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martedì 25 novembre 2014

Breve elogio della Coppa Anglo-Italiana (una lettera risentita)



Che cos’è la noia, Fritz? Tu lo sai? È l’Europa, la noia. Ne sono sicuro, di questo.
Franz Krauspenhaar, "Le cose come stanno"

Lo dico subito, questo non è un post accurato, non ho fatto ricerche, non ho guardato su Wikipedia, non mi sono messo ad aspettare minuti 3:24 su YouTube per dire guardate al minuto 3:24, mi sono solo dato 11 minuti e 34 secondi, il tempo del Movement for Piano di Tyshawn Sorey, per scrivere una lettera risentita contro la così chiamata Champions League, il torneo d'èlite che si gioca in Europa, nella vecchia Europa, e che consiste fondamentalmente in una ripetizione eterna e con variazioni minime, neanche alla Goldberg, di giocate in velocità finalizzate da Cristiano Ronaldo, di esultanze risentite (ma verso chi, poi? Verso cosa? Che cazzo vuoi coglione? Non hai anche tu nostalgia di Funchal, della sua luce naturale, della sua vegetazione frondosa, quando ti svegli la mattina nella stanza minimalista, ferro e vetro, del tuo chalet di Puerta de Hierro, e accendi la luce con un battito di mani?) di Cristiano Ronaldo, high-lights di serpentine di Messi tra poveri difensori bulgari con la faccia di chi prende la metro B a Rebibbia e deve scendere a Eur Fermi per andare a prendere la corriera per il litorale, e pensare che c'è anche chi scrive di calcio su Internet e si lamenta che in questa competizione non ci siano solo Grandi Squadre, perchè quello che vogliamo sono solo le Grandi Partite, con i Grandi Giocatori, così che le Grandi Televisioni possano parlare dell'Avvenimento dell'Anno, ogni martedì c'è l'Avvenimento dell'Anno, e poi il mercoledì si ripete, passano due settimane e di nuovo c'è la Partita da Non Perdere, ed ecco il Bayern Monaco che frantuma squadre a cui può rubare il giocatore più forte pagandolo con i soldi che gli sono rimasti nelle tasche del cappotto dalla notte precedente, ed ecco l'Arsenal che c'è sempre anche se non ha mai vinto un cazzo, ed ecco il Paris Saint Germain ed ecco il Borussia Dortmund ed ecco le Squadre Inglesi e soprattutto ecco il grande Classico tra Real Madrid e Barcellona e mi domando che cazzo ci dobbiamo fare ancora con questo Classico di merda, con questa partita che abbiamo visto e rivisto un milione di volte, quante volte ce la riproporranno fino a farci vomitare, fino a farci strozzare con un osso di pollo di Busquets come lo Zio di Brooklyn, quante volte dovremo riascoltare quella musica gregoriana noiosissima, quante volte ancora?

E pensare che in questo periodo dell'anno, sì, proprio in questo periodo, a cavallo tra l'autunno e l'inverno, tra l'umido e il freddo, si giocava il Torneo Anglo-Italiano, poi Coppa Anglo-Italiana, non ricordo chi la vinceva, ricordo a malapena chi la giocava, qualcuno mi aiuti, nei commenti, con i suoi ricordi, perchè io ricordo solo un gol di Montella in rovesciata con la maglia del Genoa, lo vidi alla televisione, ricordo un gol di Bierhoff quando giocava all'Ascoli, giocava all'Ascoli Bierhoff e dopo neanche due anni vinse l'Europeo, ma tutto era iniziato con quel gol che segnò in casa dei Tranmere Rovers, me lo ricordo quel gol, l'Ascoli vinse al Prenton Park e io lo vidi in televisione, era un gol di testa ed esultai con il dito all'insù, come esultava Bierhoff, perchè ero contento quando una squadra italiana di serie B vinceva contro una squadra inglese di serie B, ero un ragazzino ed ero contento, non c'era la televisione satellitare, c'erano quei sette o otto canali e io ero contento, Bierhoff segnava in casa del Tranmere Rovers e mi faceva sentire fiero di essere italiano, oggi invece vedo una partita di Champions League tra una squadra inglese e una italiana e non me ne frega niente di chi vince, anzi spesso spero che la squadra inglese vinca o comunque che quella italiana perda, tanto la partita è solo una lenta attesa verso gli high-lights del gol di Cristiano Ronaldo contro il Bate Borisov, con i difensori del Bate Borisov che neanche facendo una colletta tutti insieme potrebbero pagare la depilazione di Cristiano Ronaldo, neanche quella delle sopracciglia, e però quei soldi qualcuno li deve spendere perchè Cristiano Ronaldo deve segnare tre gol a partita e deve esultare sempre allo stesso modo, risentito, orgoglioso (ma di cosa? Di aver segnato all'Olympiakos? Al Rosenborg? All'Apoel Nicosia?), e mentre la mia testa si riempie delle immagini delle sue esultanze tutte uguali, dei suoi gol tutti uguali, sento che i ricordi della Coppa Anglo-Italiana sfilano via come parastinchi buttati per terra dopo la partita, come calzini gettati nella cesta che il magazziniere laverà con il detersivo del discount, come i capelli di Bierhoff che segnò quella sera contro il Tranmere Rovers  con una spizzata rendendo immortale, almeno per me, spero non solo per me, una competizione di cui ho nostalgia perchè era una competizione in cui il Lecco poteva sfidare il Notts County e la Reggiana andava a perdere in casa dell'Ipswich e per tutti i tifosi di quelle squadre, in anni alto medioevali in cui l'Europa era ancora, soltanto, una lettera risentita scritta dal narratore di Frank Krauspenhaar in Le cose come stanno, scritta dallo stesso Franz Krauspenhaar che se non il più grande è tra i più grandi scrittori italiani moderni, perchè è uno scrittore da Coppa Anglo-Italiana e non da Champions League quello scrittore che il pomeriggio esce da solo a piedi e va al Billa a comprarsi una birra che poi si beve tornando verso casa, guardando la gente che torna a casa a Lambrate, a Rozzano, a non lo so neanche io dove, e non sta davanti al computer a retwittarsi i complimenti, e in quell'Europa in cui ancora non esisteva la Champions League c'era la Coppa Anglo-Italiana che era l'unico modo per tanti ragazzi di seguire la propria squadra all'estero, di sognare l'Europa, di illudersi di essere europei, di dare un po' di glamour a vite del cazzo, a stagioni di merda, a squadre grigie destinate a scomparire per colpa di una fideiussione da cento milioni, era il sogno di andare a Lecce da Leeds e rubarsi le scarpe nei negozi di sport, andare a Birmingham da Ancona e provare il gusto di una curry house, e oggi ce l'hanno tolto questo piacere, questo sogno, questa illusione, l'unica cosa che si può fare a Lecce e a Leeds, a Birmingham e ad Ancona queste sere di autunno-inverno è accendere la televisione e aspettare che il Real Madrid asfalti una squadra di poveri disperati, che Cristiano Ronaldo posi davanti alla telecamera per farci vedere che è un grande (ciao grande), che la lattina di birra comprata al Billa finisca prima che diventi troppo calda.

giovedì 24 aprile 2014

L'Adolescenza, la Rivoluzione e Mattia Biso

 
 
 
Non sono mai stato una di quelle persone con un film preferito; una di quelle persone da canzone del cuore o da gruppo musicale per il quale pagare qualsiasi cifra pur di vederlo dal vivo. Probabilmente per la stessa ragione, non sono mai riuscito a mettere su un altarino particolarmente alto una qualsivoglia personalità, una sorta di fonte d’ispirazione. Da quando il mio maestro di musica delle medie mi raccontò di come visse la morte di John Lennon - senza uscire di casa per settimane e ascoltando fino allo sfinimento tutti i dischi in cui il suo idolo aveva piazzato anche solo un mezzo accordino - mi chiesi come una persona potesse arrivare a trovare un feeling così forte, una comunione così totalizzante con qualcuno che, sebbene fosse un punto di riferimento intellettuale, era a conti fatti uno sconosciuto. Devo dire che ero anche abbastanza invidioso della cosa e mi chiedevo per quale strano motivo io non fossi mai riuscito a provare, non dico le stesse sensazioni, ma un piccolo, piccolissimo dispiacere per la morte di qualche famoso, e me lo chiesi per tutti gli anni successivi: ogni volta che una persona più o meno nota, che in un certo senso era stata per me “importante”,  finiva all’aldilà, non riuscivo proprio a versare una lacrima, non provavo il benché minimo desiderio di tapparmi in casa e non ero in grado di compiere un’azione o un qualsiasi gesto rituale per esorcizzare l’accaduto.
 
Ma proprio quando mi ero convinto che nella vita non sarei mai riuscito a trovare un’empatia così importante con una persona “famosa” e al tempo stesso sconosciuta, vidi entrare Mattia Biso a San Siro per il riscaldamento. Era il 4 dicembre del 2005 e a Milano c’era la neve.

Momento: facciamo un passo indietro lunghissimo.
 
 
È il mercato di riparazione della stagione 2002-2003, l’Ascoli Calcio sta disputando, come da qualche anno a quella parte, un serenissimo campionato di Serie B. Tuttavia in quei giorni, il suo capitano, uomo simbolo e chi più ne ha più ne metta, Gaetano Jimmy Fontana (fino ad allora 104 presenze e 34 reti con la maglia bianconera) viene ceduto a una Fiorentina fresca fresca dell’acquisto dei Della Valle, che non si capisce ancora bene come diamine si chiami, se Fiorentina 1926 Florentia, Florentia Viola, AC Fiorentina o ACF Fiorentina. Poco cambia, la società è ricca e ambisce a tornare in Serie A ed è per questo che decide di affidare le chiavi del centrocampo all’ex capitano dell’Ascoli. Neanche a dirlo, nel 4-4-2 duro a morire di Aldo Ammazzalorso (ora responsabile del settore giovanile dell’Associazione Sportiva Pineto Calcio, che si barcamena da anni in Eccellenza) manca una pedina fondamentale: il mediano. O, con molto più romanticismo, il centromediano metodista; il ruolo - credo - più affascinante del calcio. Il ruolo dei lenti, di quelli non hanno bisogno di correre dietro al pallone perché fanno correre entrambe le squadre al ritmo che decidono di imprimere ai loro passaggi, il ruolo dei direttori d’orchestra, il cardine del 4-4-2, che nel nostro calcio sta finendo sempre più spesso in soffitta, sostituito da mezzale scorbutiche e trequartisti moderni. Ora, immaginate una piazza come Ascoli, sicuramente non una delle più razionali e fredde d’Italia, privata in un colpo solo del proprio capitano e del custode della propria identità di gioco: psicodramma collettivo. Se avete immaginato senza difficoltà le scene di lutto comunitario che si susseguirono alla notizia della cessione di Fontana alla Fiorentina, potete altrettanto facilmente immaginare con quanti dubbi e con quante perplessità venne accolto l’arrivo di Mattia Biso in terra marchigiana, l’uomo che nei piani della società avrebbe dovuto raccoglierne l’eredità.
 
Anche Mattia Biso era il classico regista, classico nel termine più vero del termine, era quasi vintage: un amplificatore Vox o un basso Rickenbacker, una Giulietta, un cappotto di renna, un pacchetto di Cinnamon. Fu così che i tifosi ascolani, che come ben saprete (e se non lo sapete ve lo dico io) non sono famosi per le posizioni politiche internazionaliste, si videro arrivare, a bordo di una station wagon rossa, un tipo allampanato e dinoccolato, con una cesta di capelli ricci e scuri chiusi in una sorta di chignon più degna di un tizio armato di bolas e boccioni al Primo Maggio che di uno strenuo difensore dell’orgoglio Piceno, con una barba ispida e malcurata e un orecchino d’oro da pirata su ogni lobo. 

Il trasfert, con un me tredicenne che iniziava a prendere dimestichezza con l’adolescenza, fu immediato.

Mattia Biso lo ricordo immobile in mezzo al centro di centro campo, che sventaglia a destra e a manca con una precisione - che la mia memoria al limite della leggenda ha trasformato in - millimetrica il pallone, per lanciare gli esterni di quel 4-4-2 tipicamente ascolano, forse ancor più caratteristico delle olive fritte (dal 1997 ad oggi ricordo ben pochi allenatori che giunti in città abbiano abbandonato questo credo dogmatico, in cui tutti i giocatori - tranne, appunto, il mediano - si muovono come su binari prestabiliti dalla Divina Provvidenza, da un Demiurgo che tutto prevede e tutto sa). Ricordo, negli stralci dei discorsi con gli amici e con gli adulti, di essere stato uno dei pochi a sostenere questo calciatore così atipico. Ricordo, che andavo allo stadio felice di vederlo, che ero contento quando indovinava la giocata e provavo un vero e proprio godimento quando potevo ammirarlo mentre si avvicinava al pallone e, con un equilibrio che sembrava esistere a prescindere dalla gravità e dalla terra sotto i tacchetti, un equilibrio storto e isterico, gli arrivava con il corpo sopra; poi, guardando a destra, incrociava il piatto destro nella direzione opposta, lanciando l’ala o il terzino di turno. Un no-look si direbbe oggi. Era bello perché era iconico, riconoscibile anche a chilometri di distanza e con la nebbia, riconoscibile per questo suo modo instabile di muoversi, per i calzettoni bassi a sfidare l’autorità costituita e per la capigliatura stile dottor Socrates. Ecco, il Dottore: per me Mattia Biso in quegli anni che mi fecero entrare nell’adolescenza e conoscere la musica rock e le droghe leggere, era una sorta di eroe proletario, l’emblema di una rivoluzione fantasiosa che si compie con la semplicità di un gesto quotidiano, di una rottura dei soliti schemi narrativi ed estetici, era la ribellione di Woodstock e di Che Guevara che batteva le punizioni contro la Ternana. 

I due anni di Serie B vennero vissuti con alti e bassi. Ad ogni “Quanto cazzo è lento” che esplodeva dai distinti quando perdeva un pallone, io vedevo soltanto un passo falso della storia, ad ogni “È il decimo lancio che sbagli” io vedevo i partigiani ritirarsi sulle montagne pronti per sferrare un nuovo attacco. Il Sol dell’Avvenire era alle porte e io mi sentivo uno dei pochi fortunati che se ne stavano accorgendo. A conti fatti, il Sol dell’Avvenire ad Ascoli arrivò davvero: nella stagione 2004-2005 la panchina bianconera venne affidata all’ex calciatore, punta arcigna, Massimo Silva e a un giovane dalle belle promesse di nome Marco Gianpaolo. Nonostante una partenza non brillantissima, l’Ascoli centrò la qualificazione ai play off, dove, però (mentre io ero in una gita in Sicilia, condita da vino rosso e pomiciate) perse contro un Torino agguerrito e determinatissimo a tornare in Serie A. Fu lì però che vidi la manifestazione della Provvidenza: non solo il Geona primo classificato venne retrocesso, ma il Torino e il Perugia, rispettivamente secondo e terzo, fallirono. Fu così che l’Ascoli, con una piroetta degna dello Steven Bradbury più fortunato, durante un’afosa estate del 2005, si trovò magicamente in Serie A. 
 

In quella stagione però Mattia Biso non trova spazio, chiuso da una coppia di mediani robusti e pelati, Guana e Parola, centrocampisti rocciosi necessari a far legna in mezzo al campo per sostenere due ali offensive come Foggia e Fini e due terzini di spinta come Del Grosso e Comotto. Poi, aimè, forse la Serie A ha dei ritmi troppo veloci per un giocatore che ha bisogno di pensare e immaginare tutto prima di trasformare ciò che ha in mente in atto: lancio, tiro, stop. Tuttavia, in un trionfo di corsi e ricorsi storici arriva l’esordio in Serie A: è il 6 novembre del 2005. Si affrontano Fiorentina e Ascoli, ma Fontana è già a Napoli. La partita si gioca a porte chiuse perché nell’esultanza della vittoria casalinga contro la Sampdoria di qualche giorno prima, un razzo di segnalazione navale è partito dalla Curva Sud: una parabola perfetta, una fune rossa e fluorescente che attraversa tutto il terreno di gioco in una manciata d’istanti che per i presenti sembrano un’ora. Poi lo schianto sulla gradinata semi deserta della Curva Nord. Una signora viene colpita da una scheggia del razzo frantumatosi su quei vecchi scalini di cemento armato; perderà un dito o forse un occhio, o forse nulla - non ricordo. È così che in un Del Duca deserto per questo eccesso di entusiasmo, al sedicesimo del secondo tempo di Ascoli-Fiorentina, Mattia Biso sostituisce Tosto per il suo esordio in Serie A. Io sono a casa, sul divano. 
Il calendario corre, l’Ascoli pareggia uno a uno al Bentegodi e poi, con lo stesso risultato, in casa contro il Palermo. Biso parte titolare nella prima partita - “Uno spettro si aggira per la serie A” - ma viene sostituito all’ottavo minuto del secondo tempo - la Rivoluzione può aspettare. Contro il Palermo invece non vede neanche la panchina - Il mio Trotskij, mandato in esilio, colpevole del suo passo utopico e della sua Rivoluzione Permanente. 

Poi, il giorno in cui la storia della gente comune incontra quella con la S maiuscola, la storia dei libri e dei bassorilievi di marmo.
 
È il 4 dicembre del 2005 e io sono un quindicenne scazzato in trasferta a Milano con il padre e gli amici del padre. Sotto la Madonnina fa un freddo cane e nevica. Tira un vento gelido che come raffiche di mitra ti schiaffeggia la faccia, con una violenza che giustificheresti soltanto in seggiovia. La strada per arrivare a San Siro non è poca o meglio, non è poca per me che sono abituato ad andare allo stadio a piedi in cinque minuti e che ancora non immagino la difficoltà di raggiungere l’Olimpico il sabato sera. San Siro è meraviglioso, un gigante di cui intuisco il design futuristico per i tempi che furono, che si fa strada a manate da una nebbia densa e bagnata, circondato dalla luce livida dei lampioni che virano sull’arancio. Salgo al secondo anello e guardo i giocatori entrare in campo per scaldarsi. Per me che fino all’anno prima tifavo l’Inter, per me che avevo pianto il Cinquemaggio e che ero rimasto immobile davanti a un Ronaldo abbattuto in area di rigore, per me che mi ero esaltato nel vedere Ze Elias con la maglia rossoblu in un Ascoli-Genoa di serie B di qualche tempo prima, era una sfida ideologica e politica, prima ancora che calcistica. La piccola squadra della tua città, costruita in pochi giorni prima di Settembre, quando gli stabilimenti balneari si iniziano a svuotare, che arriva a San Siro. Un sogno. Avevo vissuto gli anni di C1 e di B con i racconti di mio padre sull’Ascoli del record di punti in Serie B, con nella mente le scorribande di una squadra provinciale abilmente costruita da Rozzi e Mazzone, contro le grandi di Serie A e ora, finalmente, ero in piedi alla Scala del Calcio, pronto ad applaudire.

Quell’Ascoli non sarebbe stato un agnello sacrificale, perché Silva e Giampaolo avevano messo in piedi una squadra ben disposta in campo, che giocava un calcio semplice ed efficace, il giusto equilibrio tattico che ti faceva credere che nessun risultato fosse mai scontato. Ero in piedi, alla Scala del Calcio, quando vidi entrare questo capellone dinoccolato con i calzettoni bassi e gli scarpini neri. Cosa ci faceva lui in questo santuario del calcio borghese? Lui che sarebbe stato più degno di un Valle Occupato? Lo vidi scaldarsi e per tutto il tempo seguii con gli occhi lui e solo lui; dall’altra parte della linea mediana c’erano gli Zanetti, i Veron, i Figo, i Recoba ma io non potevo fare a meno di guardare quella corsa svogliata e così fottutamente proletaria. A un tratto Biso si staccò dal gruppo palla al piede, lo vidi percorrere una ventina di metri, oscillando, come se il suo baricentro venisse continuamente spostato prima alla destra e poi alla sinistra della sua spina dorsale. Lo vidi accarezzare una dozzina di volte il pallone con l’esterno del piede, entrare in aria di rigore e, all’altezza del dischetto, calciare verso la porta vuota: GOL! Mattia Biso aveva messo una palla in rete a San Siro. E poco m’importava che la partita non fosse neppure iniziata, ma Mattia Biso aveva segnato a San Siro e io ero contento per lui. Ero contento perché aveva fatto ciò che avrei fatto anch’io, quindicenne scazzato. Si era allontanato dal gruppo e aveva segnato a San Siro. A lui, come a me, non interessava che fosse solo il riscaldamento. 

La Rivoluzione va prima immaginata.
 
Biso restò in campo per tutti i novanta minuti. L’Inter vinse uno a zero con una punizione all’incrocio di Adriano al 24’ del primo tempo, ma cosa importava? Biso aveva segnato ed entrambi sapevamo che depositare una palla in rete a San Siro per un ragazzo che fino a qualche anno prima aveva giocato con Tempio, Faenza, Fidelis Andria, Mestre, Lecco, Carrarese era più importante di qualsiasi punto assegnato dalla Federazione Capitalista. 

La Rivoluzione prima si immagina e poi si compie e io la vidi manifestarsi sotto i miei occhi, in tutta la sua forza deflagrante; ancora una volta sul divano, ancora una volta senza punti per l’Ascoli. Il 2005 sta finendo, in centro ci sono già le bancarelle natalizie e con gli amici inizio a programmare Capodanno. Abbiamo quindici e sedici anni e le nostre preoccupazioni principali sono cercare di fare un buon rock, ambire ad amplessi modesti e procurarci le canne per festeggiare il nuovo anno sufficientemente tumefatti per non pensare a quelle delusioni amorose che solo l’adolescenza riesce a generare, come se le andasse a capare direttamente all’inferno. È il 18 dicembre, una fredda domenica pomeriggio. Di quelle con il sole che scalda poco e ad Ascoli fanno scendere la temperatura sotto lo zero non appena il giorno sfuma.

L’Ascoli gioca in trasferta a Cagliari, con nove infortunati e uno squalificato e va sotto di due reti nel giro di una quarantina di minuti. La Rivoluzione però si compie nel secondo tempo: Guana imposta verso Comotto che sulla fascia destra allarga per Fini, l’ala va sul fondo. Al centro, nei pressi dell’area piccola, ci sono Quagliarella e Colombo, il cross di Fini però è arretrato, verso il dischetto. Foggia, che si trova dal lato opposto si stacca dalla marcatura e va indietro, a inseguire il pallone di Fini e si appresta a calciare di destro come in un meccanismo perfetto e oliato da anni. Ma la Rivoluzione, per definizione, distrugge lo status quo. Biso arriva da dietro - un balzo: si coordina e quasi in posizione orizzontale tira fuori dal meandro più fantasioso della sua intelligenza una semirovesciata di destro, strozza il pallone che si schiaccia contro l’erba a qualche metro di distanza dal portiere. La sfera s’imbizzarrisce, schizza in aria e finisce in rete. Biso si alza ed esulta; forse dovrebbe fare un piccolo slalom tra i difensori, scavalcare il portiere, prendere il pallone e portarlo nel centro di centrocampo, con la grinta di chi vuole almeno un punto. Ma perché? È il suo primo gol in Serie A e non ne farà altri. Ha appena alzato la testa dell’amplesso più estatico della sua esistenza, compiuto con l’eternità in testa, all’indicativo presente, come se dovesse durare per sempre, come i grandi primitivi e i rivoluzionari all’alba della rivoluzione. Perché non dovrebbe esultare? Chi l’ha detto che questo magma di sensazioni debba essere strozzato dalla necessità di raggiungere il profitto? Chi l’ha detto che vada sacrificato in nome dello stereotipo del successo borghese chiamato “pareggio” o “vittoria”? 

Il risultato rimane invariato: l’Ascoli perde due a uno. Biso a gennaio farà le valige, retrocesso a Catania, in Serie B. Poi Spezia, Frosinone, Fidene, Monza, Civitanovese, Ancona. Io nel frattempo uscirò dalla mia adolescenza. Forse.

lunedì 10 marzo 2014

Nell'anno del signore


Ascoli - Pontedera, settembre 2013. Il pubblico delle grandi occasioni
È tutta questione di abitudine: l'anno non comincia il primo gennaio, ma ad agosto. E non finisce il 31 dicembre,  ma a maggio. A meno che non ci siano gli Europei o i Mondiali. Cominci a pensarla così che fai ancora la prima elementare, poi diventa praticamente normale.
Il problema sono certe annate, mesi lunghissimi in cui «pioggia e sole abbaiano e mordono, ma lasciano il tempo che trovano» (F. De Gregori).

La mia squadra, l'Ascoli Calcio, galleggia sul fondo di una serie C in cui non si può retrocedere, la società è fallita a novembre ed è risorta a febbraio, sotto le insegne di un ricchissimo industriale canadese che ha promesso la zona Uefa in un quinquennio con la stessa nonchalance con cui Renzi ha giurato davanti al Parlamento, al popolo e a Dio che sbloccherà i debiti della pubblica amministrazione.
Tutto bellissimo, tutto fantastico. Ma, a parte che odio le feste di piazza e per tradizione personale boicotto gli appuntamenti con troppa gente troppo felice, per me il futuro rimane sempre lì dov'è: nel futuro, appunto. Dovessi cominciare a preoccuparmi del futuro, dovrei anche rammaricarmi per il passato: particolare che non si concilia con la mia volontà di bere di meno.

E allora sono sempre in questo-eterno-presente-che-capire-non-so, cioè il fondo della serie C, senza poter retrocedere, con una squadra che si comporta come la nazionale di rugby («sconfitta onorevole» è un'espressione ormai di moda) e un avvenire dipinto come magnifico ma che arriverà soltanto alla fine di agosto. Nel frattempo non vado più allo stadio, e la domenica cerco un Televideo per tenermi aggiornato. Mi sento un po' come Bill Murray in quel film, quello in cui lui continua a rivivere sempre lo stesso giorno:
Ascoli - Catanzaro 0-1
Salerinatana - Ascoli 2-1
Ascoli - Grosseto 0-1
L'Aquila - Ascoli 2-1
Barletta - Ascoli 1-0
Ascoli - Frosinone 0-1

La ripetizione di una ripetizione di una ripetizione.

Ma tanto c'è una proprietà nuova che ci farà sognare, in futuro. Per ora tutti sono obbligati a sorridere, a dire che «comunque i ragazzi si impegnano». E come negarlo: sono così scarsi che il portiere ha già fatto sapere che l'anno prossimo dirà addio al calcio per dedicarsi ad un altro sport, che questa avventura l'ha cominciata soltanto perché deve perdere peso e il medico gli aveva detto di muoversi un po'. Persino l'idolo delle folle - il centravanti Vegnaduzzo - dopo essersene andato (a novembre) si è aggregato all'Offida (Seconda Categoria) e manco lo fanno giocare titolare. Ha più di trent'anni e fa la riserva a un ragazzino che a volte non può andare agli allenamenti perché il giorno dopo c'è il compito di matematica.

San Benedetto del Tronto, l'umore dei supporter locali

Da un po' di tempo a questa parte vivo a San Benedetto del Tronto. C'è il mare, un bel molo, il centro è chiuso al traffico. Questo mi basta per ritenerla molto migliore di quel covo di fascisti chiamato Ascoli Piceno, con le sue grigie rovine che qualcuno spaccia ancora per bellezze architettoniche. Con gli abitanti del luogo mi trovo benissimo, con loro ho solo divergenze di natura calcistica. Ma anche la gioia di una sana discussione mi viene negata: mentre noi affondiamo senza poter realmente affondare, loro stanno stravincendo il campionato per palese superiorità tecnica sulle altre partecipanti al torneo. Credo che dall'inizio dell'anno abbiano pareggiato solo un paio di partite e vinto tutte le altre. Sai che divertimento. Poi hanno una storia tristissima alle spalle: promossi in Seconda Divisione, per colpa di una proprietà quantomeno poco avveduta - dopo i tentati blitz di Lotito e altri loschi figuri non necessariamente legati alla malavita romana - sono sprofondati giù in Eccellenza. Si è trattatto del quarto fallimento in sedici anni. Frequento un bar di tifosi locali, a volte giochiamo qualche 'bolletta' insieme. L'ultima vittoria risale a settembre. Ed erano tutte partite facili. Ed eravamo una marea a giocare. Alla fine in tasca sono entrati pochi spiccioli.
 
Comprereste un'auto usata da quet'uomo?
Intanto ad Ascoli provano a muovere la situazione e cambiano allenatore: Bruno Giordano, con la sua faccia da pugile, se n'è andato quando gli hanno fatto capire che non sarebbe stato confermato neanche a costo di affidare la squadra al magazziniere, al suo posto è arrivato Flavio Destro - papà di Mattia -, ma i risultati non cambiano e «sconfitta con onore» continua ad essere l'espressione preferita delle gazzette locali. Almeno a ottobre, quando le cose sembravano davvero compromesse, vidi il Lecce farcene cinque al Del Duca. Protagonista di quel pomeriggio fu Fabrizio Miccoli. Ce l'ho sempre avuto al Fantacalcio, Miccoli. Quest'anno l'ho sostituito con Maxi Lopez. Galleggio a metà classifica, senza rischiare di arrivare ultimo ma già escluso dalla lotta di vertice.
Quanto manca ad agosto?

martedì 12 novembre 2013

Addio mia bella, addio (Fallire a novembre)


Vivissime condoglianze
«No shadows
no stars
no moon
no cars.
November»
(Tom Waits - November)

Quest'estate ridevamo. La Samb stava fallendo per la quarta volta in sedici anni. Abbiamo pure fatto passare un aereo sulle loro spiagge. Un aereo di quelli con lo striscione dietro, tipo Berlusconi dopo la sentenza della Cassazione. «Sua Eccellenza Sambenedettese», c'era scritto. Ridevamo del fatto che, per la prima volta nella storia del calcio mondiale, la squadra che ha vinto il campionato si trova a dover ripartire da una categoria inferiore rispetto a quella dalla quale proveniva. Qualche anno fa facemmo la stessa cosa per gli anconetani, anche loro vittime di una presidenza sconsiderata: «Cucu, l'Ancona non c'è più».
Questa volta tocca a noi, però, abbassare la testa e bere l'amaro calice: nessuno sembra capace di salvare quel che resta dell'Ascoli Calcio. Non Benigni - Roberto, il presidente milanista con il nome del comico -, non i tre volenterosi che lo hanno sostituito in un Cda d'emergenza. Naufragato dopo 36 giorni di parole gettate al vento. Le gazzette locali parlano di debiti, libri contabili in tribunale, litigi, assemblee roventi in sedi senza la connessione a internet. Clima da 8 settembre, «la morte della Patria», tutto è perduto persino l'onore.

Sfottò aerei ai cugini rivieraschi

In campo non riusciamo più a dire niente: chi viene al Del Duca vive la giornata come un'allegra scampagnata domenicale. Gli spalti sono mezzo vuoti. In campo si alternano loschi figuri con la chierica e la barba incolta, vecchi capitani di ventura passati ad Ascoli per caso, giovani di nulle speranze, figli d'arte senza parte. Fuori ridono tutti. O piangono. I debiti sono spalmati per mezza Italia. Pure andare in trasferta, per la squadra, è un problema: nessuna compagnia di trasporti vuole più fornire un autobus, dopo i mancati pagamenti delle scorse stagioni. Idem per gli alberghi. Tutte le partite fuori casa sono gite da fare in giornata. Si parte la mattina presto e si torna la sera tardi, in mezzo c'è tempo per prendere due o tre gol a seconda dello stato di forma dell'avversario. Mancano i cerotti in infermeria, il campo di allenamento è una distesa di erbacce, per mesi il sito internet della società è stato offline perché nessuno pagava il dominio.
Un disastro completo, il buio prima, durante e dopo la siepe. Comincia l'inverno e noi ci prepariamo a prendere freddo sugli spalti anche quest'anno. Ad incazzarci con tal Vegnaduzzo perché ha i piedi rettangolari, a bestemmiare contro Bruno Giordano perché fa l'allenatore e non si va a mettere lui, al centro dell'attacco.

Il bomber Vegnaduzzo

Prepariamo la calzamaglia da mettere sotto i jeans, litighiamo con le fidanzate perché «la trasferta a Nocera Inferiore comunque non si può saltare», tiriamo la sciarpa fin sopra il naso perché la polizia comunque non ha mai lo sguardo amichevole e si sa come vanno a finire certe domeniche. Chiamo un amico - lo stesso che mi ha comunicato la notizia della morte di Lou Reed -, all'inizio ci scherziamo sopra, alla fine la sfiga è un sentimento in tutto e per tutto comico. Poi rimaniamo qualche attimo in silenzio. E lui mi fa: «Stanotte dormo con la maglia che mi regalò Bierhoff ai tempi».

Scorrono i titoli di coda, le gazzette locali continuano a descrivere il disastro. Aspettiamo il compiersi del nostro destino con la serena consapevolezza che può andare sempre peggio. Fuori sta cominciando a piovere.

giovedì 19 settembre 2013

Confessioni di un milanista pentito

Il primo ricordo calcistico risale agli albori degli anni '90. Poco dopo Tangentopoli e poco prima del famoso videomessaggio "L'Italia è il paese che amo" per il Paese; poco dopo aver smesso con i pannolini e cominciato a mangiare cibi solidi, per me. Mio padre - d'ora in avanti, per brevità chiamato "il professore" - mi portò a vedere una partita dell'Ascoli, non ricordo contro chi, ma mi sembra che si vinse tanto a poco. Uscito dallo stadio credevo che la squadra della mia città fosse la Juve, una convinzione nata dal fatto che mio padre fosse - ed è ancora - il gobbo più fazioso e irredento che conosca. Per dire, secondo lui Calciopoli fu un grande complotto ordito da Inter, Telecom e controspionaggio sovietico. Alle ultime elezioni ha votato Grillo.


L'età dell'innocenza finì alle elementari, un mio amico mi disse che tifava Milan e io mi accodai senza starci troppo a pensare. Erano le memorabili stagioni di Tabarez, del Sacchi e del Capello bis: parte destra della classifica, scontri diretti contro il Bari. Ricordo come un mezzo trauma un tremendo 1-6 contro la Juve e quel titolo del Corriere della Sera: "La Juve spacca San Siro in sei". Ricordo i sorrisoni del professore davanti alle mie lacrime. Per reazione lessi il libro "Berlusconi in concert" che il Presidente degli italiani aveva spedito a tutti i suoi sudditi. La sera mi addormentavo sognando un Milan che seppelliva di gol la Juve. L'anno successivo i gobbi vinsero 4-1, con un netto miglioramento rispetto all'ultima volta, pensai.


Poi l'Ascoli stravinse un campionato di serie C e il mio amore per i colori rossoneri cominciò ad affievolirsi, fino a scomparire quasi del tutto, oggi. Posso anche individuare l'esatto momento in cui sbandai verso il Picchio: un Ascoli-Avellino 4-0, giocato di mercoledì sera, con autogol di Portanova dopo pochi minuti. Una certa fede milanista, ad ogni buon conto, la conservo per la Champions League. La notte di Manchester con il rigore di Shevchenko - e il professore che spegne la televisione appena un attimo prima che Maldini alzasse la coppa al cielo -, la disfatta di La Coruna, la "partita perfetta" contro lo United (Kakà-Seedorf-Gilardino, per gradire), la maledetta finale di Istanbul, la vendetta di Atene, il gol di Adebayor che segnò il tramonto di quella squadra leggendaria. Intendiamoci, quando l'Ascoli tornò in serie A e all'esordio beccammo quel Milan, insultai gli undici rossoneri per tutta la partita, esultai come un matto al gol di Cudini, maledissi Sheva per quel tiro rasoterra che pareggiò l'incontro. 

Al ritorno bestemmiai contro la lumaca Adani che inseguì Inzaghi per mezzo San Siro senza riuscire a prenderlo, nell'unica azione solitaria conclusa con un gol della carriera di Super Pippo. Marco Giampaolo - allenatore di quel Picchio che si salvò magnificamente nella stagione di grazia 2005/2006 - rimane un modello di vita e di calcio, ma devo ammettere che il mio cuore è ancora tutto di Carlo Ancelotti. L'albero di Natale e i belli di notte, le partite che non potevi sbagliare e finivano sempre in trionfo. Quando se ne andò via, divenni un antiberlusconiano ancora più convinto di quanto non fossi. E già avevo letto l'intera bibliografia di Travaglio, e pure qualche testo apocrifo. Adesso vedere tal Valter Birsa al posto di Seedorf e Constant al posto di Serginho mi mette tristezza più di un Enrico Letta modello padre dei popoli alla festa dell'Udc, che, allargando le braccia, dice: "Chi è contro il mio governo è contro l'Italia". 


Queste confessioni di un milanista pentito finiscono con un sms, inviato a una ex ragazza dopo aver visto il Milan di Allegri eliminato dal Tottenham con un mesto zero a zero londinese: "Mi manchi come Ancelotti".

sabato 8 giugno 2013

Cantami, o Diva, di Walter Junior Casagrande


Walter Junior Casagrande
Sono nato ad Ascoli Piceno, l’8 febbraio del 1990. Nella primavera del 1998 andai per la prima volta allo stadio. L’Ascoli giocava in quella che ancora si chiamava C1 e i gironi erano divisi tra le squadre del nord e quelle del sud. In quell’Ascoli la maglia numero 10 era indossata con eleganza da Mario Massimo Caruso, e credo che quello sia stato il primo calcatore di cui mi sono innamorato. Quando andavo allo stadio mio padre mi teneva per mano e quando gli dicevo che secondo me Caruso era “il giocatore più forte tutti”, lui non tirava in ballo Van Basten, Maradona o Gullit:

Perché te non hai mai visto giocare Walter Junior Casagrande”.

Walter Junior Casagrande io lo vedevo attraverso i racconti di mio padre, perché ancora non c’era You Tube. Vedevo le sue incredibili giocate, l’infortunio che per un periodo a me imprecisato, lo sottrasse al campo di calcio, il suo ritorno e quelle punizioni imparabili che in quelle storie che stavo ad ascoltare avidamente permisero all’Ascoli di salvarsi. Era tutto immerso in una nebbia pre-storica, come l’Iliade, un tempo indecifrato, con personaggi tratteggiati con segni imprecisi. Ogni volta che mi parlava di quelle partite Casagrande me lo immaginavo proprio come Achille, con i capelli lunghi, lo sguardo segnato da tante battaglie, le gambe lunghe e fragili, l’eroe che solo tornando a mettere un piede in campo riusciva a dare coraggio ai compagni.

Quando sono cresciuto ho scoperto tante altre cose riguardo Casagrande. Ho scoperto che era nato calcisticamente in quel capolavoro di democrazia che fu il Corinthians di Socrates, quella squadra in cui ogni decisione veniva presa per alzata di mano, in cui calciatori e membri dello staff tecnico contavano tutti nello stesso modo, ogni testa un voto; quella squadra che quando Casagrande chiese di poter tornare in anticipo da una tournée lontana dal Brasile, perché proprio nei giorni prima della partenza aveva conosciuto una ragazza bellissima e voleva rivederla al più presto, gli permise di abbandonare il ritiro e di andare dalla sua amata. Ho scoperto che Casagrande dopo la parentesi nelle Marche, venne acquistato dal Torino, e lo trascinò in finale di Coppa UEFA, quando i granata persero con l’Ajax pareggiando 2 a 2 all’andata e zero a zero al ritorno, colpendo tre legni, quando Mondonico al cielo di Amsterdam non sollevò la coppa, ma una sedia.

Di Casagrande ho scoperto anche il lato più cupo, quello che mio padre non mi aveva mai raccontato, perché ogni Achille, per sentirsi vivo, ha bisogno di un tallone. Casagrande nel 1982, Quel Millenovecentottantadue, non prese parte ai mondiali in Spagna, Quei Mondiali in Spagna, perché, diciannovenne, venne trovato in macchina con della cocaina. Casagrande si sentiva tremendamente vuoto, forse perché dopo aver sfiorato il tetto d’Europa, la finale di Champions vinta dal Porto, ma vista dalla tribuna perché infortunato, era finito a lottare per la permanenza in Serie A, e quel vuoto aveva cercato di riempirlo con l’eroina. Viveva nel mito di Jimi Hendrix e di Jim Morrison e anche lui, come tanti altri, era convinto di quanto fosse meglio correre al massimo per poco tempo, condurre una vita da centometrista, piuttosto che appoggiarsi a un’esistenza da lento maratoneta. Quando Casagrande smise di giocare il vortice dell’eroina lo inglobò ancora di più.

Casagrande ha visto due volte la morte in faccia, prima un malore davanti alla sede di Rete Globo, poi un incidente stradale.

Casagrande, però, ora sta bene.