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mercoledì 25 febbraio 2015

L'illusione del gol



Nonostante fossi ancora incazzato per lo scellerato gol di Portanova del giorno prima, tentando di celare per quanto possibile il mio viso diventato rosso d’un colpo, abbassai il mento fra le pagine del mio diario e dopo averlo sfogliato concitatamente trovai il giorno giusto - 3 Marzo 2008. Ancora leggermente imbarazzato scrissi qualcosa di futile, o forse feci solo finta. Peccato perché avrei potuto annotare: “Il panico più seducente della mia vita”. O forse già sapevo.
Avevo diciassette anni e venni distolto dalla spasmodica lotta salvezza da un evento florido di illusioni come un’amichevole agostana: uno scambio scolastico con un liceo di Madrid, sorteggiato perdipiù -unico della mia classe- per andare a soggiornare a casa di una ragazza incredibilmente bella. Per settimane nessun compagno mi passò più la palla.  

Non so con quale strana alchimia i professori spagnoli e italiani scelsero le coppie per lo scambio, si mormorava di oscuri profili caratteriali e monetine lanciate per aria.
Inspiegabilmente infatti, come scoprii attraverso la nostra lunga corrispondenza, I. era una ragazza arguta, intelligente e sensibile: frequentava un’accademia teatrale, attività che, come mi confidò assorbiva ormai tutto il suo tempo anche a discapito della scuola. Aveva lunghi capelli a cascata che le lambivano i lati delle sopracciglia lunghe e curvilinee e due occhi alteri che sembravano divorarti, salvo poi socchiudersi abbassandosi verso terra durante i sorrisi, come a proteggersi da una luce abbagliante.

I., altrettanto inspiegabilmente, abitava fra le fermate della metro di Pavones e Vallecas e tifava Rayo Vallecano, una informazione che dapprima relegai frettolosamente a vezzo marginale.
(Non vorrei divagare troppo ma la metro di Madrid non mi ha fatto né caldo né freddo, mentre un giorno troverò l’annunciatrice di quella di Barcellona e le confesserò di essermi innamorato di lei per la sensualità con la quale pronuncia “Passeig de Gràcia”: se potete fateci caso).

Quanto assomigliamo alle squadre che tifiamo?
O ancora, quale è la linea che ci separa da loro, se esiste?
A me sembra che sia molto labile, e infatti per esempio mi capita spesso, al concessionario o al supermercato, dovendo scegliere fra Romario e Ekstroem (1986…) di optare con sicumera per il secondo.
Mi è capitato pure, prima di uscire per qualche appuntamento, di ricevere una telefonata in cui sento raccontare che il motore s’è rotto, che è un segno del destino, che non se ne farà nulla.

Pian piano che il nostro incontro si avvicinava tuttavia, conversando con I. avvertii che il calcio avrebbe potuto forse avvicinarci in quel territorio-cuscinetto, scivoloso e misterioso, fra le mie timidezze e la brama di conoscere, magra e affamata come una iena.
Non era certo una intenzione esplicita la mia. Tuttavia, al tempo avevo da poco cominciato a rendermi conto come il calcio fosse talvolta capace di aprire squarci improvvisi. Avevo già vissuto lunghe stagioni a fianco a mio padre, usando il calcio come surrogato di una più convenzionale comunicatività, come un nostro personale linguaggio cifrato.
Ancora oggi mi sembra che le sue rimostranze circa mancati acquisti celino in effetti un certo generico risentimento verso la piega presa dalla società occidentale, d’altro canto altre volte è capitato che insieme certificassimo l’ottimismo circa qualche delicata situazione familiare semplicemente trovando gli aspetti positivi ritornando a casa da uno scialbo zero a zero, o che ci riappacificassimo per merito di un improvviso numero ammirato sulla nostra fascia.


Date le premesse, l’ineluttabile conclusione di questa vicenda è che a due settimane dalla partenza l’insegnante squadernò il registro, espettorò un paio di volte e con la verve di un prete di campagna che annuncia i tornei di tennis dell’oratorio ci comunicò che I. aveva dei problemi con la casa. Che I. non ci sarebbe stata e che le scale del Teresa Rivero non le avrei mai salite dietro di lei.
E tu sei lì in piedi, ancora sorridente e inebetito, quando ti accorgi che il guardalinee aveva alzato la bandierina.

A Madrid finii lo stesso a Vallecas, dirottato però nella casa di una famiglia talmente operaia e vallecana da essere uno stereotipo vivente - il fratello maggiore in particolare avrebbe potuto fare la comparsa in un film Quinqui degli anni Ottanta -, girava per casa con la maglietta degli Ska-P (o degli Eskorbuto, nei giorni di festa) e pantaloni di pigiamone tipo Kiraly. Ovviamente mi divertii tantissimo.
I churros nella cioccolata al risveglio, il fritto, la sangrìa rotolando all’ombra di un ponte sul Tago a Toledo, quel kebab fuori dal Reina Sofia con le formiche dentro ma mangiato ugualmente in onore di Dalì, Bosch, Buñuel e degli insetti che spuntano dalle loro rispettive opere, tuffarsi la mattina nella nebbia per poi riemergere all’aria la sera fra gli spruzzi di Estrella Damm.

*  *  *

Era il giugno di due anni fa, e un paio di ore prima avevamo perso la finale playoff.
Stavo affogando sul mio divano nell’afa insopportabile della sera, piacevolmente inerte e svuotato dell’ansia di quella sgangherata rincorsa durata otto mesi.
Avete mai visto le strade di una città dopo una finale persa?
La città era ingoiata da una risacca di silenzio. Ciò insieme alla feroce umidità conferiva a quella serata una tranquillità vagamente sottomarina.
Il soggiorno era buio, illuminato solo dalla fioca luce azzurra di un vecchio film in portoghese trasmesso da Fuori Orario: scivolavo serenamente verso il dormiveglia fino a quella fase in cui, in sere particolarmente placide, sento risuonare nella mente frammenti di canzoni dimenticate, sentite chissà quando e riaffiorate carsicamente, oppure composte dalla mia immaginazione per frustrarmi, data la mia incapacità di riprodurle con uno strumento prima di dimenticarle per sempre.
Ormai ero abbandonato come stessi facendo il morto in un lago, quando qualcuno mi prese per mano e, alzata la testa ancora scosso verso il televisore, vidi un viso familiare, e due occhi che languidamente guardavano fuori da una finestra verso un cielo nordeuropeo.
Dieci secondi… stavo quasi facendo ciao con la manina. Ma io a te ti conosco.  
Ricomponendo confusamente i cocci di pomeriggi perduti, fu con una certa vertigine che vidi il logo Mercedes chiudere quella pubblicità.

Il giorno seguente cercai, attraverso le mie fugaci conoscenze madrilene, informazioni su I., che vidi ricomparire sul mio pc, con i suoi occhi filtrati da saturazioni, dissolvenze pacchiane, istantanee da fotoromanzi e fiction varie, passerelle e bollicine di Freixenet. Il tutto imbiancato da un tono candido che avrebbe voluto essere chic, ma che mi ricordava sinistramente le intonacature di certe case di campagna stese per nascondere vecchie crepe, specialmente allorchè fioccavano di tanto in tanto sciarpe, bianchissime, del Real Madrid.

No, I., tu no, al Rayo non assomigliavi per niente. Tu La Vida Pirata l’hai sempre odiata, così come il lato senza tribuna del Teresa Rivero, perdipiù con i suoi muri scrostati. Vedendo le tue immagini provo un immotivato fastidio, come quando venduto un giocatore a una grande squadra ci imbattiamo in una sua intervista a doppia pagina con la divisa nuova, e non vi troviamo traccia della nostra realtà, della nostra cittadina, non ci troviamo più alcuna traccia di noi stessi.


Complimenti per la promozione. Adesso per te avranno un che di esotico gli estemporanei incontri con gli idraulici di Fuenlabrada o con i postini di Leganès, divertissement innocui e carnevaleschi perché limitati unicamente all'anarchia simulata della Copa del Rey. Sono sicuro che sfarfallerai magnificamente le tue ciglia strizzando gli occhi per chiosare su quando stavi a Vallecas: e tuo padre macellaio, la Vespa, la coppia d’attacco Piti-Pachòn e la volta in cui ti ho quasi conosciuta sembreranno schegge incoerenti e inspiegabili come una stagione al Marsala nelle statistiche della carriera di Evra.
Per qualche ragione porto ancora nel portafoglio la mappa, spiegazzatissima, della metropolitana. Pochi minuti fa ho ricercato in rete una versione aggiornata, e non ho più trovato i nomi di Pavones e Villa De Vallecas: forse imbiancati anche loro da un inspiegabile maquillage, e allora tutto mi sembra un sogno ancora più assurdo, forse vicende mai esistite. E anche stasera, col contrappunto in crescendo della risacca atlantica, attraverso i vetri della mia stanza le strade sono deserte come dopo una finale persa per il lancio di una monetina.

Si alguna vèz me he de casar, una del Rayo, una y nada màs."

lunedì 10 febbraio 2014

Una giornata Atletica

L'unica tribuna coperta del Calderòn, con lo spiffero in fondo
Confesso che alla quinta razione di carciofi fritti che mi viene servita in questo rustico ma pretenzioso ristorante di campagna (di campagna, poi, così me l'ha venduto Julio, la verità è che è un casolare sul ciglio di una strada a scorrimento veloce, non dissimile dal Casalone sulla Flaminia, quel ristorante pacchiano dove organizzammo la festa di classe prima della Maturità, ma non sapendo come fare inversione sulla SS3 fummo costretti a farla nella rotonda davanti all'ingresso del cimitero di Prima Porta, manovra che a qualcuno portò male) inizio a pensare che non riuscirò mai ad arrivare in tempo allo stadio per assistere al cosiddetto big match di giornata, quell'Atletico Madrid - Barcellona a cui sono stato gentilmente invitato da un amico colchonero. Sono, infatti, le quattro appena passate e l'appuntamento fuori dalla metro di Marquès de Vadillo ce l'ho alle sei e mezza; ho, dunque, a disposizione poco più di due ore per: finire i generosi antipasti già apprezzati - come da fotografia incorniciata che allego - anche dal presidente mundial Pertini, ospite, nella circostanza, del rey Juan Carlos (approfitto per dire che sono un juancarlista della prima ora); gustare un cordero asado dalle dimensioni considerevoli; tracannare svariati bicchieri di patxaràn mentre i miei commensali mangiano i dolci (invece io i dolci spagnoli li detesto) e parlano di matrimoni; arrivare alla macchina (circa 50 metri nel parcheggio); digerire; prendere la metro (linea verde a Diego de Leòn) e fare una dozzina di fermate. Il problema è che sono sveglio da appena due ore, ore che ho impiegato per comprare i giornali sportivi e fare una passeggiata fino alla piazza di Chamberì, dove, facendo colazione con una tortilla, ho scoperto che Messi sarebbe partito dalla panchina (e forse pure Neymar); ore che, soprattutto, ho impiegato per smaltire la sbronza della notte prima, ma quella è un'altra storia. Per fortuna a un certo punto il pranzo finisce e, nonostante un carsico senso di nausea che mi accompagna nel tragitto in automobile, alle sei in punto mi ritrovo bello satollo in un vagone della metro che si dirige verso sud. A farmi capire che la linea è quella giusta ci pensa la marea umana che mi avvolge: hanno tutti le sciarpe, le magliette o i cappelli biancorossi e la loro bellezza cromatica e il loro entusiasmo sincero sono tali che mi sento di perdonarli per l'aria respirabile di cui mi stanno privando.

"¿Por qué no te callas?"
Alla bocca della metro mi attende il mio amico Javier, avvocato e cantante (segnalo il suo grande successo Gabana, fantastico inno alla nostalgia degli anni aznariani in cui il giovedì si faceva l'alba nella discoteca di Calle Velàzquez). Ha portato con sè i suoi due figli piccoli, due frangettoni molto timidi, circostanza che mi fa venire in mente quelle belle cose sulla "fede dei nostri padri" che una volta scrisse proprio qui il nostro amico Emilio. A proposito di famiglia, so che è una metafora misera ma quella dei tifosi dell'Atletico mi sembra davvero una grande famiglia, perchè ad accomunarli vi è un senso di identità, di appartenenza, di somiglianze che i club multinazionali rivali, come il Real Madrid e il Barcellona, hanno perso; quando penso a un tifoso dell'Atletico, penso a un tassista con i baffi e i sedili di pelle impregnati di tabacco; quando penso a un tifoso del Real, invece, mi viene in mente un giapponese in vacanza. Siccome vuole infierire sul mio apparato digerente Javier mi porta a bere tre o quattro birre in un bar con un bel mattonellato caratteristico proprio accanto alla metro, e ogni birra è accompagnata da tapas giganti, e per non fare brutta figura visto che mi invita (mi inviterà tutta la sera) io mangio e bevo fino a scoppiare, ma ogni tanto mi tornano su i carciofi fritti (mi torneranno su tutta la sera). Facciamo amicizia con le persone intorno a noi, chiedo come vedono la partita, sono tutti preoccupati, danno per certa la sconfitta dell'Atletico, e in questa scaramanzia rivedo molto la mia, la nostra, la nostra dei romanisti dico; un tizio col volto rosso, paonazzo, si lamenta delle dichiarazioni in conferenza stampa di Simeone - che in generale adora, anzi lo adorano tutti - che ha detto che quelli del Barcellona sono più forti, c'è poco da fare, il tizio si lamenta perchè dice che così demotiva la squadra, allora gli domando "ma tu non pensi che quelli del Barcellona siano più forti?" e lui risponde "certo che sono più forti" e insomma anche in questa confusione mentale pre-partita mi rivedo molto. Poi mi informo su Oliver Torres, il nostro pupillo Oliver Torres (ce ne parlò un amico spagnolo quest'estate durante una vongolata a Maccarese), perchè non gioca mai, perchè lo volete dare in prestito (effettivamente, ora è al Villareal), e la risposta è perchè in quel ruolo ora c'è Tiago, il portoghese Tiago, quello della Juventus, che lo chiude, meglio che si faccia le ossa da un'altra parte, e allora penso annamo bene, se questo si fa chiudere da Tiago al massimo stiamo parlando di un'eterna promessa alla Baronio. Comunque, sono ormai le sette passate e decidiamo di uscire dal bar e ci mettiamo in marcia verso lo stadio, una marcia lunghissima, che durerà quasi mezz'ora li mortacci loro.

"Scusa, sai dove cazzo si entra?"
Sciamiamo verso il Calderòn, la strada è un fiume in piena parallelo al fiume vero, il Manzanares rimesso a nuovo dal Comune, quel Manzanares che avevo lasciato orribile, arido, abbandonato, e ora invece è una promenade elegante, curata, intervallata addirittura da sidrerie dove servono dell'ottimo pollo (è una delle due opzioni per la cena, mi dice Javier). Avviso ai tifosi del Milan (per i quali fondamentalmente sto scrivendo tutto questo): il Calderòn è uno stadio senza senso. Innanzitutto, è costruito in un'ansa stretta tra il fiume e una circonvallazione (dettaglio magico: dalla tribuna si intravedono le macchine sfrecciare, sembra di stare all'Autogrill), quindi con un accesso complicato, a imbuto; praticamente, per metà è costeggiato da un tunnel, quindi mancano i punti di riferimento, si cammina a caso per questo tunnel finchè, se si è fortunati, e dopo aver chiesto informazioni a chiunque, si trova l'entrata, che però non è mai quella giusta, servono almeno tre tentativi, gli abbonati ormai ci sono abituati; insomma consiglio - in vista della sfida di Champions - di arrivare con un certo anticipo. Poi ricordavo bene: è uno stadio davvero brutto. Dentro e fuori. Vecchio, cadente, pieno di piloni di cemento. Entriamo con Javier e i suoi figli e ci sediamo ai nostri posti in tribuna coperta, su sedioline di plastica rossa. Non fa troppo freddo e subito penso che esagerati i miei amici che a pranzo mi hanno detto che mi sarei congelato, tanto da consigliarmi di indossare, nell'ordine: maglietta della salute, calzamaglie (portate apposta da Roma), doppio golf, guanti, sciarpa, cappello. Bullandomi del mio tepore osservo il campo, dove c'è il riscaldamento delle due squadre. Mentre Javier va a prendere due birre e due coca-cole, nonchè svariati pacchi di pipas, ho il mio momento proustiano: eccomi su quella stessa tribuna quindici anni prima, con più capelli e un vestiario più pariolo, per assistere alla partita di coppa Uefa tra Roma e Atletico Madrid, una sciagurata sconfitta (ma mai sciagurata quanto la partita di ritorno, per fortuna credo che l'arbitro Van Der Ende sia morto) a causa delle amnesie difensive della squadra zemaniana che, in quell'occasione, venne purgata anche da un gol di testa di un all'epoca sconosciuto Josè Mari, sconfitta resa meno amara solo da un bolide su punizione di Di Biagio (unico tiro in porta della Roma) e dalla grossa cena di paella, una vera turistata, che poi seguì. Javier torna con le bevande e mi ridesta dal mondo dei ricordi chiedendomi cosa penso del Principito Sosa, quello del Napoli, che l'Atletico ha appena acquistato. Per una volta non riesco a mentirgli e gli auguro di vederlo giocare il meno possibile.
APLASTA ATLETI
Le squadre entrano in campo alle otto accompagnate dall'incessante tifo della curva dell'Atletico, munita di tamburi che fanno subito anni '80 (chissà perchè oggi sono vietati negli stadi italiani, vabbè che oggi qualsiasi cosa è vietata negli stadi italiani), che srotola una colorata coreografia con quattro personaggi che sembrano appena usciti da Indovina chi? e recita "APLASTA ATLETI". Incessante tifo in realtà è una versione un po' romanzata dei fatti, perchè dopo pochi minuti i sostenitori biancorossi già tacciono e non faranno più molto casino durante tutta la partita, tanto che più volte il Cholo Simeone si gira verso la tribuna facendo ampi gesti al pubblico, come a dire, svegliatevi, stiamo sfiorando l'impresa, abbiamo bisogno di voi, tifate. E' vero che questo di andare allo stadio come si va a teatro è un malcostume iberico diffuso, però ho dato un'altra spiegazione, molto meno sofisticata, al fenomeno del Calderòn: l'ipotermia. Ebbene sì, i miei amici avevano ragione: mi accorgo presto che a questo cazzo di stadio mancano due pezzi, cioè la tribuna coperta è staccata dal resto dello stadio, sono come una C e una I vicine ma non attaccate, e quindi ci sono due buchi alle due estremità nei quali passa un mega-spifferone di tramontana che fa gelare (anche perchè si è in alto e quindi c'è sempre vento; non a caso le bandiere sui tetti degli alberghi sventolano sempre); con un freddo così neanche io, se fossi un tifoso locale, avrei voglia di tifare, ma sarei ben contento di sopravvivere. Quindi, amici milanisti, non venite in jeans e Barbour che al Calderòn fa freddo. La partita è agguerrita, molto tattica, l'Atletico parte timoroso, il Barcellona è piacione, il primo tempo finisce senza sussulti a parte qualche iniziativa sull'asse Iniesta-Alexis, in fondo lo zero a zero va bene a tutte e due le squadre. I giocatori rientrano negli spogliatoi e anche noi ne approfittiamo per fare due passi e riscaldarci nei corridoi dello stadio.

Buco di merda
A questo punto vorrei parlare di calcio. Mi ero segnato su un quadernino i dettagli che più mi avevano colpito dell'Atletico, a beneficio dei tifosi rossoneri e anche del suo nuovo allenatore, per risparmiargli la fatica di dover visionare le partite dei prossimi avversari di Champions; e però confesso di aver perso quel quadernino, non so dove e non so quando, anzi approfitto per dire che sono disposto a dare una grossa ricompensa a chi me lo riporterà, perchè dentro c'era il telefono di una milf di Pozuelo (una sorta di Olgiata di Madrid, e anche lei molto Roma nord, bionda con dettagli vezzosissimi, tipo orecchini arancioni di Bimba y Lola, Mercedes classe A di ordinanza e due ore fisse al giorno di palestra in agenda) che ormai si sentirà sedotta e abbandonata. La fortuna è che mi ricordo quasi tutto e quindi qui riporto i miei suggerimenti per Clarence Seedorf:
1) Villa è bollito, pertanto, ammesso che si riprenda dall'ultimo infortunio, può essere marcato anche da un Mexès, Bonera o Zapata qualsiasi;
2) au contraire, Diego Costa è un'ira di Dio. Dal vivo fa impressione, è l'incarnazione del luogo comune calcistico "fa reparto da solo". Anche se sembra una contraddizione, l'ho trovato smisuratamente generoso ma egoista. Generoso perchè mette sempre la gamba, rincorre gli avversari, ci prova, si fa fare falli, tira da qualsiasi posizione e pure se in precario equilibro; egoista perchè va un po' troppo dritto per dritto, non si appoggia quanto dovrebbe ai compagni;
3) Arda Turan sembra uno scemo - non so perchè ma io pensavo fosse uno scemo, uno scemo nel senso di fantasista fumoso e inconsistente - e invece è veramente bravo, tutta la creatività dell'Atletico (una squadra che non fa della creatività la sua principale caratteristica) passa dai suoi piedi, che sono sopraffini, giocate sorprendenti, dribbling impossibili, ecco io non rischierei un Constant in marcatura; la fortuna del Milan sarebbe che, per qualche astrusa ragione, Simeone gli preferisse il brasiliano Diego, che al Calderòn è appena tornato ed è molto amato, ma sempre una pippa rimane;
4) Filipe Luis è il terzino sinistro più forte d'Europa, mi spiace dirlo ma è più forte anche di Archimede Morleo;
5) l'Atletico gioca solo in verticale, cioè Simeone non concepisce i passaggi in orizzontale; dev'essere uno che va dritto al sodo, pure nella vita; la squadra non cincischia mai, e non è mai prevedibile. Pensa Simeone: la palla, possibilmente, a loro; quando la recuperiamo, anche grazie alle linee di difesa e centrocampo strettissime (tipo club sandwich), subito ripartenza in avanti, palla a Diego Costa e sfondiamo; quindi non si illuda il Milan se avrà possesso palla, ma, al contrario, si preoccupi.
Detto questo, ora sembra facile prevedere un comodo doppio successo dell'Atletico; il paradosso è che, con Allegri ancora in panchina, sarebbe stato meno facile.

Antonio detto Tifossi
La partita, come noto, finisce zero a zero. Nel secondo tempo entra Messi, ma è tipo un cadavere e non combina nulla; entra pure Neymar, ma non è un giocatore di calcio e quindi non se ne percepisce la presenza; al contrario, l'Atletico va due volte molto vicino al gol, naturalmente con Diego Costa. Morti di freddo usciamo dallo stadio e, dopo aver abbandonato i figli alla solita bocca della metro, con Javier ci incamminiamo verso la Puerta de Toledo; alla fine non andiamo alla sidreria sul fiume, ma a un bistrot francese in centro, dietro la plaza de Oriente. Tradotto: tre quarti d'ora di passeggiata in salita. La cosa buona è che non ho più forze, ma mi è tornata la fame. Al Caripèn (un posto bizzarro se ce n'è uno) mangio cose mai viste e consigliate dalla moglie di Javier: cozze con la panna, pizza con la morcilla e una specie di pollo alla Stroganoff (dico una specie perchè il ristorante è così buio che è impossibile vedere cosa c'è nel piatto). Mancava solo il cappuccino di rane in crema di piselli e salsa di burro e lemongrass. Quando ci alziamo da tavola sono quasi le due, sono esattamente dodici ore che sono sveglio, di cui la metà passate a tavola, un quarto allo stadio e l'altro quarto spostandomi da e verso lo stadio. Javier e la moglie mi lasciano in albergo; sono pronto a andare a dormire quando ricevo un messaggio del mio amico Chus che mi invita ad andare a bere una cosa al vecchio Shabay (una discoteca pariola coi Buddha sparsi un po' dovunque) con il suo amico Antonio detto Tifossi (con due esse perchè in Spagna non sono capaci di usare le doppie italiane). Questo Antonio è detto Tifossi perchè l'unica sua distrazione dal lavoro è il calcio e in particolare quello italiano, quindi quando mi vede parliamo solo di storie borghettare, di solito anni '90. Sono tentato di non rispondere e invece dico di sì, tra mezz'ora sono lì, mi faccio una doccia, mi cambio, prendo un taxi e li raggiungo al bancone, dove mi aspettano con i gin tonic in mano, e dove restiamo fino alle sei, quando finiamo come sempre la notte allo Snobissimo, dove mi sembra di riconoscere la milf di Pozuelo insieme al ricciolone di Tiago, ma non è vero, non sono loro, sono solo io che sono ubriaco e forse non ho più il fisico per queste giornate Atletiche.

domenica 23 gennaio 2011

Jorge Valdano, l'ultimo dandy

es hora de recapitular
Durante le mie metafisiche (metà fisiche e metà no, come diceva il pittore) passeggiate per tutta Madrid, da Chamberì a San Bernardo a Callao al Retiro fino al termine della notte, in cui mi sentivo la penna che scriveva la sceneggiatura di un film che non ho ancora visto, desideravo ardentemente intravedere dalla strada, appoggiati al bancone dei bar come uccelli appollaiati sugli alberi di Prati, due personaggi che mi sembravano i degni alter ego del mio vagabondare senza meta, la buona ragione per fermarsi un attimo a bere un gin tonic e a discutere, senza serietà s'intende, del senso della vita. Il primo era Enrique Bunbury, l'unico vero rocker -a parte, a suo modo, il compianto Michi Panero- che la Spagna abbia mai partorito; il secondo era Jorge Valdano, l'unico vero intellettuale del pallone -a parte, a loro modo, i frequentatori di questo blog- che ancora bazzica l'Europa. Ma mentre Bunbury, o meglio, la sua folta chioma, posso dire di averlo incontrato, all'uscita di un locale di Malasaña, l'epifania di Valdano è un privilegio che solo Gegenschlag può dire di aver vissuto, un pomeriggio anodino come tanti (se mai possa validamente contemplarsi l'idea che a Madrid esistano pomeriggi anodini come esistono, per esempio, a Roma o a Milano) passeggiando intorno a Huertas.  Almeno ebbe il coraggio di avvisarmi subito, specificando -dettaglio tutt'altro che secondario- che Valdano indossava dei memorabili pantaloni color carta da zucchero. Perchè Valdano, di questo si tratta, è l'ultimo dandy del mondo del calcio.

In un'altra occasione ho avuto modo di scrivere che anche José Mourinho è un dandy. Ma lì mi riferivo all'aspetto, diciamo così, sociologico del termine, alla figura del personaggio dotato di spirito che rompe le convenzioni della sua epoca, non solo per il gusto della provocazione, ma anche per quello di palpare la mediocrità che lo circonda, ed avere così cognizione della propria superiorità. Se Mourinho incarna l'etica del dandy, Valdano rappresenta l'eleganza del dandy, ed è per questo che, adesso che lavorano insieme, allo stesso tempo si assomigliano e si detestano. Per parafrasare il titolo di un bel libro di uno scrittore di Brooklyn, Jorge Valdano è così elegante che in lui ogni cosa è illuminata. Il triangolo che chiude al compagno, l'articolo della domenica che scrive sull'ultima pagina di Marca, la gomina che applica sui riccioli, la risposta che dà all'intervista, la stretta di mano che scambia con il giocatore appena acquistato, il risvolto  che si fa fare dal sarto sui pantaloni, l'accento con cui marca l'ultima sillaba, la postura che adotta quando cammina, il sorriso che accenna quando riflette, la sua idea di calcio. 

Se avessi davvero incontrato Valdano in una di quelle fantasmagoriche peregrinazioni notturne, dopo avergli offerto da bere, avrei voluto parlare con lui di tutto tranne che di calcio. Parlare di calcio con Valdano mi sembra così sprecato, così superfluo, così pornografico, come portarsi a letto la sua connazionale Belen Rodrìguez. Da Valdano mi sarei fatto raccontare qualsiasi cosa, qual è la linea della metro di Madrid che preferisce, come si arreda un bel salotto mantenendosi in equilibrio tra putti rococò e lampade Flos, che cosa conviene ordinare al ristorante a Punta del Este, se è il momento giusto per comprarsi casa a Màlaga, dove sono finiti i grandi scrittori argentini, qual è la lunghezza giusta delle basette, cosa si prova a cadere con il proprio elicottero nel deserto messicano (e a sopravvivere, aggiungerei). Tanto, in un modo o nell'altro, avremmo parlato comunque di calcio. E' per questo che ci sono rimasto male quando ho letto il ritratto-intervista che Simon Kuper, non l'ultimo dei giornalisti (anche) di calcio, gli ha dedicato oggi sull'inserto domenicale Life&Arts del Financial Times. Perchè si è parlato solo di calcio, e per di più in modo banale. Il Real Madrid è stato forte finché c'è stato Franco, perchè sotto le dittature vincono sempre le  squadre delle capitali. Come no. Un'occasione sprecata, come portarsi a letto, e non nel loggione economico del teatro dell'opera, la connazionale Belen Rodrìguez.

Oltre a essere dandy impeccabile, Jorge Valdano è calciatore sopraffino (mise il proprio sigillo nel mondiale vinto dall'Argentina nel 1986, e dopo il celebre gol di Maradona all'Inghilterra ebbe l'ironia di lamentarsi con il compagno perchè non gli aveva passato il pallone nonostante fosse in buona posizione), è allenatore illuminato (sulla panchina del Real vinse giocando bene, su quelle di Tenerife e Valencia si limitò a giocar bene), è direttore sportivo ascoltato (Florentino Perez non fa un passo, e non spende un euro, se prima non l'ha consultato), è giornalista ricercato  (si sprecano le testate con cui collabora el Filosofo), è scrittore ispirato (si può partire da questo). Jorge Valdano sta al demi-monde del jet-set madrileño -un acquario di uomini d'affari con cravatte Hermès su camicia rosa e gemelli extra-large, rampolli di alta società vestiti come Lapi Elkann del discount, schivi toreri che hanno perso il gusto dell'affaire mondano, matrone che, sulla via dell'ultra-cafonal italiano, sorseggiano gin tonic con riduzione di collagene e angostura al bancone del Castellana 8, allenatori portoghesi che non sanno farsi il nodo alla cravatta- come Alberto Arbasino sta al demi-monde della cultura italiana: giganti sulle spall(in)e di nani. Questo l'ha scritto A.A. nel suo diario sull'ultimo o penultimo numero della rivista Nuovi Argomenti, ma potrebbe averlo scritto Valdano in qualunque dei suoi cinque libri: 
Da quante estati, nelle rotonde sul mare e ai Circoli, non si ritrovano più quei "panzoncelli scherzosi" che si chiamavano spesso Pupetto o Bebuzzo. Ammicavano, in mutandine, con un'oralità molto gestuale. Erano gli ultimi a dire cordialmente: pisquano, bisboccia, picchiatello, gagarella, minzione, il lunaria, lo gnorri, ricere. E alle americane, a Capri: "Visto che bel tramonto vi abbiamo preparato?"
Jorge, da quanto tempo non si vedono quei tramonti sul paseo della Castellana, all'altezza di plaza Castilla? Da quanto tempo le americane preferiscono la calda sabbia finta della Barceloneta all'oliva fredda del Martini servito nella terraza del Bernabeu? Da quanto tempo non si ritrovano più i Pupetti e i Bebuzzi, ma anche i Menotti e i Soriano, i Fontanarrosa e i Di Stefano?

Nel suo deludente articolo (anche uno sconosciuto blogger messicano sarebbe riuscito a fare meglio), Kuper si limita a tratteggiare, tra le righe e sotto traccia, un improbabile paragone proprio tra Di Stefano e Valdano, i due argentini più madridisti della storia del Madrid. Coloro che più incarnano il vero spirito vincente di quella squadra che, prima dell'arrivo di Valdano, aveva vinto "solo in bianco e nero" (le cinque coppe campioni degli anni cinquanta targate, appunto, Di Stefano). Si capisce chiaramente che Valdano ingoia amaramente la pillola Mourinho, perchè la sua idea di calcio la mette in pratica il nemico Guardiola, quando riferisce che a Madrid prima viene il risultato e poi il gioco, mentre a Barcellona succede il contrario. Che è insoddisfatto di questa squadra in cui quando si perde nessuno mostra gli occhi di brace, e la passione per il trionfo è stata soppiantata da un ampio ventaglio di passioni molto più prosaiche. Che la sensazione inesorabile del tempo che passa fa più paura del gol sbagliato dall'attaccante (per il secondo si può sempre rimediare nella finestra invernale del calciomercato, per il primo invece non c'è niente da fare). Che il calcio è cambiato, perchè prima un direttore sportivo aveva un rapporto diretto con il giocatore, e adesso invece fa fatica a districarsi nella pletora di agenti, procuratori, padri, cugini, fidanzate, pr, avvocati che gli girano intorno. Che la società dello spettacolo nasconde il paradossale segreto di occuparsi senza soluzione di continuità di un personaggio (Mourinho, Raul, Valdano stesso) senza arrivare neanche lontanamente a conoscerlo davvero.

Rimane la consolazione di una frase: quando poco tempo fa un giornalista appoggiò due registratori di fronte a lui prima di un'intervista, Valdano commentò: "Ah! Il primo è per registrare le mie parole, il secondo per registrare i miei pensieri". La prossima volta che passeggio di notte per Madrid devo ricordarmi di portarmi tre registratori, uno anche per i sogni. Non sia mai incontrassi Jorge Valdano.

giovedì 15 luglio 2010

Memorie della Spagna calcistica #1: la Chopera

Un paese si può scoprire anche dai suoi campi di calcio improvvisati e il primo ricordo è il Parco del Retiro, con i suoi corridoi di alberi fitti che sembrano non finire mai, un inverno di tanti anni fa, alla ricerca di un pallone per deflorare quei prati insieme ad un amico -all'epoca, probabilmente, il migliore che avevo. "Andate alla Chopera" ci rispondevano i vecchi guardoni seduti alle panchine (il Parco del Retiro è pieno di vecchi guardoni seduti alle panchine, hanno tutti i calzini al polpaccio e la coppoletta in testa), "lì troverete i palloni". E noi a cercare in lungo e in largo il nostro El Dorado, questa famigerata Chopera che ci immaginavamo come un enorme magazzino di palloni di ogni tipo. Va da sè che non la trovammo mai, la Chopera, e l'unico pallone che vedemmo fu quello scagliato con forza inaudita da Di Biagio nella rete dell'Atletico Madrid, quando ormai era già notte.
***
Mi ha fatto impressione ricevere, ormai una domenica mattina dell'anno scorso, una telefonata spezza-resaca di un amico basco di Pamplona che mi precettava per una partita di calcetto alla Chopera.
"Ma guarda che io non mi reggo in piedi, al limite faccio il catenaccio in difesa".
"Niente catenaccio, siamo spagnoli. O meglio, sono spagnoli".
"Allora vengo però faccio Ismael Urzaiz e non torno mai in difesa".
"Guarda che usiamo il pallone col rimbalzo controllato, si gioca solo rasoterra".
"Allora è inutile che vengo, io so giocare solo a tedesca".
"No guarda devi venire per forza, siamo solo in quattro, il ciccione di Siviglia, quello che non la passa mai, ieri notte si è rotto una caviglia camminando a Malasaña. Te lo ordino".
"E va bene, vengo. Ma dove?"
"Al Parco del Retiro. Chiedi della Chopera"
"Allora non arriverò mai".
"Perchè?".
"Lunga storia, lascia stare".
Nonostante pensassi che fosse come il Molise, una mera invenzione letteraria, quel giorno ci arrivai alla Chopera (i baschi di Pamplona è sempre meglio non contraddirli). Non c'erano distese di palloni come avevo immaginato anni prima, ma un centro sportivo pubblico in piena regola, nel bel mezzo del parco. Attraversai la porta d'ingresso con la scritta La Chopera con un brivido, come se stessi tornando indietro nel tempo. Il torneo di calcetto si disputava su un campetto laterale, col fondo in lineolum (in Spagna non esistono campi di calcetto in erba sintetica, figuriamoci di terza generazione). Questi spagnoli giocavano bene cazzo, tutti passaggetti, corse dietro l'uomo, finte e tiri improvvisi. Mi limitati al compitino, cercando in tutti i modi di non far esplodere la milza. Va da sè che perdemmo, ma io la mia partita l'avevo vinta prima di cominciare.
***
L'ultimo dei campi della Chopera è in realtà un campo da calcio regolare, con l'erba sintetica. Tuttavia, l'hanno diviso in due, in orizzontale, così da creare due campi da calciotto - più o meno. Mi piaceva molto passarci almeno un'ora il sabato pomeriggio, quando il cielo iniziava a imbrunire, e l'aria della sera rinfrescava la calura del giorno. Di solito il pomeriggio lo iniziavo comprando i panini da Mallorca, un delicatessen su Serrano, e me li mangiavo al sole del laghetto, dove dormono i leoni modello Trafalgar Square. Leggevo i giornali, mi facevo scaldare dal sole, riprendevo lucidità dopo i gin tonic della sera precedente, che mi rimbombavano in testa come monete nella tasca del blazer. A un certo punto, indefettibilmente, dei suonatori di colore istigavano l'emicrania con i loro enormi tamburi, e mi costringevano a emigrare verso angoli del parco più quieti. Con la giacca su una spalla e i giornali e i libri sotto l'altro braccio, passeggiavo fino alla Chopera. A quell'ora -le sette di solito, con la luce turchese che scolora nel crepuscolo, attraverso lo scolapasta delle chiome dei viali alberati- l'unico campo occupato era l'ultimo, occupato da due partite di calciotto. La gente avrà avuto la mia età, magari un po' più piccoli, e anche gli stereotipi erano quelli conosciuti delle partite di calciotto di Roma nord. Tutto in piena regola, molto rassicurante. Cambiavano solo certe zazzere castane stile ivy league, fieramente autarchiche, e un certo modo di giocare. O meglio, di intendere il gioco. Meno corsa, più tecnica. Meno lanci, più scambi stretti. Meno zuccate, più colpi di tacco. Meno verticalizzazioni, più ritorni indietro. Mai una palla scagliata in the box. Mai un mischione. Molte parole in campo, intercalari, imprecazioni, vete a la mierda, joder.
Mi piazzavo su una panchina dietro il campo, appoggiando i giornali e tutto il resto da un lato. Come uno in più tra i guardoni del parco, osservavo obliquamente le due partite, perdendomi nella sinfonia del pallone. Quando sei al margine di un campo di calcio, dovunque sei, ci sono solo due sentimenti possibili: un senso di pace (perchè non esiste spettacolo più bello, e perdonate se sono così apodittico, ma non credo di dover spiegarlo a voi) e un fremito di impazienza per voler entrare. Possibilmente, i due sentimenti si provano contemporaneamente, e la pace lascia spazio all'impazienza se per caso il pallone finisce nelle vicinanze e bisogna ritirarlo in campo. Quando la partita finiva lasciavo che i giocatori sciamassero verso l'uscita, mentre io restavo un altro po' a contemplare la perfezione del campo deserto, nella quiete della Chopera silenziosa. Presto era il tramonto, e qualche invito in una terraza, per una caña, verso Chamberì. Erano passati dieci anni, ma alla fine la mia Chopera l'avevo trovata, e con lei avevo riscoperto il calcio spagnolo vissuto per strada. Non era la prima volta, c'erano già stati dei precedenti. Prometto che ve ne parlerò. Domani, intanto, appena arrivo a Madrid, lascio le cose in albergo, mi faccio una doccia e poi già sapete dove correrò. Non sia mai che riesco a vedermi almeno l'ultimo gol della giornata.