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mercoledì 4 marzo 2015

Il Montefeltro del pallone: tra Edipo e Daniele Zoratto



1) Urbino, 1991-1995

Ai tempi dell’oratorio non eravamo che il germe della ciurma di blasfemi e fumatori che avrebbero animato nel giro di qualche anno i vicoli dell’Urbe. Coltivavamo con parsimonia il mito di un tale Angelo, molto più grande di noi, che aveva giocato nel vivaio del Parma e poi nelle serie minori. Sapevamo anche che se giocavi bene ti prendeva il Cesena. Sapevamo che Andrea e Simone a 16 anni avevano fatto alcune presenze nella Vis, che Danilo non aveva passato il secondo provino con il Toro per colpa (versione mai confermata) di un piatto di tagliatelle ai funghi maldigerito nell’incauto pranzo pre-partita, che altri (Mattia, in particolare) si erano rotti il crociato alla vigilia del provino della vita. Quelli forti arrivavano al massimo tra Pesaro e Fano; qualcuno, più di rado, finiva tra Ancona e Ascoli. Sapevamo che l’Urbino negli anni Quaranta aveva militato in C e che tale Gaudenzio Bernasconi, ex-Samp e Nazionale, aveva trascorso un periodo a Urbino tra 1968 e 1970: allenatore-giocatore, che manco Vialli al Chelsea.

A parte che ero scarso duro e stavo in panca anche ai tornei tra le varie sezioni delle scuole medie, avevo capito con buon anticipo che nessuna società avrebbe posseduto il mio cartellino. Non ho mai disputato una partita d’addio: dei miei scarpini appesi al chiodo si sono accorti solo i più nostalgici del me grasso e novenne, che aveva qualche chance come difensore centrale quando tutti erano alti uguale. Scelta saggia, avrei pensato in seguito. Meglio il nozionismo di chi ne parla senza giocarci. Ricordare a memoria Figurine; collezionare magliette-rarità: l’armadio raccoglie, a tutt’oggi, quintali di polyestere declinati in Overmars all’Arsenal, Gullit al Chelsea, Savicevic financo al Rapid Vienna, Butragueño al Real.

Non l’ho mai troppo capita, questa propensione dei miei (di miamadre, in particolare) a disprezzare gli sport di squadra. A parte che ero scarso e non potevo certo imputarlo a loro, non gradivano che mi sbucciassi le ginocchia e consumassi tute sempre nuove e di marche importanti. Volevano che portassi la camicia e la riga da una parte: benché atei e compagni di prim’ordine (la tecnica della persuasione “porta a porta” era rievocata con grande pathos ad ogni elezione comunale, prima che diventasse appannaggio nord-leghista) temevano il mio contatto con la bestemmie e la suburra, con le botte in campo e le goliardate in spogliatoio. Sottoproletariato culturale, they said.

Dunque tennis, nuoto, bicicletta. Purché non ci fosse squadra. Purché si rimanesse ben distanti da qualunque ambiente replicasse lontanamente quella specifica modalità di aggregazione. Tennis, per non sbagliare, anche con un maestro privato. Centri Federali Estivi; il C.O.N.I.; Serramazzoni.
Ormai ginnasiale, mi restava solo la saltuaria soddisfazione di giocare - solo nei tornei scolastici - nella squadra del Bomber: uno alto un metro e sessanta che in qualunque sport dava la merda a tutti, con cento metri in undici secondi e 180 centimetri di salto in alto. Mi è sinceramente dispiaciuto, quando anche il mio Bomber ci ha rinunciato: ho appreso solo di recente che, passato al calcetto, il Bomber si è trasformato in difensore e rompe i culi stricto sensu. Tutti hanno avuto almeno un conoscente Bomber, una volta nella vita, ma sono pronto a giurare che il mio meritasse la qualifica molto più di tutti gli altri simil-bomber di cui i miei colleghi millantavano conoscenza diretta. I miei amici, nel frattempo, qualche presenza l’avevano pure fatta: D, Eccellenza, Promozione. Stavano iniziando piano piano, a dare la colpa alle dirigenze, a procuratori che via via bruciavano i loro sogni trequartistici obbligandoli a pensare all’Università, se non alla ricerca di un lavoro per subito.

Comunque non mi è mai andata giù, ‘sta roba del “sottoproletariato culturale”.

Culla del Rinascimento, fine dei sogni calcistici.


2) Piobbico (PU); Parma (PR); Padova (PD), 1975-1995


Il Montefeltro è terra di fatiche, di abnegazione non ripagata, di monti che cingono persone che guardano a quegli stessi monti come a dolci catene cui imputare ogni insuccesso. È la prigionia della gente d’Appennino, condannata a contemplare con amore folle una terra straordinaria e maledetta. Daniele non fa eccezione: anche a lui quelle colline sembrano un giorno mostri e un giorno amici del cuore. Anche senza la minima idea di chi sia Paolo Volponi, Daniele sa che il cammino che potrà portarlo via da quella classe di geometri di Urbania, dove è l'ultimo non solo per ordine alfabetico, è tortuoso almeno quanto i suoi monti. Gli è successo, incidentalmente, di diventare un mediano polmonare, di concentrarsi cioè ossessivamente sull'andare su e giù. Non è che non voglia fare il geometra, Daniele: è solo che non vuole fare il geometra per forza. 

In realtà Daniele non è un sentimentale. è anzi un discreto stronzo e se ne compiace. Se in campo non parla, in classe non è il ragazzino impacciato davanti ai professori che lo correggono; risponde spesso di traverso e quando può prende per il culo i più disadattati. A cosa si giochi, nelle ore di ginnastica, è superfluo domandarselo: intanto perché al geometra sono tutti maschi; in secondo luogo perché Daniele, democraticamente, impone a tutti la sua politica. Certo non ama studiare: riversa tutto il suo odio su quella di diritto, un'aristocratica venticinquenne che ha avuto una supplenza annuale nel bunker urbaniese e che presto diventerà avvocatessa. La odia, perché ha proposto di non fargli passare l'anno. Daniele è venuto a saperlo dalla madre, dopo i colloqui di metà quadrimestre. “Signora Zoratto” si è sentita dire la madre dal corpo docenti “non ci è chiaro se il ragazzo non si applichi o sia un po', come dire, limitato nell'apprendimento. Soprattutto, signora, il problema è che il ragazzo a volte è molto sgarbato”. Mamma Zoratto ne soffre, perché vorrebbe che il figlio si togliesse da sotto le unghie quella terra che per generazioni ha sporcato le mani di tutta la loro famiglia e li ha costretti ad emigrare in Lussemburgo, dove Daniele, peraltro, è pure nato. In realtà Mamma Zoratto soffre più per lo “sgarbato”, ma quando torna e s’incazza la butta prevalentemente sul discorso dei voti. Teme che dovrà rassegnarsi molto presto: Daniele, il tempo per fare i pallosissimi compiti di diritto, non ce l’ha. Come tutti i quindicenni molto forti a pallone. 

Daniele si allena quattro volte a settimana, il sabato ha la partita e ogni tanto lo mandano nell'under. Se rimane almeno un altro anno a Piobbico lo porteranno in prima squadra, nei dilettanti. Potrà fare qualche presenza, avrà centomila lire al mese e si vedrà messo alla prova in una categoria già importante. Vedrè che quest’ maché i dilettanti li magna, dicono i piobbichesi classe millenovecentodieci che passano i pomeriggi a vedere gli allievi di quello strano capitano, arrogante ma muto, che non segna nemmeno per sbaglio. Hanno vinto tutti gli incontri casalinghi del girone d'andata. Hanno umiliato il Fermignano, ne hanno dati due all'Urbania e hanno beffato l'Urbino al 79'. Nel derby con l'Apecchio Daniele ha notato dei movimenti dalle sue parti, si è sentito osservato. Sergio, il tuttofare del campo sportivo, l'ha ribadito a capitan silenzio a fine partita, e poco dopo gli hanno presentato quel signore di Bologna che voleva conoscere i suoi genitori. 

Al babbo, Daniele non ha mai parlato apertamente delle sue possibilità di riuscita nel calcio. Prima di tutto perché sono due orsi, lui per primo. E per quanto sappia che il babbo gli vuole bene, pensa che non dia importanza a questa storia del pallone, perché ha conosciuto la miseria e vuole solo che il figlio finisca gli studi e si metta a lavorare. In più, tra un po', Babbo Zoratto vorrebbe andare in pensione. In realtà il babbo lo guarda eccome, Daniele, agli allenamenti. Passa al campo in lambretta, dopo le cinque, fingendo di essere lì per caso perché non gradisce che lo credano uno dall’illusione facile. In ogni caso Daniele è sempre troppo occupato per accorgersene: in genere sta pressando a centrocampo, perché non sopporta di dover aspettare che i suoi compagni recuperino palla. Il babbo guarda per qualche minuto, poi se ne va. Si agita, perché sente che non saprebbe come consigliare il figlio per il meglio. Sarebbe un coglione a non essersi accorto che Daniele ha una dote, anche perché non fanno che dirglielo tutti: lo fermano per strada, per ricordarglielo. Solo, ha paura che Daniele - che a suo avviso è solo un buono mascherato da bulletto - accarezzi un miraggio per poi essere costretto a tornare a Piobbico in veste di carpentiere.A casa, dopo una certa telefonata, il babbo prende coraggio e si decide. Affronterà l'argomento in presenza della moglie, perché da solo teme di non farcela. Mamma Zoratto, che parla e ragiona proprio come una mamma, sa invece che Babbo Zoratto ha solo paura di voci rotte e lacrime preventive: è così che lo prende per mano e aiuta i suoi due uomini-orsi a ragionare. La soluzione migliore per Daniele è che aspetti un altro anno, poi potrà lasciare Piobbico per Cesena. 

Daniele mantiene il segreto ma è contento, perché ha davanti un po' di tempo per prepararsi al salto. A giugno, viene ammesso alla terza geometra con un solo debito. Tutto sommato non gli dispiace, poteva andargli peggio; pazienza se a settembre avrà l'esame di riparazione. Quando però settembre arriva, quella di diritto è cambiata e l'orale è una formalità. Il nuovo insegnante, informato della particolare situazione professionale dell'alunno, si complimenta con Zoratto per i suoi meriti sportivi, senza fargli nemmeno uno straccio di domanda sulla Costituzione. Il verbale, in qualche modo, viene riempito; Zoratto è congedato e ufficialmente promosso. È strano per Daniele, perché non si sente amareggiato: eppure, pensa, ha passato l'esame in qualità di imbecille. Si sente una merda solo perché, mentre lui è passato, Franceschino è stato stangato. Franceschino è affetto da nanismo, che in una qualunque scala gerarchica sarebbe un motivo per essere promossi persino più valido del suo brillante avvenire calcistico. In macchina verso la Romagna, Daniele giura che proverà a fare meno lo stronzo. Almeno sul campo, sarà molto severo con se stesso. Tornando da Cesena il signor Zoratto non resiste, e mette il nastro di Lugano Addio di Ivan Graziani.

Ai tempi d'oro, allenato da Nevio Scala.

***

Daniele - che talvolta riesce persino ad essere un razionale - intuisce in fretta che tra i professionisti è durissima, tanto che il Manuzzi nemmeno lo vede. Quando raggiunge la squadra in ritiro, lo mandano subito a Casale, in serie C, senza discutere. La provincia di Alessandria si rivela un posto freddo e inospitale, per di più lontanissimo da casa, in cui Daniele si sente come un ragazzo del Novantanove. Se possibile parla ancora meno e fisicamente soffre il confronto con colossi dal fisico già formato, uomini fatti e finiti rispetto ai quali si sente - a ragione - ancora un ragazzino. Non gioca quasi mai, Zoratto, e torna dal prestito con appena quattro presenze in tutta la stagione. Va meglio l'anno seguente a Bellaria. Il problema è che l'hanno fatto scendere di un paio di categorie, e in molti sono già scettici sul suo effettivo valore. Secondo gli allenatori è un po' stupido, forse non si applica, sarebbe forte ma a volte si perde.Quando il Cesena ci scommette, a Daniele non sembra vero. Zoratto esordisce in Serie A nel 1981-'82: i marchigiani più in voga in quel periodo sono il guizzante Roberto Mancini, attaccante del 1964 che stupisce tutti a Bologna, e Luca Marchegiani, di Jesi anche lui, con cui Zoratto si incrocia un anno a Brescia, nel 1987. Poi Rimini, per un ritorno in Romagna in grande stile, proprio mentre la riviera sta sfornando non mediani ma attaccanti capelloni: su tutti, pare, Neri Maurizio e Agostini Massimo, che nel particolare bestiario del tempo è conosciuto come il condor. Questa Romagna attorno a cui sta ruotando la sua carriera non è male, pensa Daniele, ma è tutta un'altra cosa. Come sempre: nulla da dire sulla piadina, ma la crescia sfogliata è nettamente meglio. È il triplo strato di strutto che fa la differenza.

A Brescia Daniele è ormai un ometto e ci rimane per un po'. Dopo qualche anno può permettersi il lusso di giocare in A, salvo poi riuscirci stabilmente solo a Parma, dove vince addirittura delle Coppe Europee e viene premiato dalla Nazionale di Arrigo. Esordisce in Svizzera, a Berna, e l’Italia di Arrigo perde 1-0. Qualcuno, a Piobbico, ripensa ad un certo giorno, con Lugano Addio sparata a mille e si commuove. Ha trentatre anni, Daniele, ma si rifiuta di pensare che il punto più alto della sua carriera l’abbia raggiunto da coetaneo di un certo predicatore fricchettone che è molto simile, nell’immaginario comune, al suo amico Marco Osio. Ritorna anche ad essere spavaldo come ai vecchi tempi. Per carità, in campo vige il silenzio più assoluto, ma con qualche ragazzo più giovane ed educato, tipo Melli, può anche permettersi di fare lo sborone. Pare che Osio ancora lo prenda in giro, quando si sentono: Marcone ricorda a Zoratto di quanto si risentisse (l’espressione più appropriata parrebbe “come una bestia”), quando gli davano del marchigia’. Finisce a Padova per chiudere con dignità, ma non si risparmia l’incazzatura di giocare poco e di rischiare in prima persona l’onta della retrocessione. In fondo, quando ci ripensa, sa di non essere stato poi tanto male. Meglio di un morto in casa, perlomeno.

***

A cinquant'anni Daniele Zoratto è un punto di riferimento delle rappresentative under. Allena, per conto dell'Italia, ragazzi che hanno di regola non più di 17 anni. La scelta della Federazione è caduta su di lui perché, oltre ad aver accumulato importanti trascorsi nei settori giovanili di varie società (meno bene a Modena, tra gli adulti, in combo con l’amico Apolloni), rappresenta un percorso reso esemplare dal sacrificio. Daniele ora è un cinico che ne ha viste tante, è persino spiritoso con la stampa che lo intervista nelle tournée delle sue rappresentative. Del ragazzetto arrogante delle origini non restano che i lineamenti, ma solo sullo sfondo e molto più addolciti. Daniele è una figura d’esperienza, che guida i giovani verso carriere assennate e sogni controllati. Dice ai suoi ragazzi che per non finire come Vincenzino Sarno ci si deve, semplicemente, rimboccare le maniche. Fa spesso battute, con i suoi giocatori: gli servono per dire ai suoi ragazzi - tra le righe - che il peggior nemico di Zoratto è stato Zoratto.

Poteva andare meglio, in quel di Berna...


3) Urbino, Palazzo di Giustizia, 1996 o poco più

Miamadre non ha mai amato il calcio. Non in quanto donna, ma in quanto figlia, sorella, cugina, moglie e madre di calciomani che l’hanno bombardata dal primo quarto d’ora della sua esistenza. Giornali della Juve al cesso, fratelli sivoriano-charlesiani fino alla morte, che scrivevano Anzolin et cetera su ogni superficie possibilmente imbrattabile, senza risparmiare i dizionari di Latino.
Poi è scappata a fare supplenze tra Udine e Saluzzo, proprio nel periodo in cui un suo amico giocava nella Triestina. Bel clima, nella Napoli del Nord, ma che palle andare allo Stadio a venerare il reame di Rocco solo per mostrarsi ospitali con tutti gli urbinati che, ogni quindici giorni, andavano in pellegrinaggio in Friuli a dare manforte al conterraneo.
Quindi è stata assorbita da un compagno che in realtà aveva la fissa di Lasse Viren, Anquetil e Gianni Brera, ma la filastrocca di Anzolin la conosceva benissimo anche lui (come Sarti-Burgnich-Facchetti, ma quella pare fosse d’obbligo fino a Jair-Guarneri-Picchi). Dunque si è sempre detta juventina, miamadre. Che io ricordi, ha avuto solo qualche momento di baggismo come ogni madre italiana. Al massimo, ha pensato che Padovano fosse un personaggio romantico (dire “bello” pesa come un macigno, ad essere edipicamente onesti); ha ammesso davanti a testimoni che Zinedine aveva un certo stile, e che la chierica lo rendeva forse ancora più interessante. Ha amato Gigirìva, quello sì.
Poi ha avuto un figlio, collezionista di magliette, che dal Novantaquattronovantacinque (parola unica e indivisibile) non ci ha capito più un cazzo, mentre Romario e Baresi, in copertina, ballavano un ballo nuovo.

L’umanizzazione di miamadre è iniziata quando un giorno, tornata a casa, mi ha raccontato di un incontro avvenuto con un tale in tribunale, di mattina. “Non mi riconosce?” le domanda il tizio, che ci tiene a precisare come stia facendo la fila in attesa di ufficializzare una separazione. “No” risponde miamadre, aggiungendo, in pieno formalismo avvocatizio “Mi scuso. Chi è?” - “Ma come, non mi riconosce Professoressa? Io sono Zoratto, lei è stata la mia insegnante di diritto!” “Ah!” dice miamadre simulando interesse e ricordando all’istante registri compilati per conto di direttive arrivate dall’alto. “Molto bene! Che piacere! Cosa sta facendo adesso?” Pare che Zoratto, a quel punto, si sia scurito in volto e abbia glissato, tornando in fila. A pranzo, raccontandomi l’incontro, miamadre non ha potuto fare a meno di aggiungere: “Non c’è niente da fare. è rimasto proprio un gran patacca”.

Non ho capito se in quel momento a parlare fosse mia mamma, un avvocato o una professoressa di diritto. Ma forse, alla fine e col senno di poi, miamadre l’ho capita un po’ di più.


Forse l’autografo l’avrei voluto, ma non importa. 

giovedì 30 ottobre 2014

Cattolicità del calcio (un post, necessariamente, uno e trino)



Dimas Manuel Marques Teixeira.
Appare in questo post per mere, e dunque profonde
e insondabili, ragioni nominalistiche

Mettiamo, anche se non è vero, che ieri mi ha chiamato Jorge Bergoglio (Papa Francesco, per i meno intimi).
- Perché non scrivi un bel pezzo per Lacrime di Borghetti?, mi fa (il pontefice conosce e apprezza Lacrime di Borghetti, ve lo posso assicurare; anche se in effetti è convinto che il nome sia un omaggio a Jared).
- Lei ha ragione, Santo Padre; ma non mi viene nulla di valido...
Ho percepito allora, dall'altra parte della cornetta, un silenzio riflessivo; e poi di nuovo la voce di Bergoglio che mi diceva: "Sai (beh, lo saprai già...), io ho due passioni: il calcio, e il cattolicesimo. E so che anche tu non sei insensibile all'argomento... Sicché pensavo: perché non unire le due cose? Io credo che ne verrebbe fuori qualcosa di carino.
- Calcio e cattolicesimo, dice? Beh, possiamo provare. Ad esempio, potrei buttare giù una cosa così:


Tattiche e statistiche catto-calcistiche.
di Tommaso Giancarli, PhD

Il calcio è una creazione inglese e una realtà globale. Siamo oggi nel 2014; e possiamo dire dunque che è quasi un secolo che il nostro sport si gioca a livello mondiale e in modo dannatamente serio. Abbiamo soprattutto una messe ormai ingombrante, perciò affidabile, di dati: ed è quasi un dovere, prima ancora che una possibilità, trarne analisi scientifiche e basate sui numeri e sulla realtà.
Parlo di dovere nel senso di attribuire una dignità da disciplina reale e misurabile al calcio, invece di lasciarlo agli opinionisti, agli editorialisti dei giornali sportivi, ai polemisti che fanno caciara (e creano questioni sul nulla, e a volte producono dal nulla una violenza verbale facilmente infiammabile in contesti già propensi). Questo perché? Perché noi che amiamo il calcio sentiamo di doverlo rispettare ed onorare con l'esattezza e la precisione.
Il primo e principale strumento dell'esattezza calcistica è la troppo vituperata statistica; che è vista sovente come non pertinente al calcio fantasioso e imprevedibile, ma che - ove adoperata con intelligenza - ne rifrange invece la grandezza con tutta precisione e con impagabile chiarezza. E la statistica, rapportata al massimo evento calcistico appunto globale, cioè ai mondiali, ci dice che il calcio è affare cattolico. Non sarà un caso, infatti, che su venti edizioni per ben quindici volte si siano laureati campioni del mondo paesi di prevalente tradizione cattolica, quali Brasile, Italia, Argentina, Uruguay, Francia e Spagna; mentre per quattro volte ha trionfato la divisa Germania - in cui comunque il calcio è affare principale della cattolicissima Baviera e della piuttosto cattolica Renania - e solo in un caso l'Inghilterra antipapista.
Ciò ci porta ad affermare, senza tema di smentite, che pensare cattolico equivale a pensare meglio il calcio...

- Aspetta, aspetta, mi interrompe allora Bergoglio, - cos'è questa pappina? E poi che c'è di male a parlare di nulla? Uno potrà anche divertirsi un minimo, o deve sempre misurare ogni cosa?
- Santo Padre, cerco di raggiungere la fede attraverso la ragione, se posso rievocare Sant'Agostino...
- A dire il vero dovrei controllare i permessi, ma non sono certo che tu possa. In ogni caso non ci siamo, ci vuole qualcosa di più accattivante, stimolante, fiammante; te lo dico da latinoamericano.
- Capisco. Proviamo in questo modo:


L'inganno della predestinazione e le vittorie pretese.
di Tommaso Giancarli, Analyst

Si parla spesso, nel calcio, di "vittoria meritata"; se notate, però, lo si fa sovente quando questo merito viene reclamato contro le regole del gioco.
Mi spiego meglio. Non c'è niente da meritare. Dire "ha meritato, ha giocato meglio" significa di solito passare a un altro registro che con il calcio, sport profondamente cattolico, non ha niente a che fare, e che deriva semmai la sua legittimazione dal pensiero protestante oggi egemonico. Chi "ha meritato", infatti, è di norma chi ha tenuto più palla, chi si è avvicinato di più all'area avversaria, chi ha imbastito molte manovre potenzialmente pericolose, che è poi di solito chi ha in formazione i giocatori meglio pagati e più valutati; in breve, il passaggio da questo genere di meritocrazia alla sudditanza psicologica (quella per cui un rigorino, a chi ha meritato, possiamo anche giustificarlo, benché fosse tutt'altro che evidente, così come possiamo condonare un gol in fuorigioco, sì, però meritato), beh, è un attimo.
E quando dico "protestante" intendo soprattutto calvinista, con la ributtante concezione della predestinazione eletta a dogma e prassi di vita: e, fra una squadra che ha vinto scudetti e coppe e vanta una proprietà prestigiosa e una neopromossa, non sarò io a dirvi chi debba essere il favorito di un dio tanto meschino (per la verità anche Martin Lutero fece della sua dottrina una stampella dei prìncipi e una santificazione del classismo e dell'arbitrio dell'essere umano sull'essere umano, ma lui ebbe almeno il buon gusto di pervertire visibilmente, per viltà e per bassezza d'animo, la Riforma tedesca che invece era nata in tutt'altra maniera).
L'unico modo lecito di meritare, nel calcio, è di vincere seguendo il regolamento (che è comunque un regolamento saggiamente umano e fallibile, sia chiaro; in nessun senso voglio scagliarmi contro gli errori arbitrali): se è meritare mettere frequentemente degli uomini davanti alla porta avversaria, e certamente lo è, ebbene è meritare anche avere un portiere capace o fortunato, o una porta misteriosamente piccola; è meritare anche possedere diversi difensori bravi a ribattere di piede, di testa, di ginocchio; è meritevole anche il giocatore alto alto messo in barriera e bravo ad alzarsi sulla deliziosa palombella del 10 altrui, così come è meritevole il brevilineo che accorcia in un attimo i nove metri della distanza e para con la suola un tiro destinato all'angolino.
Quello che giustifica le ruberie in nome del merito è lo stesso meccanismo per cui qualcuno, senza arrossire, ritiene che un paese che è democratico al proprio interno sia legittimato, avendo ragione da sempre e per sempre, a - poniamo - gettare bombe...

- Dove vuoi andare a parare?
- Beh, polemizzerei con...
- Non devi polemizzare, figliolo mio. Siamo cattolici, ricordi? "Universali", vuol dire.
- Chiaro, ma abbiamo anche dei princìpi i quali...
- Lo so che abbiamo dei princìpi, ma suaviter in modo. E poi che brutto tirar fuori quella cosa delle bombe... No, in nome di San Lorenzo - grigliato e de Almagro - ti chiedo di inventarti qualcosa di meglio.
- Uhm... Diciamo allora che:


Zona Cesarini.
di tamas

Ero a Urbino, e non avevo molto da fare. Sicché sono andato a visitare l'Oratorio di San Giovanni, per vedere se avevano ragione quelle iperboli che lo descrivevano come "La Sistina del gotico". Mi inerpicai dunque per vicoli e scalinate (o scesi; non ricordo in effetti se mi trovassi, quando ho preso la mia decisione, più in alto o più in basso dell'oratorio stesso, e cioè se fossi in piazza o alla fortezza); e quando arrivai trovai che avevo invece raggiunto una sorte di Sistina del fastidio e dell'odore di cipolla stantia, visto che insieme a me, in quello spazio tutto sommato piccolo, c'era anche una classe delle medie, piena di ormoni, di voglia di correre via, di sudorazione, e in generale di tutto ciò che abbiamo odiato essere, al tempo, e che ora odiamo osservare.
Provai dunque sulle prime, soprattutto per non offrire altri pretesti di disattenzione ai monellacci, a stare sulle mie; ma lo spazio, come detto, è limitato, e in più la mia altrettanta limitata preparazione artistica e iconografica mi spinse ad approfittare subdolamente della spiegazione fornita - gratis, almeno per me - dall'accompagnatore della scolaresca. In quel momento la guida stava appunto illustrando l'affresco magnificissimo fra quelle pareti tutte magnifiche (sì, dimenticavo: è davvero una Cappella Sistina del gotico), quello sopra l'altare, che raffigura la crocifissione di Cristo. In esso sono dipinti con enorme maestria innumerevoli personaggi: ci sono i soldati, c'è la folla dei saggi barbuti, ci sono la Madonna e la Maddalena dolenti e assistite da altre dame, ci sono angeli e arcangeli, c'è il pellicano che si strazia il petto per nutrire i propri piccoli e c'è ovviamente il Cristo; e accanto a lui, come lui condannati dalla giustizia terrena, i due ladroni. Sopra quello alla sinistra del Messia sta un diavolo cornuto che ne ghermisce l'anima - sì, i bravi fratelli Salimbeni hanno disegnato anche l'anima; sopra l'altro, viceversa, si librano degli angeli, che ne accolgono l'anima in cielo.
Il buon ladrone si chiama Disma (o Tito, in altre versioni); ne conoscevo la storia, certamente, ma non gli avevo mai badato troppo. E avrei continuato a non badargli, nonostante il capolavoro urbinate, se quella ignota guida non avesse detto ai ragazzini, probabilmente per interessarli un po' di più a quei dipinti forse troppo immensi per la loro giovane età, che il ladrone era come un centravanti opportunista, diciamo un Inzaghi: in tutta la sua vita, per tutto il tempo che il Sommo Selezionatore gli ha concesso su questo campo di gioco solcato da lacrime, non aveva fatto nulla per meritare la fiducia dimostratagli, anzi aveva ciccato malamente fior di opportunità di redenzione; ma all'ultimo minuto, credendo in se stesso e nella grandezza altrui, aveva confessato al Cristo i propri peccati e aveva implorato perdono: come, scusate il paragone improprio che è farina mia e non della guida, un Bartelt che si affidi a Totti per vincere al 93° un match che sembrava segnato, o, si parva licet eccetera, un Max Vieri che creda nell'ultimissimo cross di Parente per andare a incornare sotto la Nord.
Ai bambini, quella pur immaginifica spiegazione parve non fare particolare effetto; ma io, ricordo, io rimasi elettrizzato da quelle parole e mi astenni a malapena dall'andare a baciare ed abbracciare il bravo educatore, temendo più che altro i "ma te vara sto finocchio" dei piccoli omofobi. Ma poi, uscita la scolaresca, rimasi diversi minuti nella chiesa, in stato di vivissima agitazione mistica. E mi ripromisi che presto avrei scritto di quel fortunato incontro e di quel bellissimo episodio; non tanto per esaltare la ricchezza del caso, ma per Disma-Inzaghi: per quel dannato, piedi storti e anima sudicia, che più di mille esempi teologici incarna la realtà del fede e opere e la cattolicità del calcio. Sport in cui non basta credere, ma tocca anche impegnarsi; né basta impegnarsi, perché bisogna anche crederci, e pensare che arriverà, prima che l'arbitro fischi tre volte, il tempo di un tocco rapinoso che trasforma, per i giornalisti pigri, una partita indecorosa in un superbo 7 (più tre per il fantacalcio). E ci si può convincere, perfino, che un giorno Bressan siederà accanto a Ronaldinho, e nessuno gli chiederà di rifare il suo gol; perché è bastato crederci e provarci una volta sola per meritare la gloria e la salvezza eterne.

- Figliolo, ora ci siamo.
- Santo Padre, io, tuttavia, io tifo Rosario Central.
- Il Signore, figlio mio, è misericordioso; e dicono perdoni anche alle canaglie.