Non sono mai stato una di quelle persone con un film preferito; una di quelle persone da canzone del cuore o da gruppo musicale per il quale pagare qualsiasi cifra pur di vederlo dal vivo. Probabilmente per la stessa ragione, non sono mai riuscito a mettere su un altarino particolarmente alto una qualsivoglia personalità, una sorta di fonte d’ispirazione. Da quando il mio maestro di musica delle medie mi raccontò di come visse la morte di John Lennon - senza uscire di casa per settimane e ascoltando fino allo sfinimento tutti i dischi in cui il suo idolo aveva piazzato anche solo un mezzo accordino - mi chiesi come una persona potesse arrivare a trovare un feeling così forte, una comunione così totalizzante con qualcuno che, sebbene fosse un punto di riferimento intellettuale, era a conti fatti uno sconosciuto. Devo dire che ero anche abbastanza invidioso della cosa e mi chiedevo per quale strano motivo io non fossi mai riuscito a provare, non dico le stesse sensazioni, ma un piccolo, piccolissimo dispiacere per la morte di qualche famoso, e me lo chiesi per tutti gli anni successivi: ogni volta che una persona più o meno nota, che in un certo senso era stata per me “importante”, finiva all’aldilà, non riuscivo proprio a versare una lacrima, non provavo il benché minimo desiderio di tapparmi in casa e non ero in grado di compiere un’azione o un qualsiasi gesto rituale per esorcizzare l’accaduto.
Ma proprio quando mi ero convinto che nella vita non sarei mai riuscito a trovare un’empatia così importante con una persona “famosa” e al tempo stesso sconosciuta, vidi entrare Mattia Biso a San Siro per il riscaldamento. Era il 4 dicembre del 2005 e a Milano c’era la neve.
Momento: facciamo un passo indietro lunghissimo.
È il mercato di riparazione della stagione 2002-2003, l’Ascoli Calcio sta disputando, come da qualche anno a quella parte, un serenissimo campionato di Serie B. Tuttavia in quei giorni, il suo capitano, uomo simbolo e chi più ne ha più ne metta, Gaetano Jimmy Fontana (fino ad allora 104 presenze e 34 reti con la maglia bianconera) viene ceduto a una Fiorentina fresca fresca dell’acquisto dei Della Valle, che non si capisce ancora bene come diamine si chiami, se Fiorentina 1926 Florentia, Florentia Viola, AC Fiorentina o ACF Fiorentina. Poco cambia, la società è ricca e ambisce a tornare in Serie A ed è per questo che decide di affidare le chiavi del centrocampo all’ex capitano dell’Ascoli. Neanche a dirlo, nel 4-4-2 duro a morire di Aldo Ammazzalorso (ora responsabile del settore giovanile dell’Associazione Sportiva Pineto Calcio, che si barcamena da anni in Eccellenza) manca una pedina fondamentale: il mediano. O, con molto più romanticismo, il centromediano metodista; il ruolo - credo - più affascinante del calcio. Il ruolo dei lenti, di quelli non hanno bisogno di correre dietro al pallone perché fanno correre entrambe le squadre al ritmo che decidono di imprimere ai loro passaggi, il ruolo dei direttori d’orchestra, il cardine del 4-4-2, che nel nostro calcio sta finendo sempre più spesso in soffitta, sostituito da mezzale scorbutiche e trequartisti moderni. Ora, immaginate una piazza come Ascoli, sicuramente non una delle più razionali e fredde d’Italia, privata in un colpo solo del proprio capitano e del custode della propria identità di gioco: psicodramma collettivo. Se avete immaginato senza difficoltà le scene di lutto comunitario che si susseguirono alla notizia della cessione di Fontana alla Fiorentina, potete altrettanto facilmente immaginare con quanti dubbi e con quante perplessità venne accolto l’arrivo di Mattia Biso in terra marchigiana, l’uomo che nei piani della società avrebbe dovuto raccoglierne l’eredità.
Anche Mattia Biso era il classico regista, classico nel termine più vero del termine, era quasi vintage: un amplificatore Vox o un basso Rickenbacker, una Giulietta, un cappotto di renna, un pacchetto di Cinnamon. Fu così che i tifosi ascolani, che come ben saprete (e se non lo sapete ve lo dico io) non sono famosi per le posizioni politiche internazionaliste, si videro arrivare, a bordo di una station wagon rossa, un tipo allampanato e dinoccolato, con una cesta di capelli ricci e scuri chiusi in una sorta di chignon più degna di un tizio armato di bolas e boccioni al Primo Maggio che di uno strenuo difensore dell’orgoglio Piceno, con una barba ispida e malcurata e un orecchino d’oro da pirata su ogni lobo.
Il trasfert, con un me tredicenne che iniziava a prendere dimestichezza con l’adolescenza, fu immediato.
Mattia Biso lo ricordo immobile in mezzo al centro di centro campo, che sventaglia a destra e a manca con una precisione - che la mia memoria al limite della leggenda ha trasformato in - millimetrica il pallone, per lanciare gli esterni di quel 4-4-2 tipicamente ascolano, forse ancor più caratteristico delle olive fritte (dal 1997 ad oggi ricordo ben pochi allenatori che giunti in città abbiano abbandonato questo credo dogmatico, in cui tutti i giocatori - tranne, appunto, il mediano - si muovono come su binari prestabiliti dalla Divina Provvidenza, da un Demiurgo che tutto prevede e tutto sa). Ricordo, negli stralci dei discorsi con gli amici e con gli adulti, di essere stato uno dei pochi a sostenere questo calciatore così atipico. Ricordo, che andavo allo stadio felice di vederlo, che ero contento quando indovinava la giocata e provavo un vero e proprio godimento quando potevo ammirarlo mentre si avvicinava al pallone e, con un equilibrio che sembrava esistere a prescindere dalla gravità e dalla terra sotto i tacchetti, un equilibrio storto e isterico, gli arrivava con il corpo sopra; poi, guardando a destra, incrociava il piatto destro nella direzione opposta, lanciando l’ala o il terzino di turno. Un no-look si direbbe oggi. Era bello perché era iconico, riconoscibile anche a chilometri di distanza e con la nebbia, riconoscibile per questo suo modo instabile di muoversi, per i calzettoni bassi a sfidare l’autorità costituita e per la capigliatura stile dottor Socrates. Ecco, il Dottore: per me Mattia Biso in quegli anni che mi fecero entrare nell’adolescenza e conoscere la musica rock e le droghe leggere, era una sorta di eroe proletario, l’emblema di una rivoluzione fantasiosa che si compie con la semplicità di un gesto quotidiano, di una rottura dei soliti schemi narrativi ed estetici, era la ribellione di Woodstock e di Che Guevara che batteva le punizioni contro la Ternana.
I due anni di Serie B vennero vissuti con alti e bassi. Ad ogni “Quanto cazzo è lento” che esplodeva dai distinti quando perdeva un pallone, io vedevo soltanto un passo falso della storia, ad ogni “È il decimo lancio che sbagli” io vedevo i partigiani ritirarsi sulle montagne pronti per sferrare un nuovo attacco. Il Sol dell’Avvenire era alle porte e io mi sentivo uno dei pochi fortunati che se ne stavano accorgendo. A conti fatti, il Sol dell’Avvenire ad Ascoli arrivò davvero: nella stagione 2004-2005 la panchina bianconera venne affidata all’ex calciatore, punta arcigna, Massimo Silva e a un giovane dalle belle promesse di nome Marco Gianpaolo. Nonostante una partenza non brillantissima, l’Ascoli centrò la qualificazione ai play off, dove, però (mentre io ero in una gita in Sicilia, condita da vino rosso e pomiciate) perse contro un Torino agguerrito e determinatissimo a tornare in Serie A. Fu lì però che vidi la manifestazione della Provvidenza: non solo il Geona primo classificato venne retrocesso, ma il Torino e il Perugia, rispettivamente secondo e terzo, fallirono. Fu così che l’Ascoli, con una piroetta degna dello Steven Bradbury più fortunato, durante un’afosa estate del 2005, si trovò magicamente in Serie A.
In quella stagione però Mattia Biso non trova spazio, chiuso da una coppia di mediani robusti e pelati, Guana e Parola, centrocampisti rocciosi necessari a far legna in mezzo al campo per sostenere due ali offensive come Foggia e Fini e due terzini di spinta come Del Grosso e Comotto. Poi, aimè, forse la Serie A ha dei ritmi troppo veloci per un giocatore che ha bisogno di pensare e immaginare tutto prima di trasformare ciò che ha in mente in atto: lancio, tiro, stop. Tuttavia, in un trionfo di corsi e ricorsi storici arriva l’esordio in Serie A: è il 6 novembre del 2005. Si affrontano Fiorentina e Ascoli, ma Fontana è già a Napoli. La partita si gioca a porte chiuse perché nell’esultanza della vittoria casalinga contro la Sampdoria di qualche giorno prima, un razzo di segnalazione navale è partito dalla Curva Sud: una parabola perfetta, una fune rossa e fluorescente che attraversa tutto il terreno di gioco in una manciata d’istanti che per i presenti sembrano un’ora. Poi lo schianto sulla gradinata semi deserta della Curva Nord. Una signora viene colpita da una scheggia del razzo frantumatosi su quei vecchi scalini di cemento armato; perderà un dito o forse un occhio, o forse nulla - non ricordo. È così che in un Del Duca deserto per questo eccesso di entusiasmo, al sedicesimo del secondo tempo di Ascoli-Fiorentina, Mattia Biso sostituisce Tosto per il suo esordio in Serie A. Io sono a casa, sul divano.
Il calendario corre, l’Ascoli pareggia uno a uno al Bentegodi e poi, con lo stesso risultato, in casa contro il Palermo. Biso parte titolare nella prima partita - “Uno spettro si aggira per la serie A” - ma viene sostituito all’ottavo minuto del secondo tempo - la Rivoluzione può aspettare. Contro il Palermo invece non vede neanche la panchina - Il mio Trotskij, mandato in esilio, colpevole del suo passo utopico e della sua Rivoluzione Permanente.
Poi, il giorno in cui la storia della gente comune incontra quella con la S maiuscola, la storia dei libri e dei bassorilievi di marmo.
È il 4 dicembre del 2005 e io sono un quindicenne scazzato in trasferta a Milano con il padre e gli amici del padre. Sotto la Madonnina fa un freddo cane e nevica. Tira un vento gelido che come raffiche di mitra ti schiaffeggia la faccia, con una violenza che giustificheresti soltanto in seggiovia. La strada per arrivare a San Siro non è poca o meglio, non è poca per me che sono abituato ad andare allo stadio a piedi in cinque minuti e che ancora non immagino la difficoltà di raggiungere l’Olimpico il sabato sera. San Siro è meraviglioso, un gigante di cui intuisco il design futuristico per i tempi che furono, che si fa strada a manate da una nebbia densa e bagnata, circondato dalla luce livida dei lampioni che virano sull’arancio. Salgo al secondo anello e guardo i giocatori entrare in campo per scaldarsi. Per me che fino all’anno prima tifavo l’Inter, per me che avevo pianto il Cinquemaggio e che ero rimasto immobile davanti a un Ronaldo abbattuto in area di rigore, per me che mi ero esaltato nel vedere Ze Elias con la maglia rossoblu in un Ascoli-Genoa di serie B di qualche tempo prima, era una sfida ideologica e politica, prima ancora che calcistica. La piccola squadra della tua città, costruita in pochi giorni prima di Settembre, quando gli stabilimenti balneari si iniziano a svuotare, che arriva a San Siro. Un sogno. Avevo vissuto gli anni di C1 e di B con i racconti di mio padre sull’Ascoli del record di punti in Serie B, con nella mente le scorribande di una squadra provinciale abilmente costruita da Rozzi e Mazzone, contro le grandi di Serie A e ora, finalmente, ero in piedi alla Scala del Calcio, pronto ad applaudire.
Quell’Ascoli non sarebbe stato un agnello sacrificale, perché Silva e Giampaolo avevano messo in piedi una squadra ben disposta in campo, che giocava un calcio semplice ed efficace, il giusto equilibrio tattico che ti faceva credere che nessun risultato fosse mai scontato. Ero in piedi, alla Scala del Calcio, quando vidi entrare questo capellone dinoccolato con i calzettoni bassi e gli scarpini neri. Cosa ci faceva lui in questo santuario del calcio borghese? Lui che sarebbe stato più degno di un Valle Occupato? Lo vidi scaldarsi e per tutto il tempo seguii con gli occhi lui e solo lui; dall’altra parte della linea mediana c’erano gli Zanetti, i Veron, i Figo, i Recoba ma io non potevo fare a meno di guardare quella corsa svogliata e così fottutamente proletaria. A un tratto Biso si staccò dal gruppo palla al piede, lo vidi percorrere una ventina di metri, oscillando, come se il suo baricentro venisse continuamente spostato prima alla destra e poi alla sinistra della sua spina dorsale. Lo vidi accarezzare una dozzina di volte il pallone con l’esterno del piede, entrare in aria di rigore e, all’altezza del dischetto, calciare verso la porta vuota: GOL! Mattia Biso aveva messo una palla in rete a San Siro. E poco m’importava che la partita non fosse neppure iniziata, ma Mattia Biso aveva segnato a San Siro e io ero contento per lui. Ero contento perché aveva fatto ciò che avrei fatto anch’io, quindicenne scazzato. Si era allontanato dal gruppo e aveva segnato a San Siro. A lui, come a me, non interessava che fosse solo il riscaldamento.
La Rivoluzione va prima immaginata.
Biso restò in campo per tutti i novanta minuti. L’Inter vinse uno a zero con una punizione all’incrocio di Adriano al 24’ del primo tempo, ma cosa importava? Biso aveva segnato ed entrambi sapevamo che depositare una palla in rete a San Siro per un ragazzo che fino a qualche anno prima aveva giocato con Tempio, Faenza, Fidelis Andria, Mestre, Lecco, Carrarese era più importante di qualsiasi punto assegnato dalla Federazione Capitalista.
La Rivoluzione prima si immagina e poi si compie e io la vidi manifestarsi sotto i miei occhi, in tutta la sua forza deflagrante; ancora una volta sul divano, ancora una volta senza punti per l’Ascoli. Il 2005 sta finendo, in centro ci sono già le bancarelle natalizie e con gli amici inizio a programmare Capodanno. Abbiamo quindici e sedici anni e le nostre preoccupazioni principali sono cercare di fare un buon rock, ambire ad amplessi modesti e procurarci le canne per festeggiare il nuovo anno sufficientemente tumefatti per non pensare a quelle delusioni amorose che solo l’adolescenza riesce a generare, come se le andasse a capare direttamente all’inferno. È il 18 dicembre, una fredda domenica pomeriggio. Di quelle con il sole che scalda poco e ad Ascoli fanno scendere la temperatura sotto lo zero non appena il giorno sfuma.
L’Ascoli gioca in trasferta a Cagliari, con nove infortunati e uno squalificato e va sotto di due reti nel giro di una quarantina di minuti. La Rivoluzione però si compie nel secondo tempo: Guana imposta verso Comotto che sulla fascia destra allarga per Fini, l’ala va sul fondo. Al centro, nei pressi dell’area piccola, ci sono Quagliarella e Colombo, il cross di Fini però è arretrato, verso il dischetto. Foggia, che si trova dal lato opposto si stacca dalla marcatura e va indietro, a inseguire il pallone di Fini e si appresta a calciare di destro come in un meccanismo perfetto e oliato da anni. Ma la Rivoluzione, per definizione, distrugge lo status quo. Biso arriva da dietro - un balzo: si coordina e quasi in posizione orizzontale tira fuori dal meandro più fantasioso della sua intelligenza una semirovesciata di destro, strozza il pallone che si schiaccia contro l’erba a qualche metro di distanza dal portiere. La sfera s’imbizzarrisce, schizza in aria e finisce in rete. Biso si alza ed esulta; forse dovrebbe fare un piccolo slalom tra i difensori, scavalcare il portiere, prendere il pallone e portarlo nel centro di centrocampo, con la grinta di chi vuole almeno un punto. Ma perché? È il suo primo gol in Serie A e non ne farà altri. Ha appena alzato la testa dell’amplesso più estatico della sua esistenza, compiuto con l’eternità in testa, all’indicativo presente, come se dovesse durare per sempre, come i grandi primitivi e i rivoluzionari all’alba della rivoluzione. Perché non dovrebbe esultare? Chi l’ha detto che questo magma di sensazioni debba essere strozzato dalla necessità di raggiungere il profitto? Chi l’ha detto che vada sacrificato in nome dello stereotipo del successo borghese chiamato “pareggio” o “vittoria”?
Il risultato rimane invariato: l’Ascoli perde due a uno. Biso a gennaio farà le valige, retrocesso a Catania, in Serie B. Poi Spezia, Frosinone, Fidene, Monza, Civitanovese, Ancona. Io nel frattempo uscirò dalla mia adolescenza. Forse.