aveva invece alcuno spirito critico, non filtrava le nostre freddure, e le ripeteva anche quando non le capiva, con la conseguenza che, appunto, i due fratelli non scoppiavano sempre - per sua grande delusione - in grosse risate. Con grande cinismo decidemmo allora con Nesat di escogitare un piano: praticamente, previo un cenno di intesa, uno dei due diceva ad alta voce, premettendo che sarebbe stata una battuta memorabile, una stronzata di dimensioni colossali, che non solo non faceva ridere, ma spesso non aveva neanche senso in italiano (esempio: "ahò, Paulo Sergio sembra che s'è magnato un frigorifero" "sì, cor cenone de capodanno dentro" "ahahahahah sei troppo forte" "questa è proprio buona"). Tempo trenta secondi, e la battuta veniva ripetuta dal ragazzo del Cucciolone ("a regà a regà sentite questa: ma che s'è magnato Paulo Sergio, er frigorifero cor cenone de capodanno dentro?!"). Ovviamente non rideva nessuno (alle volte succedeva che capiva male le battute e le ripeteva modalità telefono-senza-fili: "a regà a regà sentite questa: ma che er cenone de capodanno lo famo da Paulo Sergio?!"; oppure: "a regà a regà sentite questa: me so' comprato er frigorifero de Paulo Sergio"). A fine stagione Capello lasciò la Roma di nascosto, e io non ho mai più rivisto né i due fratelli né il ragazzo del Cucciolone.

(continua)