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martedì 17 febbraio 2015

Di una scogliera, di un libro, di una sbronza



Dal cielo, giuro, cola una pioggerellina unta. Il centro abitato, grigio più della cenere, fa venire voglia di piangere dalla disperazione. La gente, la poca che si vede in giro, forse non piange perché ha semplicemente finito le lacrime.
Che cazzo fai lo schizzinoso, quando hai la possibilità di andare in giro per l'Europa per lavoro e avere anche un bel po' di tempo libero. Ma nel mondo ci sono postacci e postacci, e qualche volta l'unica cosa che ti viene in mente è scappare più in fretta che puoi.
Bellissima la Francia, ma il triangolo Dunkerque-Gravelines-Calais, diciamo così, non lo consiglierei. Bastano un paio d'ore per questa presa d'atto; e la prospettiva di trascorrerci, l'indomani, una giornata intera, è di quelle che tolgono il sonno. Niente di interessante nel raggio di 50 chilometri. Non un centro storico decente, un monumento, non uno stadio degno di nota. Neppure il brivido (di freddo, mica di emozione) di scavalcare un cancelletto per vedere il campo dell'Us Gravelines, roba di sesta serie francese, mi fa cambiare idea. E l'immagine spettrale di questa gigantesca centrale nucleare getta inquietanti ombre sul mio mercoledì nell'estremo nord della Francia.
Eppure una soluzione deve pur esserci. Anche l'opzione Calais, 25 chilometri più in là, mi pare leggerina: certo, la favola della squadra di dilettanti arrivata in finale di Coppa di Francia nel 2000... Ma io là cosa ci vado a fare? A Calais. Calais...
Eccola la soluzione. La risposta è dall'altra parte del mare: oltre la Manica c'è la terra promessa.


***

Il traghetto parte a mezzogiorno in punto. Un'ora e mezzo di onde da paura con la rassicurante compagnia di una ventina di camionisti e poi all'improvviso l'orizzonte si tinge magicamente di bianco. Le bianche scogliere di Dover. Non sarà Londra, d'accordo, ma ho un patrimonio di tre ore da spendere in Albione prima del traghetto di ritorno e il fascino di una cittadina portuale inglese non è mai in discussione. E poi ieri notte su internet mi sono fatto una cultura sulla città e sulla sua sfigatissima squadra di calcio.



Non piove, per ora, e dopo aver preso un po' di sterline in un bancomat e aver trovato chiuso l'accesso al castello, in cima alla collina, mi infilo in un negozio di libri usati. Ci sono chicche notevoli, ma non posso caricarmi troppo e così la mia scelta cade su un magnifico libro fotografico pieno zeppo di immagini d'epoca di calcio inglese. Il prezzo, scritto a matita su una pagina interna, mi lascia basito: 3 pound e 99, quando ero pronto a spendere quattro volte tanto.
Ora piove, ma solo chi ama l'Inghilterra conosce il piacere di una passeggiata sotto la pioggia. Anche perché è un'ottima scusa per infilarsi subito in un pub. 
Il Prince Albert è il classico pub dell'angolo, in cui il tempo non si è fermato ma è di certo passato più lentamente che altrove. Avventori over 60, tutti rigorosamente soli con la loro pinta; arredi piuttosto datati; coppia di quarantenni che si sfidano a freccette; camino pronto per l'uso; telefono a rotella su un tavolino. E una lager che va giù che è una meraviglia. Tutto fantastico, anche l'accento della signora di mezza età che sta dietro il bancone e tiene bene il passo (alcolico) degli avventori.


La tappa successiva, poco oltre i resti di una chiesa sventrata dai bombardamenti tedeschi, è in un pub meno spartano ma comunque pieno di fascino retrò. Mi viene in mente che ancora non ho pranzato, e mi ricordo anche del libro appena acquistato. Davanti a uno stufato di carne e patate e a un'altra pinta, stavolta scura, inizio a sfogliare questo favoloso contenitore di storie color seppia. Stadi strapieni, tifosi che vanno allo stadio in carrozza, signore col cappello che varcano i cancelli di Wembley, finali di Fa Cup finite con invasioni di campo oceaniche, scarpe da gioco grosse come scarponi da sci, palloni duri e pesanti come massi di pietra.



Un signore anziano che mi teneva d'occhio da tempo si avvicina, sorride e senza dire nulla si mette a guardare con me le foto del libro. Sono già quasi sbronzo. A un suo cenno arrivano immediatamente due pinte, poi altre due. La situazione si fa pesante, anche perché l'uomo mi vuole portare allo stadio. Gli spiego che tra non molto dovrò prendere il traghetto, che devo assolutamente tornare in Francia per scrivere di una partita che si gioca stasera alle 9. Non ne vuole sentire e per non essere scortese, dato che ha pagato tutto lui, sono costretto a seguirlo. Dopo una breve camminata sotto la pioggia, da una stradina sbuchiamo su un muro bianco, o forse sembra bianco perché è avvolto dalla nebbia. L'uomo tira fuori un mazzo di chiavi e apre una porta, poi un'altra ancora. Ci troviamo ai margini di un campo di calcio, sul quale un gruppo di calciatori vestiti in modo bizzarro sta effettuando lunghi lanci da una fascia laterale all'altra. Non tirano mai in porta, sembrano incazzati neri e dopo un po' spariscono. Mi accorgo che sul prato ci sono migliaia di granchi. La mia guida mi tira per un braccio e mi porta in uno stanzino, proprio sotto la tribuna, al quale si accede direttamente dal terreno di gioco. All'interno ci sono centinaia di coppe, gagliardetti, vecchi palloni e maglie di lana dei primi del Novecento. Una pallonata fa vibrare la porta in metallo, ciondolare la lampadina appesa al soffitto e fa correre via i granchi. “Prendi quello che vuoi, non ci servono più”, dice l'uomo indicando i cimeli. Sono sconvolto. Arriva un'altra pallonata, stavolta più potente. Mi sveglio di soprassalto. Giro la testa, appoggiata al bracciolo di una poltroncina, e riconosco la moquette sudicia del bar della nave. Ho la bocca impastata, sono stordito. Sulla porta di ferro arriva un'altra pallonata, ma è solo il rumore del portellone di poppa che si apre sulla banchina del porto. Fuori è buio, l'orologio dice che sono quasi le 8 di sera. Un messaggio bilingue, in inglese e in francese, mi dà il benvenuto - o il bentornato - in Francia. Il cartello luminoso dice Calais. Il libro è al sicuro, nello zaino. Io non tanto. Ma mentre spingo la macchina a tutta velocità verso quello spettro di città, sorrido con un angolo della bocca al pensiero che poteva andare molto peggio: potevo finire mangiato dai granchi, o potevo passare tutta la giornata a Gravelines.


***
[After the hangover.

Sono arrivato puntuale alla partita, c'era persino l'accredito. A lavoro finito non ho trovato un solo ristorante aperto e ho potuto mangiare qualcosa solo grazie a un turco gentilissimo che a mezzanotte ha tirato su solo per me la serranda appena chiusa della sua bottega. Il suo kebab mi ha salto la vita. Nell'hotel che avevo prenotato poco fuori Gravelines - la centrale nucleare di Gravelines è la più grande della Francia e una delle più grandi d'Europa - non c'era anima viva e nessuno mi ha aperto. Ho giudato alla cieca verso sud sino alle 2 di notte, poi finalmente ho trovato un hotel a Lille. La mattina successiva il mio volo è stato cancellato e ho dovuto trascorrere tutta la giornata a Bruxelles. Il Manneken-Pis, l'Heysel, le birre d'abbazia, certo... Ma questa è già un'altra storia.


Dimenticavo. Il Dover Fc, fondato nel 1894, è fallito nel 1901, nel 1909, nel 1933 e nel 1947, ed è sparito definitivamente nel 1983. Al suo posto è nato il Dover Athletic Fc, che negli anni si è confermato una squadraccia. Alla fine dell'ultimo campionato è stato però promosso in Conference Premier (quinta serie inglese) dopo 12 anni di assenza. Lo stadio di Dover, il glorioso Crabble (1010 posti a sedere e 3642 posti in piedi al coperto), ha un nome che deriva dall'inglese arcaico e che significa "buco in cui stanno i granchi".]