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mercoledì 25 febbraio 2015

L'illusione del gol



Nonostante fossi ancora incazzato per lo scellerato gol di Portanova del giorno prima, tentando di celare per quanto possibile il mio viso diventato rosso d’un colpo, abbassai il mento fra le pagine del mio diario e dopo averlo sfogliato concitatamente trovai il giorno giusto - 3 Marzo 2008. Ancora leggermente imbarazzato scrissi qualcosa di futile, o forse feci solo finta. Peccato perché avrei potuto annotare: “Il panico più seducente della mia vita”. O forse già sapevo.
Avevo diciassette anni e venni distolto dalla spasmodica lotta salvezza da un evento florido di illusioni come un’amichevole agostana: uno scambio scolastico con un liceo di Madrid, sorteggiato perdipiù -unico della mia classe- per andare a soggiornare a casa di una ragazza incredibilmente bella. Per settimane nessun compagno mi passò più la palla.  

Non so con quale strana alchimia i professori spagnoli e italiani scelsero le coppie per lo scambio, si mormorava di oscuri profili caratteriali e monetine lanciate per aria.
Inspiegabilmente infatti, come scoprii attraverso la nostra lunga corrispondenza, I. era una ragazza arguta, intelligente e sensibile: frequentava un’accademia teatrale, attività che, come mi confidò assorbiva ormai tutto il suo tempo anche a discapito della scuola. Aveva lunghi capelli a cascata che le lambivano i lati delle sopracciglia lunghe e curvilinee e due occhi alteri che sembravano divorarti, salvo poi socchiudersi abbassandosi verso terra durante i sorrisi, come a proteggersi da una luce abbagliante.

I., altrettanto inspiegabilmente, abitava fra le fermate della metro di Pavones e Vallecas e tifava Rayo Vallecano, una informazione che dapprima relegai frettolosamente a vezzo marginale.
(Non vorrei divagare troppo ma la metro di Madrid non mi ha fatto né caldo né freddo, mentre un giorno troverò l’annunciatrice di quella di Barcellona e le confesserò di essermi innamorato di lei per la sensualità con la quale pronuncia “Passeig de Gràcia”: se potete fateci caso).

Quanto assomigliamo alle squadre che tifiamo?
O ancora, quale è la linea che ci separa da loro, se esiste?
A me sembra che sia molto labile, e infatti per esempio mi capita spesso, al concessionario o al supermercato, dovendo scegliere fra Romario e Ekstroem (1986…) di optare con sicumera per il secondo.
Mi è capitato pure, prima di uscire per qualche appuntamento, di ricevere una telefonata in cui sento raccontare che il motore s’è rotto, che è un segno del destino, che non se ne farà nulla.

Pian piano che il nostro incontro si avvicinava tuttavia, conversando con I. avvertii che il calcio avrebbe potuto forse avvicinarci in quel territorio-cuscinetto, scivoloso e misterioso, fra le mie timidezze e la brama di conoscere, magra e affamata come una iena.
Non era certo una intenzione esplicita la mia. Tuttavia, al tempo avevo da poco cominciato a rendermi conto come il calcio fosse talvolta capace di aprire squarci improvvisi. Avevo già vissuto lunghe stagioni a fianco a mio padre, usando il calcio come surrogato di una più convenzionale comunicatività, come un nostro personale linguaggio cifrato.
Ancora oggi mi sembra che le sue rimostranze circa mancati acquisti celino in effetti un certo generico risentimento verso la piega presa dalla società occidentale, d’altro canto altre volte è capitato che insieme certificassimo l’ottimismo circa qualche delicata situazione familiare semplicemente trovando gli aspetti positivi ritornando a casa da uno scialbo zero a zero, o che ci riappacificassimo per merito di un improvviso numero ammirato sulla nostra fascia.


Date le premesse, l’ineluttabile conclusione di questa vicenda è che a due settimane dalla partenza l’insegnante squadernò il registro, espettorò un paio di volte e con la verve di un prete di campagna che annuncia i tornei di tennis dell’oratorio ci comunicò che I. aveva dei problemi con la casa. Che I. non ci sarebbe stata e che le scale del Teresa Rivero non le avrei mai salite dietro di lei.
E tu sei lì in piedi, ancora sorridente e inebetito, quando ti accorgi che il guardalinee aveva alzato la bandierina.

A Madrid finii lo stesso a Vallecas, dirottato però nella casa di una famiglia talmente operaia e vallecana da essere uno stereotipo vivente - il fratello maggiore in particolare avrebbe potuto fare la comparsa in un film Quinqui degli anni Ottanta -, girava per casa con la maglietta degli Ska-P (o degli Eskorbuto, nei giorni di festa) e pantaloni di pigiamone tipo Kiraly. Ovviamente mi divertii tantissimo.
I churros nella cioccolata al risveglio, il fritto, la sangrìa rotolando all’ombra di un ponte sul Tago a Toledo, quel kebab fuori dal Reina Sofia con le formiche dentro ma mangiato ugualmente in onore di Dalì, Bosch, Buñuel e degli insetti che spuntano dalle loro rispettive opere, tuffarsi la mattina nella nebbia per poi riemergere all’aria la sera fra gli spruzzi di Estrella Damm.

*  *  *

Era il giugno di due anni fa, e un paio di ore prima avevamo perso la finale playoff.
Stavo affogando sul mio divano nell’afa insopportabile della sera, piacevolmente inerte e svuotato dell’ansia di quella sgangherata rincorsa durata otto mesi.
Avete mai visto le strade di una città dopo una finale persa?
La città era ingoiata da una risacca di silenzio. Ciò insieme alla feroce umidità conferiva a quella serata una tranquillità vagamente sottomarina.
Il soggiorno era buio, illuminato solo dalla fioca luce azzurra di un vecchio film in portoghese trasmesso da Fuori Orario: scivolavo serenamente verso il dormiveglia fino a quella fase in cui, in sere particolarmente placide, sento risuonare nella mente frammenti di canzoni dimenticate, sentite chissà quando e riaffiorate carsicamente, oppure composte dalla mia immaginazione per frustrarmi, data la mia incapacità di riprodurle con uno strumento prima di dimenticarle per sempre.
Ormai ero abbandonato come stessi facendo il morto in un lago, quando qualcuno mi prese per mano e, alzata la testa ancora scosso verso il televisore, vidi un viso familiare, e due occhi che languidamente guardavano fuori da una finestra verso un cielo nordeuropeo.
Dieci secondi… stavo quasi facendo ciao con la manina. Ma io a te ti conosco.  
Ricomponendo confusamente i cocci di pomeriggi perduti, fu con una certa vertigine che vidi il logo Mercedes chiudere quella pubblicità.

Il giorno seguente cercai, attraverso le mie fugaci conoscenze madrilene, informazioni su I., che vidi ricomparire sul mio pc, con i suoi occhi filtrati da saturazioni, dissolvenze pacchiane, istantanee da fotoromanzi e fiction varie, passerelle e bollicine di Freixenet. Il tutto imbiancato da un tono candido che avrebbe voluto essere chic, ma che mi ricordava sinistramente le intonacature di certe case di campagna stese per nascondere vecchie crepe, specialmente allorchè fioccavano di tanto in tanto sciarpe, bianchissime, del Real Madrid.

No, I., tu no, al Rayo non assomigliavi per niente. Tu La Vida Pirata l’hai sempre odiata, così come il lato senza tribuna del Teresa Rivero, perdipiù con i suoi muri scrostati. Vedendo le tue immagini provo un immotivato fastidio, come quando venduto un giocatore a una grande squadra ci imbattiamo in una sua intervista a doppia pagina con la divisa nuova, e non vi troviamo traccia della nostra realtà, della nostra cittadina, non ci troviamo più alcuna traccia di noi stessi.


Complimenti per la promozione. Adesso per te avranno un che di esotico gli estemporanei incontri con gli idraulici di Fuenlabrada o con i postini di Leganès, divertissement innocui e carnevaleschi perché limitati unicamente all'anarchia simulata della Copa del Rey. Sono sicuro che sfarfallerai magnificamente le tue ciglia strizzando gli occhi per chiosare su quando stavi a Vallecas: e tuo padre macellaio, la Vespa, la coppia d’attacco Piti-Pachòn e la volta in cui ti ho quasi conosciuta sembreranno schegge incoerenti e inspiegabili come una stagione al Marsala nelle statistiche della carriera di Evra.
Per qualche ragione porto ancora nel portafoglio la mappa, spiegazzatissima, della metropolitana. Pochi minuti fa ho ricercato in rete una versione aggiornata, e non ho più trovato i nomi di Pavones e Villa De Vallecas: forse imbiancati anche loro da un inspiegabile maquillage, e allora tutto mi sembra un sogno ancora più assurdo, forse vicende mai esistite. E anche stasera, col contrappunto in crescendo della risacca atlantica, attraverso i vetri della mia stanza le strade sono deserte come dopo una finale persa per il lancio di una monetina.

Si alguna vèz me he de casar, una del Rayo, una y nada màs."

mercoledì 25 dicembre 2013

Imma e il Barcellona. Un racconto di Natale




Para venir a poseerlo todo,
no quieras poseer algo en nada:
Para venir a serlo todo,
no quieras ser algo en nada.

San Juan de la Cruz

Ti ricordi, Imma, quando tornammo dal mare - era una fresca giornata di fine aprile, soleggiata, avevamo preso il treno ad Aragò e, dopo oltre un’ora passata a leggere i giornali e a guardare il Maresme fuori dal finestrino, eravamo arrivati a San Pol de Mar, e avevamo camminato senza meta per le sue strade di case bianche con l’intonaco macchiato dalla salsedine, prima di sederci al tavolo di un ristorante sulla spiaggia, con i piedi nudi nella sabbia e l’immancabile fritto di calamari - e, risalendo il Passeig de Gracia, trovammo la strada bloccata all’altezza della Diagonal, una folla tumultuosa assediata dietro le transenne, uno sventolio di senyeras rosse e gialle e vessilli azulgrana, tanto che ci dovemmo fermare, e fu anche piacevole per i nostri piedi martoriati dai granelli di sabbia nelle espadrillas, per attendere che passasse il corteo, il pullman scoperto, i giocatori festanti, la chioma bionda di Maxi Lopez, e tu mi chiedesti, con la faccia sorpresa ed elegantemente imbronciata, ma cosa sta succedendo? In quel momento pensai che tu, figlia del notaio, malinconica esponente della rigida borghesia catalana, cresciuta in una famiglia di soci del club, tu, con la tua carriera da giurista e i sogni da cantante d’opera, eri davvero una persona fuori dal mondo per non sapere che il Barcellona aveva appena vinto il campionato. Dopo quel giorno, dopo quella passeggiata, ve ne furono molte altre, quasi sempre inconcludenti, e per questo conservate nella mia memoria. Come quella volta che, dopo che finalmente avevi capito che mi piaceva il calcio, e che se il lunedì non ti accompagnavo al cinema non era perché non mi andava, ma perchè dovevo giocare in un campo arido e polveroso ai piedi del Monte Carmelo con una banda di sudamericani che, nel dedalo di strade intorno alla piazza dedicata a Francisc Macià, dove abitavi, si vedevano solo vestiti da camerieri, mi invitasti a vedere una partita importante - così diceva il messaggio, mi ha detto mio padre che stasera c’è una partita importante, non so cosa, vuoi venire a vederla a casa nostra? - e la partita importante era la finale di quella che un tempo si chiamava la Coppa dei Campioni, e io dissi di sì, che sarei venuto con piacere, anche se in realtà tutto questo piacere non lo sentivo, perché ero intimorito da tuo padre, il notaio, che, le poche volte che l’avevo incontrato, di solito fortuitamente quando ti accompagnavo sotto casa, mi dava sempre l’impressione di non fidarsi di me, di vedere nei miei occhi il desiderio sordido di deviare la carriera della figlia dal concorso notarile ai palchi dei teatri di provincia, o peggio, tuo padre temeva che io volessi entrare in te per entrare in società, quando io, in realtà, l’unica cosa che volevo, il mio desiderio più grande, era vederti seduta sulla terrazza di casa mia, al crepuscolo, era vederti contemplare la distesa dei tetti di Gracia, come tutto si diluiva in un colore indefinito tra l’arancione e il rosso, come tutto si disfaceva, e tanto meno avevo un’infanzia miserabile da trasformare in meraviglia perduta di fronte a un camino acceso nel Penedès. Quando segnò Belletti capii che il Barcellona avrebbe vinto, che il Barcellona avrebbe vinto sempre, e che io e te non saremmo mai stati insieme, perché tuo padre abbracciò tuo fratello e poi suo cognato, poi ti guardò con amore e guardò con amore sua moglie, che era uscita dalla cucina con uno scatto alla Eto’o e le presine in mano, tuo padre guardò tutti, ma non guardò me, perché sapeva che non tifavo il Barcellona, sapeva che odiavo il Barcellona, perché a me piaceva l’Espanyol, la sofferenza, le lacrime, aveva capito che ero una di quelle persone che detestano la normalità, il lento susseguirsi dei giorni a una temperatura tiepida, e aveva già iniziato la tua quarantena, aveva già iniziato a tenerti lontana da me. Quando a tavola mi chiese perché provassi tanta antipatia per la sua squadra, perché non condividessi neanche un frammento di tanta felicità, gli risposi, ma in realtà parlavo a te, che ogni vittoria del Barcellona non è altro che una reiterazione, una sterile ripetizione di un desiderio che già conosciamo, e che in assenza di mistero, il calcio, come l’amore, non trasmette nulla. Ma che importa?, mi troncò la frase, senza sfida, ma in realtà sfidandomi. Tutto è archetipico, caro Federico, però è. Devi imparare che nella vita le cose si fanno, non si sognano. Sulla strada del ritorno, per la prima volta, mi hai preso la mano, all’altezza della farmacia di tua madre, lì dove Tuset incrocia Travessera. Hai presente quando mi hai lasciato quel biglietto, la prima volta che siamo usciti, in cui mi hai scritto che volevi qualcuno che entrasse nella tua vita come un uccello che entra dentro una cucina e inizia a rompere tutto e a sbattere contro finestre e porte lasciando caos e distruzione, e poi siamo andati a casa tua e mi hai fatto ascoltare la canzone dei Migala a cui avevi rubato questa frase?, ecco, ti volevo dire che io non ce la faccio, mi dispiace tanto, ma non ce la faccio, ti amo ma non ho bisogno di te, ho bisogno di qualcuno che mi tenga con i piedi fermi per terra, che mi ricordi di andare a lezione e mi spenga il giradischi con la Bohème, mi dispiace ancora, perdonami, addio, addio mio caro Federico! Mentre parlavi, guardavo i tuoi capelli laboriosi, che mal celavano uno sforzo segreto e inutile, un sogno mille volte infranto e però intatto, quel sogno di risultare più attraenti di quanto lo si è. Arrivammo alla piazza della Virreina senza più dirci una sola parola. Le campane iniziarono a suonare. Era mezzanotte, ed eravamo accerchiati dai tifosi in festa che sciamavano con le sciarpe e le trombette verso il centro. Mi hai dato un bacio sulla guancia, un leggero sfiorare più che un bacio, un gesto che chiedeva scusa per tutti i peccati che avevi commesso, a partire da quello che stavi commettendo in quel momento. In tutti questi anni sei rimasta un mistero per me, Imma. Perché mai sarò venuto, in questi giorni di Natale? Cosa spero di ottenere, o semplicemente di scoprire? Sono passati più di sette anni da quel bacio alla Virreina, e fino alla settimana scorsa non avevo più ricevuto tue notizie. Ora sono sotto casa tua, di nuovo, come sette anni fa, con una tua lettera nella tasca del cappotto. Sono diventata un notaio, dice la tua grafia irregolare. E dice anche - in realtà non lo dice, ma lo riconosco - che sui fogli hai lasciato cadere tante gocce del tuo profumo al mandarino. Sapevi che avrei portato quei fogli alla bocca - perché la carta mi piace, e tu hai usato una carta francese, filigranata, irresistibile - e che in questo modo, quando avrei baciato un’altra ragazza, lo avrei fatto con il tuo odore sulle labbra.