Visualizzazione post con etichetta Barcellona. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Barcellona. Mostra tutti i post

martedì 2 febbraio 2016

Visca el Brescia

 
La sessione invernale del calciomercato si é chiusa ieri con il botto, anche se si tratta di un botto a effetti ritardati, visto che dovremo aspettare fino a giugno. Pep Guardiola, il più geniale allenatore in circolazione, ha annunciato - e questo era nell'aria - che a fine stagione lascerà, dopo tre anni, il Bayern Monaco, per cimentarsi in una nuova - questa sì, sorprendente - avventura: portare il suo credo calcistico a Brescia.

La notizia è stata naturalmente accolta a bocca aperta dai media di tutto il mondo, tanto da sembrare quasi una boutade, un prematuro pesce d'aprile: d'accordo l'elemento romantico del ritorno nel club in cui ha chiuso la carriera, ma che il guru del calcio contemporaneo decida, nel fiore della sua carriera, di allenare nella serie B italiana, scartando le offerte milionarie dei migliori club europei (si parla di sceicchi in lacrime sia a Manchester che a Parigi), è davvero un azzardo che solo un personaggio carismatico come il Pep poteva permettersi.

Ovviamente, Guardiola non ha scelto solo d'impulso, di cuore insomma. Al di là delle frasi di circostanza riportate in questi giorni dai giornali ("a Brescia ho lasciato un pezzo di cuore"; "ho sempre saputo che un giorno sarei tornato"; "la città non mi ha abbandonato nei miei giorni più difficili [quelli delle accuse di doping], avevo un debito con lei"; "non vedo l'ora di lavorare con Caracciolo e Mazzitelli"), dietro ci sono delle rassicurazioni ben precise che ha ricevuto sia a livello calcistico che politico. Dietro, infatti, c'è un progetto che va oltre il campo. Lo so perchè ieri sera sono stato quasi due ore al telefono con lui (come molti sanno, siamo amici, per così dire, di tennis, essendo entrambi soci di lunga data del Real Club a Pedralbes). Anche se gli ho promesso riservatezza, so che non si arrabbierà se riporto qui di seguito alcune delle anticipazioni che mi ha dato.


Innanzitutto, com'è intuibile, avrà mani libere sul mercato. Quest'estate ci sarà un bel viavai sulla BreBeMi. Finora le certezze sono poche. Dalla Masia arriveranno tutti e quattro i fratelli Samper: non solo il già famoso Sergi (classe 1995), che sarà il perno del centrocampo del nuovo Brescia, ma anche Jordi (1999, promettente terzino destro), Frederic (2002, sta finendo le medie) e Oriol (che si legge Uriol e ha sette anni). Dal Bayern lo seguiranno sicuramente Alaba, che ha accettato di ridursi l'ingaggio di circa venti volte pur di non essere più preso in giro nello spogliatoio per il suo accento viennese, e Coman, che si è offerto di fare lo stopper. Thiago Alcantara, che a Monaco non si è mai veramente integrato, riformerà la coppia con il fratello. Peraltro Mazinho è stato contattato per capire se c'erano altri figli disponibili ma pare di no.
 
La rosa attuale ovviamente soffrirà una rivoluzione. Molti giocatori, pur di farsi confermare, stanno ricorrendo ad ogni stratagemma. Alexandre Geijo, attaccante svizzero di genitori andalusi, ha prodotto un certificato che dimostrerebbe che aveva un nonno repubblicano morto nella battaglia dell'Ebro. Thomas Kupisz, centrocampista polacco, ha giocato la carta di uno zio muratore a Manresa. Il giovane Davide Marsura ha impostato Tinder su Girona cambiando il proprio nome in Marsù i Puig. Leonardo Morosini durante i ritiri intrattiene i compagni con reading delle poesie di Gil de Biedma. 
 
Ma la rivoluzione colpirà anche lo staff tecnico. Scontati i ritorni di Carletto Mazzone, che sarà il vice di Pep, e di Roby Baggio, che farà da consulente spirituale, sorprende l'arrivo di Artur Mas nel ruolo di direttore sportivo. Alcuni analisti (ad esempio Francesco Olivo sulla Stampa) hanno visto in questa mossa la volontà del politico catalano di togliere ogni pressione al processo soberanista, tirandosi fuori; i più smaliziati, invece, ci vedono le prove generali del tandem che governerà il futuro stato catalano. Natalia Estrada sarà il capo ufficio stampa: Pep la stima sia per la sua versatilità (è l'unica asturiana che si é resa famosa nel mondo per saper ballare il flamenco), sia per la sua profonda conoscenza dei media italiani maturata negli anni d'oro del Biscione. Novità anche in cucina: i pasti dei giocatori saranno affidati a Xavier Adrià, fratello piccolo di Ferràn, a cui Pep ha chiesto di giocare con i sapori delle due tradizioni culinarie.    

Con i soldi della Caixa e il visto buono della Generalitat, entro l'estate una cordata di imprenditori bresciano-catalani capitanata da Gino Corioni si prenderà la proprietà della società. Presidente ombra sarà però Joan Laporta, il che avvalora l'ipotesi dell'esperimento politico e non solo calcistico. La sede del ritiro estivo è già stata fissata nella Val d'Aran. Per le vacanze estive è concessa libertà ai giocatori tanto vanno tutti già da anni a Formentera.


Anche l'Amministrazione comunale farà la sua parte. A partire dalla toponomastica. Alla centralissima Piazza della Loggia verrà dato il nome di Piazza della Pedrera. Corso Martiri della Libertà diventerà Corso Martiri del Triplete. Sulla facciata del vecchio Duomo verrà applicata una enorme scritta al neon "Junts pel Sì". In fase avanzatissima è il gemellaggio con Alghero, in modo che le due città diventino l'avamposto italiano del paìs català. Naturalmente, l'unitat de la  llengua richede che la città diventi bilingue. Il sindaco Emilio del Bono, che ha lasciato il Partito Democratico per accasarsi in Convergència Democràtica de Catalunya, si sta già attrezzando per far applicare su tutti i cartelli la duplice denominazione in italiano e in catalano. Ma non basta: a molti paesi della provincia verrà troncata l'ultima sillaba, e così  Ospitaletto diventerà Ospitalé, Gussago Gussà e Sirmione Sirmiò. Per ricreare anche l'effetto della cosiddetta Franja d'Aragò, il catalano verrà imposto, ma solo come dialetto, anche in alcuni villaggi confinanti della provincia bergamasca. 

Gli imprenditori, vera anima della regione, non stanno con le mani in mano. Nel centro di Brescia stanno aprendo, nell'ordine: una pizzeria Gaudì; un hotel Battlò; una gelateria Lloret de Mar; tre caffé 1714; una liberia Sant Jordi; un night-club Serrat. Tutti i bar della città si sono riconvertiti in tapas bar. In Franciacorta sono già state estirpate e arse migliaia di piante secolari e i vigneti sono stati tutti riconvertiti a cava. Nella Val Trompia si estendono a vista d'occhio le coltivazioni di calçots. I proprietari del Grand Hotel Villa Feltrinelli di Gargnano hanno assunto tutti i cuochi del Celler de Can Roca, anche se le padelle locali non consentono ancora un socarrat all'altezza. Ma ci sarà tempo per migliorare. Al Museo di Santa Giulia è in programma per la primavera una grande retrospettiva su Dalì e Amanda Lear. La Pinacoteca Tosio Martinengo ospiterà in pianta stabile la collezione della Fundaciò Antoni Tàpies. La stazione ferroviaria, infine, verrà intitolata a Joan Mirò, dal momento che i viaggiatori che arriveranno a Brescia verranno accolti da un suo enorme murale.

Eccolo, insomma, il grande piano di Pep: il calcio come veicolo per esportare la Catalogna. Dopo aver reso reale un'utopia calcistica,  adesso ci riprova con una politica. Visca el Brescia e visca Catalunya caro Pep!  

venerdì 27 marzo 2015

Fuga da Via Tacito (ode alla leggerezza)


“That was fun yesterday
When you raged watered
But today’s a working day
And tonight’s a school night”
(Kurt Vile - Take Your Time)

La notizia che anche il caro Emilio è diventato papà mi ha spinto, ieri pomeriggio, a cercare qualche sprazzo di leggerezza.

Avendo qualche minuto a disposizione in ufficio, mi sono fiondato immediatamente alla ricerca dell’esempio di leggerezza più concreto ed allo stesso tempo intangibile che io conoscessi. Sentivo di aver bisogno di una leggerezza ideale, paradigmatica, irreplicabile. Desideravo allontanarmi per qualche ora, per qualche anno, da Via Tacito, dove lavoro, e tornare indietro nel tempo, sperando di ritrovarmi ad un certo punto nella taverna di casa di Emilio a San Saba, al piano sotterraneo, dove passavamo spesso i pomeriggi a giocare con la palla di spugna ed il grande camino era la porta che a turno difendevamo.

In pochi minuti mi sono avventato su un bellissimo video del “Mundo Deportivo” di diversi anni fa, che raccoglie tutti i gol di Ronaldo in casacca blaugrana con commento in catalano.

Non starò qui a descriverli uno per uno, sono noti a tutti e su di loro si è già scritto moltissimo.

Ho trovato la leggerezza che cercavo dopo appena 6 minuti e 32 secondi dall’inizio della riproduzione. E’ Betis-Barcellona, è il gennaio del 1997.

Dopo una strana carambola e qualche tocco incerto, O Fenômeno intercetta di sinistro un violento passaggio (forse di Giovanni, forse di un Luis Enrique quel giorno ispiratissimo autore di una tripletta) a 40 metri dalla porta e, come avesse una calamita sullo scarpino, inizia a controllare la sfera e ad avanzare in obliquo. Si fa quindi passare la palla in mezzo alle gambe per disorientare gli avversari in doppio passo e, ai 30 metri, decide di innescare la magia.

Lo scatto sotto la curva del Benito Villamarín è bruciante mentre il crocifisso del brasiliano sobbalza al ritmo del cuore sotto sforzo, simulando il folle andamento delle sinusoidi dell’encefalogramma di chi sta rinascendo dopo 75 minuti di insulti, di cabròn urlati a squarciagola. Per un attimo la sua classica esultanza, il gancio destro al cielo con il pugno ben chiuso. Poi, all’improvviso, la leggerezza, la giovinezza, l’inesperienza, l'istinto: l’indice destro sulle labbra serrate in un interminabile invito al silenzio rivolto alla platea andalusa, Giovanni che lo raggiunge e tenta inutilmente di distrarlo, di farlo ritornare in sé. Ronaldo ansima, ha fatto un bello scatto, è senza fiato, ma non per questo allontana il dito da quelle labbra che in quei giorni baciano con passione la bella Suzana.


Arrivano Popescu e Ferrer, Nadal e Luis Enrique, lo avvolgono, lo abbracciano, ma in realtà intendono solo allontanarlo dalla linea di fondo. Lui sguscia via e appena è di nuovo da solo si porta nuovamente l’indice sulla bocca, stavolta rivolto verso un altro settore dello stadio.
Lo raggiunge anche Figo che lo afferra bruscamente dalla collottola per portarlo al cospetto di Pep Guardiola e farlo uscire definitivamente dal trance. E’ il capitano in pectore stavolta ad alzare il ditino e la voce, a scuoterlo, a richiamare la sua concentrazione, a riportarlo con la mente e con il corpo sul terreno gelato del Villamarìn con una vivace ramanzina, forse una delle prime serie lavate di capo per il ragazzo di Rio.

Ho sempre avuto un debole per i giocatori che zittiscono lo stadio altrui dopo una rete, anche se non saprei spiegarne il motivo. Probabilmente lo trovo un gesto liberatorio, come fosse qualche istante di meritata rivalsa concesso dal destino allo spauracchio di giornata, a chi sapeva che sarebbe stato complicato e che però ce l’ha fatta comunque, anche se poi, in fondo, non è servito a nulla. Un breve rituale pagano. Come la danza indiana di Luiso a Stamford Bridge, come il girotondo di Batistuta al Camp Nou.

In verità, quel gesto compiuto da Ronaldo ha avuto il potere di catturare la mia attenzione non tanto per il suo effetto intimidatorio sul pubblico quanto per la sua causa, per il fatto d'essere stato partorito da chi un gesto del genere non era abituato a farlo, da un ragazzo tutto sommato rispettoso e presente a se stesso e che forse lo replicherà in una sola altra occasione in carriera. Il desiderio del Fenomeno di liberarsi per un istante delle sue pressanti responsabilità verso i compagni e verso il pubblico, esattamente come stavo cercando di fare io stesso ritagliandomi qualche minuto nell'ennesimo, monotono, interminabile, pomeriggio di lavoro e di pressioni.

Ronaldo era paradigma di leggerezza, del potere di far svanire il proprio corpo e riuscire a traslarlo in pochi istanti dall’altra parte del campo, alle spalle della linea di difesa avversaria.

In un pomeriggio di fine marzo del 2015 il Fenomeno mi ha riportato nella taverna di Emilio, davanti al camino, il nostro improvvisato terreno di gioco da un lato e l’Amiga 500 acceso dall’altro. Non c’erano figli all’orizzonte, non c’erano doveri, c’erano solo le nostre partite e le pizzette rosse del forno della piazza di San Saba.

Poco prima di tornare a concentrarmi sul lavoro, ho trovato casualmente una foto di Ronaldo che non avevo mai visto. E' la foto del penalty che permise al Barca di sconfiggere il PSG e di portare a casa la Coppa delle Coppe ’97.



Il Fenomeno ha appena iniziato la rincorsa nella lunetta e si appresta a calciare. Qualcuno dagli spalti ha lanciato verso di lui un fumogeno che inspiegabilmente, a causa dell’effetto prospettico della foto, non appare minaccioso. E’ più simile ad una stella cometa, scagliata dalla sfera celeste a santificare quel momento e quella vittoria, a glorificare me, Emilio, il piccolo Agostino e la nostra antica leggerezza.

mercoledì 5 novembre 2014

Certi giocatori hanno lo spirito vasto. Bartelt, Batistuta, Barcellona e la storia della mia corrispondenza con Arturo




Quello che sto per raccontare è successo ormai da quasi due mesi e non sono ancora riuscito a dargli una spiegazione.

*          *          *


Mi trovavo a Barcellona, “la città del buon senso, la città del senso comune”, il giorno 5 di settembre. Mi ero svegliato tardi, quasi alle undici, con un cerchio alla testa che provai a sfumare con un oki e una doccia. Faceva caldo, caldissimo, un’afa che mi impediva di ragionare. Piano piano mi ricordai dell’unica commissione che avrei dovuto fare quel giorno, vale a dire portare il vestito blu alla tintoria all’angolo affinché me lo stirassero in giornata. La sera, infatti, dovevo andare al matrimonio di un mediocre tennista, Jordi Samper, famoso più che altro per essere il fratello maggiore di una giovane promessa del Barcellona, tale Sergi Samper, di cui il proprietario del Bar Barela, mio bar sport di riferimento, parla un gran bene. Jordi si sposava con una mia cara amica, bruttina ma molto ricca, Cassandra Puig i Mateu, primogenita di Bernat Puig i Molins, il magnate del cemento catalano, uno degli artefici - o forse dovrei dire carnefici - dell’indiscriminato sviluppo turistico della Costa Brava negli anni Settanta e Ottanta. Il matrimonio era alle sette in un’anonima parrocchia di Pedralbes, il quartiere borghese in cui Jordi e Cassandra vivono, mentre il ricevimento era previsto in una masia di proprietà della famiglia Puig i Mateu che si trova sulla strada per Sant Cugat del Vallès.

Lasciai dunque il vestito in tintoria e pensai che, visto il tipo di giornata, non ne sarei arrivato vivo in fondo se non mi fossi rinfrescato in piscina. Presi quindi un costume e un libro e, scartata l’ipotesi di andare in spiaggia a Sitges,  camminai un quarto d’ora fino a un hotel di discreto lusso dell’Exaimple che ospita, all’ultimo piano, una piacevolissima piscina. Il primo bagno nell’acqua fresca mi diede vigore e soprattutto appetito, così ordinai al ristorante l’unica cosa che non mi facesse venire la nausea dopo tutto quello che avevo bevuto la sera prima, e cioè una bistecca alla piastra con l’insalata. Mangiai con gusto e tornai al mio lettino. 

Ero lì, dunque, a bordo piscina, facendo la digestione dell’insalata e della bistecca alla piastra, sdraiato sul lettino azzurrino con il logo dell’hotel, circondato da ombrelloni di plastica e corpi che profumavano di Nivea e cocco, mezzo addormentato, in attesa che si alzasse la brezza del pomeriggio, con la bottiglia d’acqua che si riscaldava al mio lato, ogni tanto mi giungevano le grida dei bambini grassi seguite dagli splash e dalle lamentele delle straniere in bikini, allegramente stanche dopo due giorni in cui si erano iniettate piccole ma costanti dosi di alcool nelle discoteche sulla spiaggia, lontano dal mondo reale fatto di notizie e persone, convalescente dopo il mio fine settimana di bagordi, pensando distrattamente al matrimonio della sera, quando sentii una mano che si poggiava sulla mia spalla e pronunciava il mio nome. Mi voltai di scatto, in maniera brusca, come se avessi aspirato il fondo di una granita. Dietro di me c’era un volto familiare. Erano almeno cinque anni che non lo vedevo, ma l'ho riconosciuto, dalla sua elegante pelata, dai suoi occhi penetranti. Arturo.

La verità è che su Arturo non ho molto da dire. Più grande di me di almeno una decina d’anni, prima dei fatti di settembre avevo giusto trascorso con lui alcune estati in Sicilia. Quando l’ho conosciuto non lavorava più come giornalista, professione che, per quello che ho avuto modo di capire (ma lui non me ne ha mai parlato apertamente), decise di lasciare dopo la famosaintervista che gli concesse Luis Cesar Menotti quando fu esonerato dallaSampdoria. Quando l’ho conosciuto, dicevo, nel 2007, lavorava come guardiano presso il campeggio di Favignana, dove io trascorrevo almeno quindici giorni ogni agosto. Nel corso di tre estati consecutive ci eravamo quindi frequentati, e apprezzati, sulla piccola isola a forma di farfalla, dove Arturo cambiava spesso ruolo (l’anno successivo faceva il cameriere, quello dopo gestiva l’edicola, l’ultimo anno affittava le biciclette e i motorini). A partire dal 2010 smisi di frequentare l’isola e, pertanto, anche Arturo, a cui però mi legavano ricordi molto cari.

Per la verità, nel corso degli ultimi cinque anni ho ricevuto una serie di cartoline, e anche un paio di lettere, di Arturo. Il fatto è che non ho mai capito se scherzasse o se fosse serio. In queste missive - che mi arrivavano soprattutto dall’Argentina (ne ricordo una, molto poetica, con un’immagine in bianco e nero di Buenos Aires, in cui mi scriveva: “Caro Federico, oggi è domenica, ma le domeniche a Belgrano, se non c’è la partita, non sono domeniche, sono palloni sgonfi che aspettano il fiato dei tifosi per prendere forma”)  - mi parlava di una ricerca che stava facendo sulle tracce di un vecchio allenatore argentino, ormai cieco, di cui era dubbia non solo la dimora ma anche la stessa esistenza, e di cui ora non ricordo il nome, di cui Menotti gli aveva parlato come del suo maestro. Nel corso di queste sue ricerche, Arturo mi aveva raccontato, per la verità in maniera del tutto ermetica, gli incontri che faceva con ex giocatori, allenatori, dirigenti, tifosi, i quali il più delle volte finivano per depistarlo. Quel giorno di settembre, era più di un anno che non ricevevo sue notizie e immaginavo che o fosse morto o fosse tornato in Sicilia, e in ogni caso che avesse interrotto la sua ricerca. Ed invece me lo trovai lì, a bordo piscina, in un hotel dell’Eixample, più vivo che mai.

La cosa più incredibile, però, non fu quella. Mentre bevevamo due birre al tavolino del bar della piscina, riparati da un ombrellone, Arturo, dopo avermi fatto parlare per venti minuti filati della mia vita, alla mia domanda su cosa ci facesse quel giorno a Barcellona, mi rispose che era venuto per il matrimonio di un suo vecchio amico, il tennista Jordi Samper. Lì per lì la cosa non mi sconvolse più di tanto. Arturo, infatti, da ragazzo era stato un ottimo tennista, quasi una promessa, se così si può dire. Tanto che, a Favignana, giocavamo quasi ogni pomeriggio al campo dell’ex villaggio Gassman, dove lui conosceva tutti, avendoci lavorato per alcune estati. Si limitò a dirmi che era molto amico dell’allenatore di Samper, un catalano di cui non ho afferrato il nome, e tanto mi bastò. Mi rallegrai della fortunata casualità, sperando che fosse così fortunata da farci finire anche nello stesso tavolo durante il ricevimento. Quanto al motivo della sua presenza in piscina, in quella piscina, mi disse che alloggiava proprio in quell’albergo, dal momento che era l’albergo che gli sposi avevano messo a disposizione degli invitati. Anche questa spiegazione, perfettamente plausibile, fu sufficiente a non farmi dubitare delle sue parole. Dopo aver parlato un altro po’ del più e del meno, con la stessa velocità con cui era apparso, Arturo scomparve. Quando provai a chiedergli della sua ricerca, dei suoi viaggi in Argentina, cambiò leggermente espressione, si incupì, e mi disse che mi avrebbe raccontato tutto durante la festa, nell’aria fresca di Sant Cugat, allietati dai gin tonic e dalle ragazze che ballavano, e che ora doveva proprio scappare perchè aveva ancora una serie di commissioni da sbrigare nel Barrio Gotico, compresa la ricerca di un papillon per la cerimonia. Per un attimo pensai di offrirmi di accompagnarlo, ma faceva così caldo, il Barrio Gotico mi è così indigesto, avevo ancora l’eco del mal di testa, e non volevo arrivare distrutto al matrimonio, che restammo che ci saremmo visti direttamente in chiesa all’ora convenuta. Ci abbracciammo in maniera affettuosa e ci salutammo.

La sera, la sposa arrivò con venti minuti di ritardo. La cerimonia durò poco più di un’ora. Uscimmo alle otto e mezza sul selciato della chiesa con il sole ancora forte, vigoroso, spagnolo. Di Arturo neanche l’ombra. Pensai che non aveva fatto in tempo a venire alla cerimonia e che ci saremmo incontrati direttamente alla festa. Andai in macchina con alcuni cugini simpatici di Cassandra. Quando arrivammo alla villa, una masia antica ma non particolarmente pittoresca, ci attendeva un esercito di camerieri con vassoi pieni di tapas. L’aperitivo fu lungo e piacevole; l’afa, giunti nel Vallese, si era smorzata, e il tramonto colorava di sfumature violacee i volti degli invitati. Venni presentato al vecchio allenatore di Samper, che era stato amico di Arturo, e parlammo degli anni Novanta, anni d’oro del tennis spagnolo che avevo vissuto in prima persona, ma non gli chiesi se conosceva il mio amico. Venni presentato, anche se di sfuggita, al fratello calciatore dello sposo, e mi premurai solo di consigliargli di non seguire troppo il suo nuovo allenatore, quel Luis Enrique che avevo conosciuto a Roma, perché tanto non sarebbe durato molto. Venni presentato, infine, a un’amica molto avvenenente di Cassandra, Valeria, una ragazza argentina, di origine italiana (di cognome faceva Bertuccelli), con cui Casandra aveva recitato in alcune coproduzioni minori (erano entrambe attrici) e che era venuta apposta da Buenos Aires per il matrimonio, la quale, in maniera forse inconsapevole, mi fece dimenticare, un bacio alla volta, l'assenza di Arturo.

La mattina successiva, ormai il 6 di settembre, mi svegliai nella stanza di un hotel che, a quel punto, mi era diventato familiare. Dopo aver fatto la doccia, provai a fare nuovamente l’amore con Valeria, ma avevamo entrambi troppo mal di testa. Indossai allora faticosamente il vestito sgualcito del matrimonio e la salutai, promettendole che sarei tornato nel pomeriggio, per fare un ultimo bagno nella piscina all’ultimo piano e magari poi andare al cinema a vedere un film con Elena Anaya che era appena uscito e in cui lei era la co-protagonista. Valeria aveva delle sopracciglia bellissime e mi dissi che sarei dovuto assolutamente ritornare a baciarle. Prima di uscire dall’hotel mi fermai alla reception per sapere se il signor Arturo *** fosse già ripartito. Fui quasi sollevato quando il ragazzo francese dietro la reception - che immaginai fosse lì in stage - mi disse che non risultava alcun ospite registrato con quel nome nell’ultima settimana.

Anche se non ce n’era bisogno, sulla strada di casa decisi di telefonare a Cassandra. Dopo un rapido preambolo di ringraziamenti, auguri di buon viaggio (con il marito erano in partenza per il Perù) e ammiccamenti su Valeria, le chiesi se avesse mai conosciuto un amico del marito, o comunque se avesse mai sentito nominare il nome di Arturo ***. Mi disse che non sapeva chi fosse. Ci salutammo dandoci appuntamento al suo ritorno. Arrivato a casa, per la verità esausto, mi accorsi subito, già quando aprii la porta, che c’era qualcosa di strano, com’erano sempre state strane, d’altronde, le lettere di Arturo, in cui quello che voleva dirmi non era mai nelle righe, ma tra le righe. La porta di casa, infatti, era come bloccata. Dovetti fare forza per aprirla. Entrando a casa capii il motivo: sotto la porta qualcuno aveva lasciato una busta, che quindi aveva fatto attrito. La presi in mano e riconobbi subito la scrittura di Arturo. Sulla busta c’era questa frase, tra virgolette: “Lo spettacolo calcistico è l’unico rito che ancora vale la pena di far sopravvivere, perché a volte l’esistenza filtrata attraverso la finzione, chiarisce qualcosa”. Non sapevo se era una frase sua o di qualcun altro (magari del famoso allenatore cieco). Aprii la busta con un misto di ardore e timore. Per prendere tempo con me stesso, misi l’acqua sul fuoco per farmi un tè. Quando fu pronto,  mi sdraiai sul divano a leggere la lettera.   




*          *          *


Caro Federico,

come avrai già verificato tu stesso, non ce l’ho fatta a venire al matrimonio. Purtroppo sono dovuto ripartire immediatamente. Sappi però che mi ha fatto un enorme piacere incontrarti. Io e te siamo fatti della stessa materia, una materia calda, siamo come due scolature di catrame che invadono le strade che percorrono.

Mi hai chiesto della mia “ricerca”, e io sono stato forse elusivo. Mi accorgo ora che la nostra amicizia richiede che io mi apra un po’ di più. Ed allora voglio dirti questo, anzi mi sento di dirti questo. Prendilo come un anticipo sui nostri incontri futuri.

Il ventisette settembre, nello stadio S. Siro, Batistuta segnò per tre volte al Milan, di cui una con un curioso calcio di punizione tirato all’interno dell’area di rigore, con i giocatori rossoneri in barriera sulla linea di porta. Esultò come se imbracciasse una mitraglietta e il giorno successivo un quotidiano progressista pubblicò l’accorato articolo di un intellettuale che dipinse Batistuta come un porco e un guerrafondaio. Seguirono: su una rivista giuridica internazionale, la lettera aperta di un noto tennista che rivendicava il diritto di spaccare la racchetta per terra; l’intervista, su un rotocalco cattolico, a un prete di Avellaneda che millantava di aver impartito i sacramenti al piccolo Gabriel; la raccolta di firme, a cui Batistuta non diede alcun peso, di un nucleo pacifista del Valdarno perché abiurasse quell’esultanza.

Il diciotto ottobre, Batistuta segnò un gol alla Roma. Era un pomeriggio tiepido e nel primo tempo della partita Batistuta, cui arrivavano pochi palloni, ebbe modo di riflettere sulla conversazione tenuta la sera prima con Gustavo Bartelt, suo connazionale che giocava nella Roma e che gli aveva chiesto di incontrarlo tramite il comune amico Nestor Sensini. I due si erano visti in un bar dei Parioli, Batistuta indossava un cappello da giamaicano per non farsi riconoscere, Bartelt non lo riconosceva nessuno, perché non era molto famoso e assomigliava, se mai, all’altro calciatore argentino Claudio Caniggia, talentuosa ala destra e latin-lover che qualche anno prima, a Roma, era stato squalificato per cocaina: lo avrebbero al limite scambiato per qualcun altro e dopo una pacca sulla spalla o uno sputo sarebbe finita lì.

L’ospite romano di Batistuta aveva l’aria furba (in questo Bartelt ricordava molto Caniggia) di chi si fosse trovato, senza nemmeno accorgersene, a vivere a scrocco un più fortunato destino (in questo Bartelt, almeno per qualcuno, era Caniggia). Tra le altre cose (il conto gratis dal meccanico, un appartamento con un numero elevatissimo di specchi, fornicare con un numero elevatissimo di donne le cui posture si moltiplicavano nel numero elevatissimo di specchi), questa reincarnazione aveva dato a Bartelt la possibilità di incontrare i suoi idoli, come lo sbigottito Batistuta che seduto al tavolino del bar si sentiva lontano anni luce dal conseguimento di quei vertici sessuali. Bartelt gli confidò di essere un calciatore non più che mediocre, ma per ordine dell’allenatore della Roma, un boemo di cinquant’anni, complice una stagione fortunata nel Lanus (tredici gol in diciotto partite), era stato acquistato per ricoprire il ruolo di ala destra, guarda caso lo stesso di Claudio Caniggia. Per come glielo descrisse Bartelt, il boemo, che si chiamava Zdenek Zeman, non parlava quasi mai, fumava sempre e proponeva un gioco d’attacco quasi suicida. Soltanto un giorno, nel ritiro pre-campionato, si era avvicinato a Bartelt pronunciando le seguenti parole: “Sappiamo tutti e due che sei pressappoco una pippa. A me non importa, mi serve solo che tu corra verso l’area avversaria più velocemente che puoi. Possono succedere due cose: o t’insegno a essere la più grande ala destra del mondo oppure non ci riesco, ma le persone penseranno che sei comunque fortissimo, perché in te gioca ancora lo spirito di Claudio Caniggia”.

“Mister, mica è morto Caniggia”.

“Lo so, ma certi giocatori hanno lo spirito vasto”.

Al trentaduesimo del primo tempo, Batistuta agganciò un pallone che sembrava spiovere dall’altra parte del tempo o della terra. Era immerso in un torpore che non sapeva se imputare alla tattica troppo difensivista del suo allenatore o al fatto che i difensori della Roma erano sistemati in modo che la loro linea di difesa coincidesse con quella di metà campo, confinando, in virtù della regola del fuori gioco, la metà in cui la Fiorentina avrebbe dovuto attaccare al di là del lecito calcistico. La nuova disciplina cui si era sottoposto cominciava a funzionare, perché in un solo istante si riscosse dall’abulia e di esterno al volo scavalcò il portiere in uscita.

In genere, i difensori delle squadre avversarie lo tempestavano di botte, qualcuno gli diceva che si sarebbe scopato sua moglie, un paio di volte si era ritrovato con un dito in un occhio. La difesa della Roma al contrario era, la parola giusta gliela offrì proprio il ricordo della sera prima, spirituale, di una sostanza strana fatta di aria e mistero. Tutti si disinteressavano di lui, forse un altro pallone giocabile sarebbe arrivato, avrebbero vinto due oppure tre a zero (la Roma non sembrava intenzionata a segnare, ci furono risse, l’arbitro cacciò alcuni giocatori per comportamento scorretto, ma tutto si svolgeva al di là di una bruma nebbiosa e a Batistuta veniva di chiudere gli occhi), che importa, pensava, l’importante è vincere e che vincano i buoni.

Verso la fine della partita, l’allenatore boemo mandò in campo Bartelt. Non gli disse nulla, solo gli strizzò l’occhio sorridendo. Bartelt pensò: “Che cazzo ridi, stiamo perdendo, siamo rimasti in nove e non ho la più pallida idea di come giocare”. Batistuta pensò: “Sono ridotti alla frutta, io potrei sdraiarmi sul prato per sognare di quando ero bambino, e questo schiera il sosia di Claudio Caniggia, che ieri sera si è pure fatto quattro gin tonic”.

L’ingresso di Bartelt, senza una ragione visibile, ha l’effetto di una scarica elettrica. La Roma, che fino a quel momento aveva giocato in modo a dir poco confusionario, è percossa da uno slancio convulso e teatrale. Lo stadio Olimpico lo avverte e intona una litania crescente di cori. Al novantesimo Bartelt scarta con una mossa fulminea il terzino sinistro della Fiorentina, un tedesco dalle orecchie a sventola, non senza averlo prima irretito con una sequenza di pasodoble che gli aveva insegnato una puttana di Mataderos. A Batistuta, che adesso vede tutto con chiarezza da sfiorare la premonizione, la chioma giallastra di Bartelt pare una lama efferata e incosciente: chiunque al suo posto tirerebbe verso la porta o passerebbe a un compagno, Bartelt no, continua ad avanzare verso la fine dell’area di rigore, rallenta per non oltrepassare la linea, si avvicina all’area piccola del portiere, e da qui offre una traiettoria radente a un compagno di squadra con cui prima di allora non aveva mai avuto a che fare (nessuno per la verità ci aveva mai avuto a che fare, Dmitrij Anatol'evič Aleničev era un idraulico russo che sbarcava il lunario nello Spartak di Mosca, ma sul cui acquisto Zeman aveva molto insistito, sfinendo gli scetticismi della dirigenza) e che non chiede di meglio di pareggiare la partita.

Allo scadere dei minuti di recupero, Bartelt corre in verticale nell’area della Fiorentina, riceve un pallone che arriva dalla destra e prova a girarlo verso la porta. Ne scaturisce un tiro pietoso, neutralizzato da un difensore diverso dal tedesco di prima. Il pallone torna di nuovo sui piedi di Bartelt, che ha la visuale sgombra e può sprecare la sua seconda occasione. Il tiro sbatte sul portiere ma - questo Batistuta già lo sapeva, era ineluttabile - Francesco Totti, il giovane e promettente regista della Roma, si avventa sulla sfera di cuoio e non fallisce il gol del due a uno.

Bartelt, forse con innocenza o forse con perversione, propose a Batistuta di scambiarsi le maglie come ricordo di quella partita. Batistuta non sapeva più cosa pensare, tutto gli pareva assurdo, ridicolo e miracoloso. Scendendo negli spogliatoi incrociò l’allenatore boemo, che lo guardò con una maschera di silenzio dietro cui c’erano il vuoto della saggezza e il vuoto della follia.

Spero di rivederti presto.

Con affetto, il tuo amico Arturo




*          *          *


Verso le sei tornai in albergo a cercare Valeria. In camera non c’era. In piscina neanche. Alla reception, un altro ragazzo, questa volta catalano, mi disse che la signora Bertuccelli aveva fatto il check-out verso le dodici. Telefonai a Cassandra, ma il telefono era staccato. Pensai di mandarle un messaggio, ma non mi sembrava il caso di disturbarla durante il suo viaggio di nozze. Da Valeria, ovviamente, non mi ero fatto lasciare il suo numero. Quando stavo per allontanarmi dalla reception, il ragazzo mi chiese se per caso mi chiamassi Federico ***. Risposi di sì, che ero io. Ah, fece lui. Ah cosa?, lo incalzai. La signora Bertuccelli ha lasciato questa per lei. Una lettera. Il ragazzo mi allungò la busta azzurrina con il logo dell’hotel. Senza neanche pensarci, gli dissi che non la volevo. Mi guardò perplesso. Non la voglio, gli dissi un’altra volta, scandendo le parole. No-la-quiero! Va bene, disse lui. Mi chiese se allora dovesse buttarla. Sì, certo, tagliala in quattro pezzi e buttala nel cestino, gli risposi. Però fammi un favore, aggiunsi: prima di buttarla, leggila. Uscii dall’albergo e mi incamminai verso il cinema, sperando di fare in tempo per lo spettacolo delle otto.

lunedì 20 ottobre 2014

Més que un (rotary) club


Esternamente, il Camp Nou è più brutto e fatiscente del San Paolo, con la differenza che al posto di stencil e murales degli ultras partenopei campeggiano gli enormi teloni degli sponsor, con le gigantografie dei campioni più acclamati. Les Cortes, barrio non troppo distante dal centro che da oltre mezzo secolo ospita l'impianto, appare un posto tranquillo, grazie ai diffusi spazi verdi che ossigenano la folta schiera di palazzacci residenziali.
Dopo essermi divincolato dalla fiumana di turisti provenienti da ogni parte del mondo per visitare il museo del clùb, che con oltre un milione di visite l'anno è tra i più visti della Catalogna, arrivo alla biglietteria: il display si rivela impietoso confermando gli stessi prezzi del sito ufficiale del club. Settanta euro per il settore più popolare, situato all’altezza di un palazzo di sedici piani. Lo sguardo fisso nel vuoto e la salivazione azzerata riacutizzano d'un colpo e prepotentemente un’oscura percezione che ogni calciofilo che si rispetti porta con sè. La contraddizione corrispondente alla nozione di calcio della nostra epoca. Da una parte fede, passione, sport popolare e dall'altra fenomeno tout court del mondo capitalista.
Nel momento in cui mi riprendo dal colpo e inizio vagare senza meta sento di aver buttato una mattinata e con questa l'illusione di assistere dal vivo a una partita del Barça. ..."Mès que un (rotary) club", penso. Eppure ci deve essere una spiegazione, non è possibile che ogni domenica novantottomila posti sono ad esclusivo appannaggio di turisti e ricconi.
Da quella mattina in poi, ogni qual volta si presenta l'occasione interrogo conoscenti e passanti, taxisti e venditori sulle possibili modalità alternative di accesso allo stadio. I risultati a tre giorni dal match sono sconfortanti. Gran parte dei suggerimenti ottenuti oscillano tra il generico "buscar on internet", e quello odioso ma ben più disincantato di vederla nel classico bar.
Dopo una prima reazione di sconforto appare chiara la necessità di cambiare rotta, scartare indicazioni dettate dal senso comune, percorrere strade alternative. Solo così avrei potuto assistere a Barcelona - Athletic Club Bilbao, derby indipendentista per eccellenza.
L'occasione si presenta il giorno dopo tornando a casa verso l'una e mezza di notte, nel quartiere di Sants. Mezzo assonnato, passo vicino alla stazione, davanti ad un anonimo e spartano bar: bancone, sgabelli e televisione regolarmente sintonizzata su canali sportivi. Il mio occhio viene catturato da una sagoma solitaria che indossa la seconda maglia del Barḉa con le sgargianti strisce rosso-gialle della senyera, bandiera della Catalogna.
Victor è alto, a occhio ha meno di trent’anni e quando irrompo al suo cospetto sta terminando una Estrella Damm.
Gli parlo di me, di cosa facessi lì dieci giorni, cercando quanto più possibile di spogliarmi di dosso l’etichetta di turista. Ben presto arrivo al punto. Mi chiede quanto fossi disposto a spendere. Metto subito in chiaro il mio principio etico: non avrei speso più di quanto non avessi mai fatto per sostenere la mia squadra del cuore. Per avvalorare ulteriormente la mia posizione, estraggo dal portafoglio due biglietti stropicciati ma gelosamente conservati, e glieli mostro. "ACF FIORENTINA" e "SS LAZIO" rispettivamente campionato e coppa Italia, entrambi curva B, 10€ e 8€, la sorte è dalla mia. Viktor rimane impietrito, lasciandosi scappare ad alta voce, in un misto di rabbia e invidia, un'imprecazione tanto colorita quanto comprensibile, anche in catalano. Dopo essersi ripreso dallo shock, e aver dato l’ultimo sorso alla birra, tratteggia in breve i contorni della macchina da soldi blaugrana.

In primis, c’è la spartizione dei diritti televisivi della Liga, monopolizzata per il 50% da Barça e Madrid, a seguire l'esorbitante apporto degli sponsor, che rimpinguano le casse dei due club. Ultimo, ma primo fattore a incidere direttamente sul prezzo dei biglietti, c’è la politica della campagna abbonamenti del club, che, annualmente, per una cifra conveniente ma comunque considerevole, comprende tutte le competizioni in cui è impegnata la squadra. Fidelizzato o spennato alla taquilla. In Spagna, per i vikingos e i culè funziona così, conclude allargando le braccia.
Poco dopo abbassa il tono della voce e scandisce le parole, capisco che è arrivato il momento dell’offerta. Mi spiega che il pomeriggio della partita avrebbe lavorato, riuscendo a liberarsi solo per il secondo tempo, e che quindi era disposto a vendermi l’ingresso col suo carné.

Poi chiede carta e penna al barista pakistano e inizia a disegnare un rettangolo inscritto in tre ellissi concentriche, illustrandomi il suo settore. Infine spara il prezzo: cinquanta euro più venti di cauzione, perché sono sempre uno sconosciuto e in caso di mancata restituzione avrebbe coperto le spese per il duplicato. Spiazzato dalla cifra, non sapendo che rispondere, gli faccio notare che anche lui era per me un estraneo e che non avevo garanzie. A questo punto, risentito, solleva il bordo del pantalone mostrandomi lo stemma del Barça tatuato sul polpaccio destro, credo a significare la sua parola d'onore.

Prima di salutarci torniamo a varcare quel meraviglioso terreno drammatico e nostalgico in cui all'istante sembriamo amici di vecchia data. Commentiamo la mancata qualificazione del Napoli alla Champion’s e la disfatta al San Mamès per mano proprio del prossimo avversario del Barça. Victor sentenzia che è un peccato che il Napoli abbia una difesa di merda, non posso che acconsentire. L’ultimo argomento toccato, sovvertendo ogni ordine gerarchico, è il pibe de oro.
"Aqui Maradona solo fiesta e coca" fa lui. Io serro le labbra e annuisco, mascherando forzatamente un filo di compassione, che nel giro di pochi istanti carbura in cieco orgoglio.
Ci scambiamo i numeri di telefono, lo saluto e torno a casa, appagato della chiacchiera ma sicuro che non l'avrei più visto.

I giorni successivi scorrono via intensi e veloci tanto da ridimensionare la fissa Camp Nou alla modesta aspettativa del classico bar e della birra, più amara che mai. In fin dei conti, Barcellona ha molto altro da offrire a settembre, con un clima mite e la temporanea migrazione dei turisti. Fino a quando un pomeriggio, ricevo un messaggio di Alessandra, una ragazza conosciuta la sera precedente, che mi comunica di aver trovato un modo per entrare allo stadio. La sera stessa ci vediamo sulla collina di Montjuïc e mi spiega da vicino. Il nucleo del piano è sempre il famoso carné. Per i soci over 70, mi spiega, sono previste forti riduzioni per l'acquisto di un ulteriore abbonamento per un altro membro della famiglia. Spesso capita che figli e nipoti non possono e prima della partita, fuori lo stadio trovi manipoli di nonnetti pronti ad adottare presunti congiunti, liberamente o per una cifra simbolica. Nell’arco della passata stagione, aggiunge Alessandra, due colleghi di lavoro con questo sistema sono riusciti a seguire quasi l'intero campionato. Queste ultime parole riaccendono quel sentimento di ansia ed emozione legato all’evento che la vita barcellonese assieme al sano buonsenso avevano assopito. Realizzo che l'elevato numero di abbonamenti, principale fattore che si frapponeva tra me e il Camp Nou potrebbe rivelarsi la sola condizione che mi consentirebbe di entrare allo stadio. Nella peggiore dell'ipotesi ripiegherò in un bar di Les Cortes, per soffrire come si deve, fino in fondo.
Il fatidico giorno, sabato tredici settembre arriva, portando con sè un caldo asfissiante e un sole intermittente.
Un'ora e mezza prima del fischio d'inizio, decido di incamminarmi verso la fermata della Metro. L'impeccabile puntualità del treno non mi consente di scambiare due parole con qualche tifoso, posticipando l'occasione durante le otto fermate che separano Paral-lel da Palau Reial. Avvicino un signore di mezza età chiedendo conferme e eventuali dritte sul mio piano. Ben presto capisco che non sarà facile colloquiare per via del suo forte dialetto catalano. Riesco a malapena a intendere il suo nome e la sua disponibilità, mi fa cenno di seguirlo.
Sarà per il complesso universitario ubicato nei dintorni, sarà per il clima pre-partita ma Avda Joan XXIII, lungo discesone asfaltato che conduce allo stadio ricorda in maniera imbarazzante via Cinthia. Sincronizzo il mio passo a quello spedito del mio provvisorio compagno di ventura, Josep, cercando di estrapolare il senso dei lunghi periodi in catalano. Da una serie di informazioni logistiche forse utilissime per le mie sorti ma il cui senso mi sarà sempre ignoto, Il discorso fortunatamente vira sull'universo culè. Josep esordisce connotandomi politicamente l'atavica inimicizia col Real Madrid. Noi storicamente compagni, loro ex-franchisti. Io obietto che non è del tutto vero, in origine la squadra franchista era l'Atlètico Aviación (oggi Atletico Madrid) e che il caudillo, come spesso accade ai dittatori, sposò le merengues demagogicamente, essendo il Real già all'epoca uno dei club più titolati al mondo. Lui rimane un po' spiazzato, annuendo timidamente. Arrivati all'esterno dello stadio ci separiamo, mi augura buona fortuna, mettendomi in guardia da bagarini camuffati da nonni soci. Lo ringrazio, rassicurandolo che per determinate cose la mia città allena a un occhio clinico formidabile.
Detto fatto, intravedo tra la folla un signore anziano dall'aria un po' spaesata. Bassino, occhiali, camicia a quadri e cappellino blu del Barça. Mi avvicino. Capisce le mie intenzioni e lancia subito l'offerta: cinquanta euro, di nuovo. Reagisco con un espressione indignata, e borbotto un "trenta", mimando però con le dita venticinque. Aquilino, questo il suo nome, tentenna, ma alla fine cede. Lo abbraccio. Mi passa il carné del figlio. Sarò per un pomeriggio Aquilino jr. Una volta arrivati all'ingresso, passo la tessera sulla fotocellula. Spingo in avanti il tornello, che non oppone resistenza, sono dentro.


Siempre agradecido de ti, Aquilino  

Il settore dei nostri carné è Lateral, BOCA 36, ed equivale ai distinti inferiore del San Paolo, con la differenza che l'assenza del fossato e della pista d'atletica non sacrifica la profondità, consentendo una visuale ottima. Fino a venti minuti prima del fischio d'inizio lo stadio è semideserto, per via dei posti numerati. Attorno a me gli spettatori si caratterizzano per tre quarti da aficionados e un quarto da turisti, la metà di quali possiede almeno una busta dello store del Barcellona. 
Entrambe le squadre scendono in campo non con le prime divise, bensì con quelle dei colori sociali delle rispettive comunità autonome, Catalogna e Paesi Baschi. Specie di questi tempi, le istanze autonomiste vanno portate avanti a ogni costo, anche a colpi di marketing.           
                                                          

Pronti via e l'occhio cade e resta ipnotizzato per una manciata di minuti sul numero dieci blaugrana, distante da me una quindicina di metri. Gli occhi del mondo sono sempre su di lui, ma per una volta sono i miei ad essere su di lui, senza alcun filtro. E' come osservare un'icona lontana, eterna, perfetta, denudata di ogni pixel e piombata nel mondo sensibile, su un prato verde, che prende corpo in una persona e nient'altro. Una persona vera, che respira, suda e corre, corre tanto.
Dagli spalti le uniche emozioni arrivano allo scoccare del 17'14" di entrambi i tempi, quando per celebrare il tricentenario della Diada, giorno in cui la Catalogna perse l’indipendenza, il coro "i-inde-indepèndienca!" anima un Camp Nou impietosamente addomesticato.


Nel primo tempo il Barça spreca tutto ciò che c'è da sprecare. Hombre del partido manco a dirlo è Messi, che nella seconda frazione di gioco apparecchia sia il primo che il secondo gol al subentrato Neymar. Uscendo dallo stadio penso a Victor, avrà fatto giusto in tempo ad assistere alla vittoria della sua squadra del cuore.

lunedì 14 luglio 2014

Come sono fugaci le finali dei Mondiali

 

 A Simone, devi essere forte

Paloma é bellissima alle sei del mattino mentre addenta un croque monsieur con la sua bocca carnosa e il labbro superiore ha la forma di un tunnel oscuro e silenzioso scavato nella montagna che divide un'isola in due parti e attraversarlo significa scegliere il mistero dell'altra parte, quella che non si conosce e che secondo alcuni é solo un luogo immaginario. I piccoli occhi tondi e bruni come biglie si muovono in maniera vorticosa mentre il trucco nero si scioglie maldestramente sulle palpebre, rivelando con maggiore esattezza i contorni di una bellezza di vent'anni. Il sangue argentino che le scorre nelle vene, gli anni trascorsi da bambina a Buenos Aires, la aizzano di rabbia - ma é una rabbia sorridente - quando le confesso che domenica sera, nonostante tutto, nonostante me stesso, nonostante il tifo, prenderó le parti della Germania perché nella vita ogni tanto bisogna pur riconoscere che qualcuno si é meritato un certo riconoscimento, che é giusto cosí, e questa Germania é una squadra fantastica ormai da quasi dieci anni e porta avanti un calcio bellissimo, fresco, giovane, da sei del mattino, che le assomiglia piú del gattamortismo di Messi e compagni, e poi c'é quell'Ozil che é pura magia, che ogni tocco sembra un bacio sussurrato prima di scomparire nella notte...Ma tanto é inutile che ti arrabbi Paloma, le dico, domenica io non saró giá piú parte della tua vita, tre giorni avranno diluito il ricordo di questo fugace incontro notturno davanti al forno di Tuset e io saró lontano come un rigore non fischiato ma che forse c'era in una partita contro la Cremonese di inizio anni Novanta.

Otto anni fa Paloma era una ragazzina di Barcellona che coniugava argentinitá e catalanismo avvicinandosi con i nuovi amici dell'Instituto ai piaceri della carne e del sangue, sotto forma di empanadas e kalimotxo, mentre io, che avevo la sua etá di oggi, mi trovavo nella stessa cittá, anche se mai avrei potuto incontrarla. La sera della finale di Berlino con mio padre passiamo in pasticceria per comprare il dolce da portare al signore coi capelli rossi che ci ha invitato a casa sua a vedere la partita, quella che nel momento in cui compriamo il dolce é ancora solo una partita, una finale da giocare, e non la sera in cui l'Italia ha vinto il Mondiale, lo stesso momento di attesa e mistero che sto vivendo io, senza mio padre e senza il signore coi capelli rossi, otto anni dopo sul tavolo della cucina di una casa ad appena due strade di distanza da quella in cui vivevo allora, quando manca meno di un'ora al calcio di inizio della finale di Rio de Janeiro e su Radio Clásica danno La vida breve di Manuel de Falla. Quel signore coi capelli rossi l'avevamo conosciuto nella piazza dell'orologio poche ore prima, per casualitá, e avevamo scambiato qualche parola di circostanza sul fatto di essere italiani, anzi romani (pure se lui era di Genzano) a Barcellona in una giornata storica come quella, e cosí era venuta fuori l'idea, per cosí dire, di unire le forze e vedere la partita insieme, magari a casa sua perché era piú grande, piú ventilata, e soprattutto era veramente casa sua e non un paio di camere prese in affitto per un semestre. Con mio padre accettammo offrendoci di portare il dolce, e con il senno di poi abbiamo fatto bene ad andare a casa del signore coi capelli rossi perché, almeno per quanto ci riguarda, é stato in quel salotto che Grosso ha segnato il rigore decisivo, l'Italia ha vinto il Mondiale, il dolce era buonissimo e io ho potuto lanciare un urlo liberatorio e patriottico dal terrazzo del quinto piano.

Il signore coi capelli rossi, di cui non ricordo neanche il nome (lui mi chiamava Junior, chissá perché), come Paloma non ricorderá tra otto anni neanche il mio, l´ho visto tre ore in tutta la mia vita, le tre ore della finale tra Italia e Francia, quindi tre tra le ore piú importanti della mia vita, e poi mai piú, nonostante gli avessi dato pure una borsa di libri che lui si era offerto di riportarmi in Italia visto che  andava in macchina e aveva il bagagliaio mezzo vuoto, solo che io, tornato dopo l'estate a Roma, non l'ho mai piú chiamato, avevo il suo numero di telefono ma, per colpa di quegli attacchi di pigrizia che fanno credere che una cosa si puó sempre fare il giorno dopo, e poi quello dopo ancora, finché diventa troppo tardi per farla, non ho mai voluto digitarlo, non ho mai voluto parlare di nuovo con lui, sentire la sua voce, farmi chiamare Junior, prendere appuntamento per incontrarmi a Genzano in modo che potesse consegnarmi la borsa con i miei libri, e quindi quei miei libri io non li ho mai piú rivisti, saranno rimasti per mesi e forse anni nella cantina di una casa sconosciuta alle porte di Roma e magari sono ancora lí che prendono polvere, mantenendo vivo il mio legame lungo undici metri con il signore coi capelli rossi con cui insieme a mio padre decidemmo, non senza esitazioni, di condividere un momento cosí importante e in fondo irripetibile della nostra vita, un momento che ci avrebbe segnato come padre e come figlio, e forse é stato meglio cosí, é stato meglio non recuperare mai quei libri, aver tolto con questo aneddoto epica a quella serata, perché ogni volta, quando suonano gli inni prima della finale, e i giocatori si abbracciano, e i telecronisti si eccitano, e per le strade non c'é nessuno, sembra che non solo finisce il Mondiale, ma sembra che finisce proprio il mondo, e invece non finisce proprio nulla, é solo una stupida finale di un Mondiale, é solo un'illusione, tra quattro e poi otto anni saremo tutti di nuovo qui davanti al televisore a vedere come finisce un'altra volta, e poi un'altra volta ancora, e accanto a noi mancherá qualcuno e ci sará qualcuno nuovo, perché non abbiamo alternative, dobbiamo sempre andare avanti, con quello che si perde e con quello che si trova.

Non so Paloma con chi vedrai la partita stasera, di certo non con me, che sono da solo a casa tentando di riprodurre filologicamente la stessa pasta al tonno che mia madre cucinó a Fregene la sera della finale di Italia '90, anche se pochi chilometri ci dividono, meno dei nostri anni sicuramente, non so se alla prossima finale del Mondiale saremo nella stessa cittá di nuovo, non so neanche se il signore coi capelli rossi é a Barcellona stasera, in quell'appartamento ventilato nel palazzo senza ascensore che si trova al di lá della piazza su cui oggi si affacciano queste finestre, peró volevo dirti che ho cambiato idea e questa sera tiferó per l'Argentina e la tiferó per te e per la tua bocca e per i libri che hai dimenticato a Buenos Aires quando sei venuta ad abitare a Barcellona e per quelli che dimenticherai a Barcellona quando lascerai la casa di un ragazzo che pensavi fosse coraggioso e invece ha avuto paura di scoprire cosa c'era dall'altra parte di quel tunnel, pure se aveva il numero dieci sulle spalle.

mercoledì 25 dicembre 2013

Imma e il Barcellona. Un racconto di Natale




Para venir a poseerlo todo,
no quieras poseer algo en nada:
Para venir a serlo todo,
no quieras ser algo en nada.

San Juan de la Cruz

Ti ricordi, Imma, quando tornammo dal mare - era una fresca giornata di fine aprile, soleggiata, avevamo preso il treno ad Aragò e, dopo oltre un’ora passata a leggere i giornali e a guardare il Maresme fuori dal finestrino, eravamo arrivati a San Pol de Mar, e avevamo camminato senza meta per le sue strade di case bianche con l’intonaco macchiato dalla salsedine, prima di sederci al tavolo di un ristorante sulla spiaggia, con i piedi nudi nella sabbia e l’immancabile fritto di calamari - e, risalendo il Passeig de Gracia, trovammo la strada bloccata all’altezza della Diagonal, una folla tumultuosa assediata dietro le transenne, uno sventolio di senyeras rosse e gialle e vessilli azulgrana, tanto che ci dovemmo fermare, e fu anche piacevole per i nostri piedi martoriati dai granelli di sabbia nelle espadrillas, per attendere che passasse il corteo, il pullman scoperto, i giocatori festanti, la chioma bionda di Maxi Lopez, e tu mi chiedesti, con la faccia sorpresa ed elegantemente imbronciata, ma cosa sta succedendo? In quel momento pensai che tu, figlia del notaio, malinconica esponente della rigida borghesia catalana, cresciuta in una famiglia di soci del club, tu, con la tua carriera da giurista e i sogni da cantante d’opera, eri davvero una persona fuori dal mondo per non sapere che il Barcellona aveva appena vinto il campionato. Dopo quel giorno, dopo quella passeggiata, ve ne furono molte altre, quasi sempre inconcludenti, e per questo conservate nella mia memoria. Come quella volta che, dopo che finalmente avevi capito che mi piaceva il calcio, e che se il lunedì non ti accompagnavo al cinema non era perché non mi andava, ma perchè dovevo giocare in un campo arido e polveroso ai piedi del Monte Carmelo con una banda di sudamericani che, nel dedalo di strade intorno alla piazza dedicata a Francisc Macià, dove abitavi, si vedevano solo vestiti da camerieri, mi invitasti a vedere una partita importante - così diceva il messaggio, mi ha detto mio padre che stasera c’è una partita importante, non so cosa, vuoi venire a vederla a casa nostra? - e la partita importante era la finale di quella che un tempo si chiamava la Coppa dei Campioni, e io dissi di sì, che sarei venuto con piacere, anche se in realtà tutto questo piacere non lo sentivo, perché ero intimorito da tuo padre, il notaio, che, le poche volte che l’avevo incontrato, di solito fortuitamente quando ti accompagnavo sotto casa, mi dava sempre l’impressione di non fidarsi di me, di vedere nei miei occhi il desiderio sordido di deviare la carriera della figlia dal concorso notarile ai palchi dei teatri di provincia, o peggio, tuo padre temeva che io volessi entrare in te per entrare in società, quando io, in realtà, l’unica cosa che volevo, il mio desiderio più grande, era vederti seduta sulla terrazza di casa mia, al crepuscolo, era vederti contemplare la distesa dei tetti di Gracia, come tutto si diluiva in un colore indefinito tra l’arancione e il rosso, come tutto si disfaceva, e tanto meno avevo un’infanzia miserabile da trasformare in meraviglia perduta di fronte a un camino acceso nel Penedès. Quando segnò Belletti capii che il Barcellona avrebbe vinto, che il Barcellona avrebbe vinto sempre, e che io e te non saremmo mai stati insieme, perché tuo padre abbracciò tuo fratello e poi suo cognato, poi ti guardò con amore e guardò con amore sua moglie, che era uscita dalla cucina con uno scatto alla Eto’o e le presine in mano, tuo padre guardò tutti, ma non guardò me, perché sapeva che non tifavo il Barcellona, sapeva che odiavo il Barcellona, perché a me piaceva l’Espanyol, la sofferenza, le lacrime, aveva capito che ero una di quelle persone che detestano la normalità, il lento susseguirsi dei giorni a una temperatura tiepida, e aveva già iniziato la tua quarantena, aveva già iniziato a tenerti lontana da me. Quando a tavola mi chiese perché provassi tanta antipatia per la sua squadra, perché non condividessi neanche un frammento di tanta felicità, gli risposi, ma in realtà parlavo a te, che ogni vittoria del Barcellona non è altro che una reiterazione, una sterile ripetizione di un desiderio che già conosciamo, e che in assenza di mistero, il calcio, come l’amore, non trasmette nulla. Ma che importa?, mi troncò la frase, senza sfida, ma in realtà sfidandomi. Tutto è archetipico, caro Federico, però è. Devi imparare che nella vita le cose si fanno, non si sognano. Sulla strada del ritorno, per la prima volta, mi hai preso la mano, all’altezza della farmacia di tua madre, lì dove Tuset incrocia Travessera. Hai presente quando mi hai lasciato quel biglietto, la prima volta che siamo usciti, in cui mi hai scritto che volevi qualcuno che entrasse nella tua vita come un uccello che entra dentro una cucina e inizia a rompere tutto e a sbattere contro finestre e porte lasciando caos e distruzione, e poi siamo andati a casa tua e mi hai fatto ascoltare la canzone dei Migala a cui avevi rubato questa frase?, ecco, ti volevo dire che io non ce la faccio, mi dispiace tanto, ma non ce la faccio, ti amo ma non ho bisogno di te, ho bisogno di qualcuno che mi tenga con i piedi fermi per terra, che mi ricordi di andare a lezione e mi spenga il giradischi con la Bohème, mi dispiace ancora, perdonami, addio, addio mio caro Federico! Mentre parlavi, guardavo i tuoi capelli laboriosi, che mal celavano uno sforzo segreto e inutile, un sogno mille volte infranto e però intatto, quel sogno di risultare più attraenti di quanto lo si è. Arrivammo alla piazza della Virreina senza più dirci una sola parola. Le campane iniziarono a suonare. Era mezzanotte, ed eravamo accerchiati dai tifosi in festa che sciamavano con le sciarpe e le trombette verso il centro. Mi hai dato un bacio sulla guancia, un leggero sfiorare più che un bacio, un gesto che chiedeva scusa per tutti i peccati che avevi commesso, a partire da quello che stavi commettendo in quel momento. In tutti questi anni sei rimasta un mistero per me, Imma. Perché mai sarò venuto, in questi giorni di Natale? Cosa spero di ottenere, o semplicemente di scoprire? Sono passati più di sette anni da quel bacio alla Virreina, e fino alla settimana scorsa non avevo più ricevuto tue notizie. Ora sono sotto casa tua, di nuovo, come sette anni fa, con una tua lettera nella tasca del cappotto. Sono diventata un notaio, dice la tua grafia irregolare. E dice anche - in realtà non lo dice, ma lo riconosco - che sui fogli hai lasciato cadere tante gocce del tuo profumo al mandarino. Sapevi che avrei portato quei fogli alla bocca - perché la carta mi piace, e tu hai usato una carta francese, filigranata, irresistibile - e che in questo modo, quando avrei baciato un’altra ragazza, lo avrei fatto con il tuo odore sulle labbra.  

domenica 25 novembre 2012

Hasta siempre, comandante Di Matteo

Roberto Di Matteo non è mai stato un allenatore di calcio. Al più, un comandante andino che prende un esercito allo sbando nel bel mezzo della guerra e scaccia l'invasore. Uno che, però, poi quando va al governo scopre inesorabilmente di essere un uomo di lotta, uno che del potere e della gloria non sa che farsene. Un Batman, ché non c'è niente di più tragico che un eroe di guerra in tempo di pace. Quando si deve vincere in casa - sempre - e, al massimo, pareggiare fuori, quando ottobre disegna i primi scarni tratti di un campionato e già novembre dà qualche sentenza di primo grado, un Di Matteo non serve più. Sei mesi fa salvò la faccia, il didietro e la reputazione del Chelsea con una tattica da comandante Giap che attende nelle paludi del Vietnam e lancia la sua offensiva quando gli altri hanno le armi scariche. Poche settimane e l'ex vice del metrosexual Villas Boas aveva già vinto di più di quel Mourinho là, lo Special One.
 
 
Roman Abramovich ha per anni innaffiato il Chelsea di rubli, esaudendo desideri, gonfiando il proprio ego con nomi altisonanti. Il risultato? Qualche Premier League. Ok, vabè, ma quelle le vincono anche quegli straccioni ripulti del Manchester City. Mancava all'appello il colpo gobbo, la notte della leggenda, quei 90 minuti e rotti che ti fanno uscire dalla Storia e ti consegnano direttamente all'Olimpo di quelli che hanno alzato al cielo la coppa dalle grandi orecchie.
C'aveva provato, qualche anno fa un oscuro allenatore israeliano, Avram Grant, ma la sua occasione volò via in una Mosca piovosa e inospitale, quando l'eterno Ettore John Terry scivolò sul dischetto e calciò malamente sul palo esterno il rigore decisivo, con l'odioso Achille, Cristiano Ronaldo, che si è alla fine goduto la sua vittoria immeritata.
Poco tempo dopo fu il turno del grande timoniere Guus Hiddink, con tanto di scippo del decennio. Una semifinale col Barcellona terminata 1-1, con i catalani che passano il turno per il gol in trasferta. Un arbitraggio scandaloso con tre o quattro rigori nettissimi negati e Drogba che alla fine guarda la telecamera e urla “It's a fuckin' disgrace”. Crudeltà pura, altro che televisione del dolore.
Per rompere ogni indugio, fu allora preso lo specialista delle coppe: Carletto Ancelotti. Ma anche lui si limitò a trionfare il Premier League senza mai sfondare in Europa. Abramovich pensò ad altre soluzioni: Lourdes, Fatima, l'invasione con i carri armati. Ma non se ne fece mai nulla.
Alla fine, nel bel mezzo di una stagione disastrosa, dopo aver preso tre ceffoni da Napoli, ecco che in panchina si materializza lui, uno svizzero dalle origini abruzzesi, discreto centrocampista una quindicina di anni fa, poi anonimo tecnico tra le squadre minori del campionato inglese.
Di Matteo, Roberto Di Matteo: bruttino, pelato e senza la minima esperienza. Il compito che gli era stato affidato, però, era sempice: “Cerchiamo di arrivare in fondo senza farci troppo male”. Niente di più. Un traghettatore e basta, questo serviva.
A sentire quelle parole Di Matteo probabilmente sorrise un po' imbarazzato, senza pensare troppo a quello che stava per accadere. Roberto cominciò così una lunga risalita: prima ribalta il Napoli e sbaraglia il Benfica, poi butta fuori il Barcellona. Ed è qui la spannung della storia. Due partite di dolore sovrumano, tattica, strategia, abnegazione, forza e un Drogba a fare contemporaneamente il terzino, il mediano, l'ala e la prima punta. Uno a zero per il Chelsea all'andata, in quel di Londra. Ma non ci credeva nessuno: il Barcellona gare del genere le perde, ma vedrete che al ritorno... E' solo questione di sfortuna. Ma dai, hai visto che catenacciari gli inglesi?
Fu così che, un paio di settimane dopo, in Catalogna il Barcellona segna un gol, ne segna un altro e poi capitan Terry, sempre lui, si fa cacciare. I sostenitori tiki-taka già pregustavano la goleada, la passeggiata comoda verso la finale. E invece Ramirez si inventa un pallonetto poco prima di andare a prendere il mitico tè caldo: 2-1, e Chelsea qualificato all'intervallo. “Non vi preoccupate - dicevano gli esteti filo-Barcellona -, i ragazzi ora gli faranno il terzo, è solo questione di tempo”. E infatti, Drogba si fa prendere dalla foga e regala un rigore alla squadra di casa. Sul dischetto va Messi, “il miglior rigorista del mondo”, “il più grande, più di Maradona e Pelè”. Bum - sassata - la traversa del Camp Nou ancora trema. Lo shock del pubblico è tanto: “No, non vorrai che...”.
E' assedio, mancano solo le alabarde e gli arcieri. Ultimo minuto di gioco: lancio lunghissimo dall'intasata area del Chelsea, là davanti c'è solo Fernando Torres, con una succulenta prateria verde davanti e la porta come obiettivo. Mezzo campo da solo con la palla a terra, saltato agilmente Valdès e gol: 2-2, la partita è finita, il Barcellona è fuori. Di Matteo salta in panchina, corre, abbraccia tutti, non ci crede manco lui.
 
 
Gli dei del calcio - XaviIniestaMessi - vanno fuori, perché il turno non lo passa chi prende più pali e traverse, ma chi non perde nemmeno una volta in due partite. Il pallone non è il circo, gli acrobati divertono tanto mentre ballano sospesi nel vuoto, ma quando poi si va al “dentro o fuori senza appello” serve culo e serve la guerriglia. Servono quei momenti in cui tutto diventa metafisica e anche un brocco come Torres può diventare l'eroe dei due mondi.
Il resto è storia: la finale a Monaco di Baviera contro il Bayern è un'altra battaglia. Pareggio di Drogba a un'incollatura dalla fine e trionfo finale ai rigori. Ma era ovvio che sarebbe andata a finire così. Era ovvio già dopo la rimonta contro il Napoli. Il finale di certe storie è scritto già alla prima pagina, occorre solo aspettare e osservare come il fato si diverte poi a muovere le pedine.
Ora però, dopo aver preso tre sberle - meritatissime - dalla Juve, Di Matteo è stato licenziato senza troppi convenevoli. Non basta essere grandi generali per essere grandi statisti. Eppoi, i russi vogliono anche un bel nome, un'etichetta di pregio, una firma da poter esibire. Certo, l'idea di giocare con sei fantasisti, nessun incontrista e nessuna punta allo Juventus Stadium sarà anche discutibile, ma che volete, doveva essere una partita come molte altre, non un assalto al Palazzo d'Inverno. E' così che si perde, con la serena consapevolezza di essere destinato alla forca dal minuto dopo che hai alzato la Coppa dei Campioni verso il cielo. Un attimo di lucidità in mezzo alla gioia: non sei Guardiola, non sei Capello. Hasta siempre, comandante Di Matteo.