Adesso ce l’hanno tutti con Totti - beh, una minoranza invece lo difende, con argomenti tanto appassionati quanto inconsistenti; ma sono le stesse persone che vengono prese in giro dalle pagine facebook anti-gentiste e anti-complottiste, dunque non contano davvero. Perfino Valdano ha detto, del resto giustamente e in maniera intelligente come è solito fare, che Totti dovrebbe riconoscere che è giunto il momento di lasciare. In poche parole, almeno fra le persone non dico ciniche, ma disincantate, fredde, analitiche, è accettato come un dato di fatto che la carriera di Francesco Totti sia finita, e che manchi solo, alla pubblicazione di ciò sulla Gazzetta ufficiale del calcio, la ratifica da parte di Totti stesso. Più Totti aspetta a dichiararsi concluso, più si rivela, invece, immaturo, irrisolto, tutto sommato anche poco sveglio; questo viene detto meno, per ovvi motivi, ma viene comunque detto (anche e soprattutto da romanisti). Esiste insomma, in qualche modo, un movimento di gente che vuol bene a Totti, lo stima come calciatore, e per questo chiede che se ne vada, che la smetta con questo accanimento: perché, razionalmente, non ha senso.
Non che io sia in disaccordo sull’analisi: atleticamente, quarant’anni sono quarant’anni. La genetica e la dedizione assoluta hanno nascosto molto a lungo il tempo, ma il tempo, per sua natura, alla lunga vince: e su Totti infine ha vinto. Non ci sono più le condizioni sportive per far partire Totti titolare in nessuna partita della Roma, mi pare; e non ci sono mai state le condizioni tecniche per farlo giocare dieci minuti alla fine, quasi fosse un Altafini. Né mi pare che un simile utilizzo sarebbe, come dire?, opportuno. Non voglio perciò dibattere sul fatto tecnico - Totti è giunto a fine carriera - né sulle sue conseguenze logiche - dovrebbe accettarlo e smettere; si comporta in maniera sciocca se non lo fa. Ciò che mi stupisce è con quale autorità morale la Roma - in senso ampio: società, proprietà, giornalisti, tifosi, insomma l’ambiente - possano chiedere a Totti una rettezza e un’onestà intellettuale che loro, nei suoi confronti, non hanno mai avuto.
La carriera di Totti, dicevamo, è di fatto finita. Ma è mai iniziata davvero? Io, sinceramente, credo di no. Ci si appella al tempo, criterio inflessibile e imparziale, per indicare al vecchio campione l’uscita, adesso che, di base, non è più utile alla squadra ed è anche un po’ imbarazzante per la società; ma ci si dimentica che far sparire il tempo è stato il trucco, e l’inganno, che ha fatto sì che Totti passasse alla Roma questi venti anni, i suoi venti anni, gli unici venti anni che avrebbe potuto dedicare al calcio e a farsi ricordare.
Non c’è niente di speciale in questa storia: anche la fattura che ha irretito Totti, l’incantesimo che gli ha nascosto il tempo, è stato l’inganno solito che gli esseri umani adoprano sempre (volendolo o no, sapendolo o no) per questo genere di cose: l’amore. Il Totti che esordisce nella Roma è un ragazzino delle superiori; e il rapporto fra i due amanti rimarrà sempre di quel genere lì. La Roma è la fidanzatina del liceo di Totti: solo che sono passati appunto vent’anni e più da allora, e tutto questo non è romantico, anzi non lo è mai stato. Perché Totti, in questi vent’anni, è cambiato tanto, ha lavorato, si è migliorato: la Roma, tutto sommato, no. Il rapporto fra i due si è fatto dunque sempre più sbilanciato, col tempo, sempre più assurdo; e davvero, se era bello e dolce guardare Totti nella prima Roma di Zeman, un ragazzo forte e veloce e ancora immaturo in una squadra che correva tanto e sbagliava tanto, se tutto questo era bello e dolce come guardare l’amore di due ventenni, c’era invece tanto di sbagliato, di fastidioso, nel contemplare Totti anni dopo, un giocatore tanto più grande, in una Roma che si restringeva a vista d’occhio, nell’ultima Roma di Capello che smobilitava o in quella orribile annata piena solo di allenatori. Quando si parla di Roma (squadra, città) si finisce sempre a parlare di derby: ma ditemi voi se non vedete, come me, la differenza amara tra quel “Vi ho purgato ancora” (di cattivo gusto, indubbiamente, e sciocco; ma di uno sciocco genuino) e l’orribile esultanza sulla telecamera, sei anni dopo, in un derby di cui in fondo non fregava nulla a nessuno, perché era la toppa tardiva e inutile a uno dei capitoli più squallidi della storia sportiva romana.
L’unico modo che la Roma aveva - e che ha effettivamente utilizzato - per tenere Totti, un personaggio tanto più grande di lei e in fondo inadatto a lei, era l’amore; ma non più l’amore romantico, l’amore fresco, bensì l’amore immorale e morboso. E quell’inganno orribile per cui si diceva - tutti lo dicevano: tifosi, giornalisti, società - che Totti avrebbe giocato per sempre nella Roma, pur sapendo che sempre nel calcio (nella vita) non esiste, e che ogni giorno in giallorosso era un giorno in meno con la maglia della squadra o delle squadre in cui Totti avrebbe potuto scrivere nel metallo dei palmares la sua grandezza indubbia, ma a cui forse, domani, non crederà nessuno.
Il problema è che il calcio è uno sport di squadra. Fra trent’anni, fra quarant’anni, Totti sarà un calciatore che ha vinto uno scudetto (e, Deo gratias, un mondiale): sarà difficile convincere gli appassionati di calcio di allora, i giovani che leggono, guardano i filmati, che Totti era tanto più forte di praticamente tutta la sua generazione. Chi lo dirà sarà un originale, un cretino, o al limite uno di quelli che vanno a tutti i costi controcorrente; un romantico, diranno i più bendisposti. Ma è romantico, questo? È romantico che Roma e la Roma, che lo hanno amato, abbiano legato Totti a una dimensione che non era la sua? Secondo me fa schifo. Tutta la carriera calcistica e passionale di Totti sono state un eterno scambio risentito, quello scambio che tutti noi conosciamo bene, fra una fidanzatina che è rimasta sciocchina, immatura, in ultima analisi inadatta, e un uomo che ha studiato, che va verso la vita, che ha un grande futuro: se le cose fossero andate come dovevano andare, il rapporto si sarebbe spezzato, e Totti sarebbe stato libero, libero di essere grande, grandissimo davvero. E poi avrebbe potuto guardare con affetto, con tenerezza, anche con gratitudine al suo primo amore; così, tutto affoga nel rancore, nell’aver compreso troppo tardi che non c’è più tempo, che tutto il tuo tempo è stato sottratto, e non ce ne sarà altro. Con l’ovvio ma doloroso paradosso che la Roma, essendo una società di calcio e non una persona, ci sarà ancora, e potrà perfino decidere di maturare, se riesce e se vuole, di migliorarsi, di essere per qualcun altro ciò che non è potuta essere per Totti, ossia una compagna all’altezza; ma Totti non ci sarà più, Totti, il meraviglioso campione che tutti coloro che amano il calcio hanno amato e amano, Totti invece è finito, finito in questo modo qui, senza gloria, e con in più la colpa di non aver accettato da uomo che tutta la vita l’abbiano trattato da ragazzino.
Vent’anni e passa. Vent’anni sono, per dire, Iliade e Odissea; ma certi eroi incontrano Penelope, altri sono fermati da Circe. Sono, senza dubbio, casi; è umano che ne capitino, ma sarebbe disumano non lamentarsene. Non che non ci siano stati effetti positivi di vent’anni in cui a Totti hanno bloccato il tempo: pensiamo all’arrivo di Spalletti nel 2005, quando Totti era una bellissima ma non immensa mezza punta di 29 anni, che come bellissimo ma non grandissimo sarebbe stato archiviato. E invece, a 29 anni, Totti cambia come un ragazzino, diventa contemporaneamente uno dei migliori attaccanti d’Europa e uno dei più grandi registi bassi, nella stessa squadra e nello stesso tempo, poi va a vincere un Mondiale con un pezzo di ferro nella gamba.
Quello sembrava un Totti nuovo, cui nulla era precluso; ma i limiti dello spazio e del tempo erano invece esattamente gli stessi di sempre. Permettetemi di inserire qui un piccolo paragone, che spero non cada a sproposito: prendiamo Zinedine Zidane. Zidane, che era un giocatore sopraffino, con un fisico da atleta che stonava un po’ con la sua grazia, ma che invece era il segreto che gli permetteva di essere Zidane più a lungo e meglio di un altro trequartista; Zidane che aveva il temperamento nervoso e insofferente di chi sa di valere, e le reazioni sciocche di chi vuole sempre valere; Zidane, che segnava quando c’era da segnare e faceva segnare sempre. Ma tutto questo, comprese le sciocchezze, le reazioni, le meschinità occasionali, non vale forse anche per Totti? E perché allora il gol dei trent’anni, della maturità, il gol che riassume una carriera, per Zidane è quello al Bayer (aveva 30 anni meno un mese) e per Totti quello alla Samp (aveva 30 anni e due mesi)? Tolte le spiegazioni stupide e false, quali la maggior semplicità del segnare alla Samp (quel gol lì!) o altre scempiaggini, resta solo, ed è immenso, il senso d'ingiustizia.
Francesco Totti, nel 2016, adesso, è in torto, forse in torto marcio; come sempre accade ai buoni che sono stati fregati in quanto buoni, reagisce in maniera nevrotica, rozza, non sa spiegare le proprie ragioni, o forse non ne ha più. È un uomo a cui chiedono ragionevolezza, ora che lui non serve più, gli stessi che gli hanno chiesto per vent’anni amore, cioè il contrario della ragionevolezza. Ma forse voi direte: poteva, e doveva, pensarci lui. Gli uomini risolvono da sé le proprie questioni, e sanno sciogliere i legami stretti e dolorosi, quando devono, e riconoscere l’amore dall’ossessione e dall’alibi. Ma provateci voi a liberarvi di un amore che si chiama Roma, con le sue braccia lunghe, infinite; provateci voi ad accettare e a dire a voi stessi che quello che pareva il vostro sogno era un incubo, e che il vostro paradiso era, in fondo, una gabbia.