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mercoledì 6 aprile 2016

Un amore piccolo piccolo



 
Adesso ce l’hanno tutti con Totti - beh, una minoranza invece lo difende, con argomenti tanto appassionati quanto inconsistenti; ma sono le stesse persone che vengono prese in giro dalle pagine facebook anti-gentiste e anti-complottiste, dunque non contano davvero. Perfino Valdano ha detto, del resto giustamente e in maniera intelligente come è solito fare, che Totti dovrebbe riconoscere che è giunto il momento di lasciare. In poche parole, almeno fra le persone non dico ciniche, ma disincantate, fredde, analitiche, è accettato come un dato di fatto che la carriera di Francesco Totti sia finita, e che manchi solo, alla pubblicazione di ciò sulla Gazzetta ufficiale del calcio, la ratifica da parte di Totti stesso. Più Totti aspetta a dichiararsi concluso, più si rivela, invece, immaturo, irrisolto, tutto sommato anche poco sveglio; questo viene detto meno, per ovvi motivi, ma viene comunque detto (anche e soprattutto da romanisti). Esiste insomma, in qualche modo, un movimento di gente che vuol bene a Totti, lo stima come calciatore, e per questo chiede che se ne vada, che la smetta con questo accanimento: perché, razionalmente, non ha senso.

Non che io sia in disaccordo sull’analisi: atleticamente, quarant’anni sono quarant’anni. La genetica e la dedizione assoluta hanno nascosto molto a lungo il tempo, ma il tempo, per sua natura, alla lunga vince: e su Totti infine ha vinto. Non ci sono più le condizioni sportive per far partire Totti titolare in nessuna partita della Roma, mi pare; e non ci sono mai state le condizioni tecniche per farlo giocare dieci minuti alla fine, quasi fosse un Altafini. Né mi pare che un simile utilizzo sarebbe, come dire?, opportuno. Non voglio perciò dibattere sul fatto tecnico - Totti è giunto a fine carriera - né sulle sue conseguenze logiche - dovrebbe accettarlo e smettere; si comporta in maniera sciocca se non lo fa. Ciò che mi stupisce è con quale autorità morale la Roma - in senso ampio: società, proprietà, giornalisti, tifosi, insomma l’ambiente - possano chiedere a Totti una rettezza e un’onestà intellettuale che loro, nei suoi confronti, non hanno mai avuto.

La carriera di Totti, dicevamo, è di fatto finita. Ma è mai iniziata davvero? Io, sinceramente, credo di no. Ci si appella al tempo, criterio inflessibile e imparziale, per indicare al vecchio campione l’uscita, adesso che, di base, non è più utile alla squadra ed è anche un po’ imbarazzante per la società; ma ci si dimentica che far sparire il tempo è stato il trucco, e l’inganno, che ha fatto sì che Totti passasse alla Roma questi venti anni, i suoi venti anni, gli unici venti anni che avrebbe potuto dedicare al calcio e a farsi ricordare.


Non c’è niente di speciale in questa storia: anche la fattura che ha irretito Totti, l’incantesimo che gli ha nascosto il tempo, è stato l’inganno solito che gli esseri umani adoprano sempre (volendolo o no, sapendolo o no) per questo genere di cose: l’amore. Il Totti che esordisce nella Roma è un ragazzino delle superiori; e il rapporto fra i due amanti rimarrà sempre di quel genere lì. La Roma è la fidanzatina del liceo di Totti: solo che sono passati appunto vent’anni e più da allora, e tutto questo non è romantico, anzi non lo è mai stato. Perché Totti, in questi vent’anni, è cambiato tanto, ha lavorato, si è migliorato: la Roma, tutto sommato, no. Il rapporto fra i due si è fatto dunque sempre più sbilanciato, col tempo, sempre più assurdo; e davvero, se era bello e dolce guardare Totti nella prima Roma di Zeman, un ragazzo forte e veloce e ancora immaturo in una squadra che correva tanto e sbagliava tanto, se tutto questo era bello e dolce come guardare l’amore di due ventenni, c’era invece tanto di sbagliato, di fastidioso, nel contemplare Totti anni dopo, un giocatore tanto più grande, in una Roma che si restringeva a vista d’occhio, nell’ultima Roma di Capello che smobilitava o in quella orribile annata piena solo di allenatori. Quando si parla di Roma (squadra, città) si finisce sempre a parlare di derby: ma ditemi voi se non vedete, come me, la differenza amara tra quel “Vi ho purgato ancora” (di cattivo gusto, indubbiamente, e sciocco; ma di uno sciocco genuino) e l’orribile esultanza sulla telecamera, sei anni dopo, in un derby di cui in fondo non fregava nulla a nessuno, perché era la toppa tardiva e inutile a uno dei capitoli più squallidi della storia sportiva romana.

L’unico modo che la Roma aveva - e che ha effettivamente utilizzato - per tenere Totti, un personaggio tanto più grande di lei e in fondo inadatto a lei, era l’amore; ma non più l’amore romantico, l’amore fresco, bensì l’amore immorale e morboso. E quell’inganno orribile per cui si diceva - tutti lo dicevano: tifosi, giornalisti, società - che Totti avrebbe giocato per sempre nella Roma, pur sapendo che sempre nel calcio (nella vita) non esiste, e che ogni giorno in giallorosso era un giorno in meno con la maglia della squadra o delle squadre in cui Totti avrebbe potuto scrivere nel metallo dei palmares la sua grandezza indubbia, ma a cui forse, domani, non crederà nessuno.

Il problema è che il calcio è uno sport di squadra. Fra trent’anni, fra quarant’anni, Totti sarà un calciatore che ha vinto uno scudetto (e, Deo gratias, un mondiale): sarà difficile convincere gli appassionati di calcio di allora, i giovani che leggono, guardano i filmati, che Totti era tanto più forte di praticamente tutta la sua generazione. Chi lo dirà sarà un originale, un cretino, o al limite uno di quelli che vanno a tutti i costi controcorrente; un romantico, diranno i più bendisposti. Ma è romantico, questo? È romantico che Roma e la Roma, che lo hanno amato, abbiano legato Totti a una dimensione che non era la sua? Secondo me fa schifo. Tutta la carriera calcistica e passionale di Totti  sono state un eterno scambio risentito, quello scambio che tutti noi conosciamo bene, fra una fidanzatina che è rimasta sciocchina, immatura, in ultima analisi inadatta, e un uomo che ha studiato, che va verso la vita, che ha un grande futuro: se le cose fossero andate come dovevano andare, il rapporto si sarebbe spezzato, e Totti sarebbe stato libero, libero di essere grande, grandissimo davvero. E poi avrebbe potuto guardare con affetto, con tenerezza, anche con gratitudine al suo primo amore; così, tutto affoga nel rancore, nell’aver compreso troppo tardi che non c’è più tempo, che tutto il tuo tempo è stato sottratto, e non ce ne sarà altro. Con l’ovvio ma doloroso paradosso che la Roma, essendo una società di calcio e non una persona, ci sarà ancora, e potrà perfino decidere di maturare, se riesce e se vuole, di migliorarsi, di essere per qualcun altro ciò che non è potuta essere per Totti, ossia una compagna all’altezza; ma Totti non ci sarà più, Totti, il meraviglioso campione che tutti coloro che amano il calcio hanno amato e amano, Totti invece è finito, finito in questo modo qui, senza gloria, e con in più la colpa di non aver accettato da uomo che tutta la vita l’abbiano trattato da ragazzino.


Vent’anni e passa. Vent’anni sono, per dire, Iliade e Odissea; ma certi eroi incontrano Penelope, altri sono fermati da Circe. Sono, senza dubbio, casi; è umano che ne capitino, ma sarebbe disumano non lamentarsene. Non che non ci siano stati effetti positivi di vent’anni in cui a Totti hanno bloccato il tempo: pensiamo all’arrivo di Spalletti nel 2005, quando Totti era una bellissima ma non immensa mezza punta di 29 anni, che come bellissimo ma non grandissimo sarebbe stato archiviato. E invece, a 29 anni, Totti cambia come un ragazzino, diventa contemporaneamente uno dei migliori attaccanti d’Europa e uno dei più grandi registi bassi, nella stessa squadra e nello stesso tempo, poi va a vincere un Mondiale con un pezzo di ferro nella gamba.

Quello sembrava un Totti nuovo, cui nulla era precluso; ma i limiti dello spazio e del tempo erano invece esattamente gli stessi di sempre. Permettetemi di inserire qui un piccolo paragone, che spero non cada a sproposito: prendiamo Zinedine Zidane. Zidane, che era un giocatore sopraffino, con un fisico da atleta che stonava un po’ con la sua grazia, ma che invece era il segreto che gli permetteva di essere Zidane più a lungo e meglio di un altro trequartista; Zidane che aveva il temperamento nervoso e insofferente di chi sa di valere, e le reazioni sciocche di chi vuole sempre valere; Zidane, che segnava quando c’era da segnare e faceva segnare sempre. Ma tutto questo, comprese le sciocchezze, le reazioni, le meschinità occasionali, non vale forse anche per Totti? E perché allora il gol dei trent’anni, della maturità, il gol che riassume una carriera, per Zidane è quello al Bayer (aveva 30 anni meno un mese) e per Totti quello alla Samp (aveva 30 anni e due mesi)? Tolte le spiegazioni stupide e false, quali la maggior semplicità del segnare alla Samp (quel gol lì!) o altre scempiaggini, resta solo, ed è immenso, il senso d'ingiustizia.

Francesco Totti, nel 2016, adesso, è in torto, forse in torto marcio; come sempre accade ai buoni che sono stati fregati in quanto buoni, reagisce in maniera nevrotica, rozza, non sa spiegare le proprie ragioni, o forse non ne ha più. È un uomo a cui chiedono ragionevolezza, ora che lui non serve più, gli stessi che gli hanno chiesto per vent’anni amore, cioè il contrario della ragionevolezza. Ma forse voi direte: poteva, e doveva, pensarci lui. Gli uomini risolvono da sé le proprie questioni, e sanno sciogliere i legami stretti e dolorosi, quando devono, e riconoscere l’amore dall’ossessione e dall’alibi. Ma provateci voi a liberarvi di un amore che si chiama Roma, con le sue braccia lunghe, infinite; provateci voi ad accettare e a dire a voi stessi che quello che pareva il vostro sogno era un incubo, e che il vostro paradiso era, in fondo, una gabbia.

mercoledì 5 novembre 2014

Certi giocatori hanno lo spirito vasto. Bartelt, Batistuta, Barcellona e la storia della mia corrispondenza con Arturo




Quello che sto per raccontare è successo ormai da quasi due mesi e non sono ancora riuscito a dargli una spiegazione.

*          *          *


Mi trovavo a Barcellona, “la città del buon senso, la città del senso comune”, il giorno 5 di settembre. Mi ero svegliato tardi, quasi alle undici, con un cerchio alla testa che provai a sfumare con un oki e una doccia. Faceva caldo, caldissimo, un’afa che mi impediva di ragionare. Piano piano mi ricordai dell’unica commissione che avrei dovuto fare quel giorno, vale a dire portare il vestito blu alla tintoria all’angolo affinché me lo stirassero in giornata. La sera, infatti, dovevo andare al matrimonio di un mediocre tennista, Jordi Samper, famoso più che altro per essere il fratello maggiore di una giovane promessa del Barcellona, tale Sergi Samper, di cui il proprietario del Bar Barela, mio bar sport di riferimento, parla un gran bene. Jordi si sposava con una mia cara amica, bruttina ma molto ricca, Cassandra Puig i Mateu, primogenita di Bernat Puig i Molins, il magnate del cemento catalano, uno degli artefici - o forse dovrei dire carnefici - dell’indiscriminato sviluppo turistico della Costa Brava negli anni Settanta e Ottanta. Il matrimonio era alle sette in un’anonima parrocchia di Pedralbes, il quartiere borghese in cui Jordi e Cassandra vivono, mentre il ricevimento era previsto in una masia di proprietà della famiglia Puig i Mateu che si trova sulla strada per Sant Cugat del Vallès.

Lasciai dunque il vestito in tintoria e pensai che, visto il tipo di giornata, non ne sarei arrivato vivo in fondo se non mi fossi rinfrescato in piscina. Presi quindi un costume e un libro e, scartata l’ipotesi di andare in spiaggia a Sitges,  camminai un quarto d’ora fino a un hotel di discreto lusso dell’Exaimple che ospita, all’ultimo piano, una piacevolissima piscina. Il primo bagno nell’acqua fresca mi diede vigore e soprattutto appetito, così ordinai al ristorante l’unica cosa che non mi facesse venire la nausea dopo tutto quello che avevo bevuto la sera prima, e cioè una bistecca alla piastra con l’insalata. Mangiai con gusto e tornai al mio lettino. 

Ero lì, dunque, a bordo piscina, facendo la digestione dell’insalata e della bistecca alla piastra, sdraiato sul lettino azzurrino con il logo dell’hotel, circondato da ombrelloni di plastica e corpi che profumavano di Nivea e cocco, mezzo addormentato, in attesa che si alzasse la brezza del pomeriggio, con la bottiglia d’acqua che si riscaldava al mio lato, ogni tanto mi giungevano le grida dei bambini grassi seguite dagli splash e dalle lamentele delle straniere in bikini, allegramente stanche dopo due giorni in cui si erano iniettate piccole ma costanti dosi di alcool nelle discoteche sulla spiaggia, lontano dal mondo reale fatto di notizie e persone, convalescente dopo il mio fine settimana di bagordi, pensando distrattamente al matrimonio della sera, quando sentii una mano che si poggiava sulla mia spalla e pronunciava il mio nome. Mi voltai di scatto, in maniera brusca, come se avessi aspirato il fondo di una granita. Dietro di me c’era un volto familiare. Erano almeno cinque anni che non lo vedevo, ma l'ho riconosciuto, dalla sua elegante pelata, dai suoi occhi penetranti. Arturo.

La verità è che su Arturo non ho molto da dire. Più grande di me di almeno una decina d’anni, prima dei fatti di settembre avevo giusto trascorso con lui alcune estati in Sicilia. Quando l’ho conosciuto non lavorava più come giornalista, professione che, per quello che ho avuto modo di capire (ma lui non me ne ha mai parlato apertamente), decise di lasciare dopo la famosaintervista che gli concesse Luis Cesar Menotti quando fu esonerato dallaSampdoria. Quando l’ho conosciuto, dicevo, nel 2007, lavorava come guardiano presso il campeggio di Favignana, dove io trascorrevo almeno quindici giorni ogni agosto. Nel corso di tre estati consecutive ci eravamo quindi frequentati, e apprezzati, sulla piccola isola a forma di farfalla, dove Arturo cambiava spesso ruolo (l’anno successivo faceva il cameriere, quello dopo gestiva l’edicola, l’ultimo anno affittava le biciclette e i motorini). A partire dal 2010 smisi di frequentare l’isola e, pertanto, anche Arturo, a cui però mi legavano ricordi molto cari.

Per la verità, nel corso degli ultimi cinque anni ho ricevuto una serie di cartoline, e anche un paio di lettere, di Arturo. Il fatto è che non ho mai capito se scherzasse o se fosse serio. In queste missive - che mi arrivavano soprattutto dall’Argentina (ne ricordo una, molto poetica, con un’immagine in bianco e nero di Buenos Aires, in cui mi scriveva: “Caro Federico, oggi è domenica, ma le domeniche a Belgrano, se non c’è la partita, non sono domeniche, sono palloni sgonfi che aspettano il fiato dei tifosi per prendere forma”)  - mi parlava di una ricerca che stava facendo sulle tracce di un vecchio allenatore argentino, ormai cieco, di cui era dubbia non solo la dimora ma anche la stessa esistenza, e di cui ora non ricordo il nome, di cui Menotti gli aveva parlato come del suo maestro. Nel corso di queste sue ricerche, Arturo mi aveva raccontato, per la verità in maniera del tutto ermetica, gli incontri che faceva con ex giocatori, allenatori, dirigenti, tifosi, i quali il più delle volte finivano per depistarlo. Quel giorno di settembre, era più di un anno che non ricevevo sue notizie e immaginavo che o fosse morto o fosse tornato in Sicilia, e in ogni caso che avesse interrotto la sua ricerca. Ed invece me lo trovai lì, a bordo piscina, in un hotel dell’Eixample, più vivo che mai.

La cosa più incredibile, però, non fu quella. Mentre bevevamo due birre al tavolino del bar della piscina, riparati da un ombrellone, Arturo, dopo avermi fatto parlare per venti minuti filati della mia vita, alla mia domanda su cosa ci facesse quel giorno a Barcellona, mi rispose che era venuto per il matrimonio di un suo vecchio amico, il tennista Jordi Samper. Lì per lì la cosa non mi sconvolse più di tanto. Arturo, infatti, da ragazzo era stato un ottimo tennista, quasi una promessa, se così si può dire. Tanto che, a Favignana, giocavamo quasi ogni pomeriggio al campo dell’ex villaggio Gassman, dove lui conosceva tutti, avendoci lavorato per alcune estati. Si limitò a dirmi che era molto amico dell’allenatore di Samper, un catalano di cui non ho afferrato il nome, e tanto mi bastò. Mi rallegrai della fortunata casualità, sperando che fosse così fortunata da farci finire anche nello stesso tavolo durante il ricevimento. Quanto al motivo della sua presenza in piscina, in quella piscina, mi disse che alloggiava proprio in quell’albergo, dal momento che era l’albergo che gli sposi avevano messo a disposizione degli invitati. Anche questa spiegazione, perfettamente plausibile, fu sufficiente a non farmi dubitare delle sue parole. Dopo aver parlato un altro po’ del più e del meno, con la stessa velocità con cui era apparso, Arturo scomparve. Quando provai a chiedergli della sua ricerca, dei suoi viaggi in Argentina, cambiò leggermente espressione, si incupì, e mi disse che mi avrebbe raccontato tutto durante la festa, nell’aria fresca di Sant Cugat, allietati dai gin tonic e dalle ragazze che ballavano, e che ora doveva proprio scappare perchè aveva ancora una serie di commissioni da sbrigare nel Barrio Gotico, compresa la ricerca di un papillon per la cerimonia. Per un attimo pensai di offrirmi di accompagnarlo, ma faceva così caldo, il Barrio Gotico mi è così indigesto, avevo ancora l’eco del mal di testa, e non volevo arrivare distrutto al matrimonio, che restammo che ci saremmo visti direttamente in chiesa all’ora convenuta. Ci abbracciammo in maniera affettuosa e ci salutammo.

La sera, la sposa arrivò con venti minuti di ritardo. La cerimonia durò poco più di un’ora. Uscimmo alle otto e mezza sul selciato della chiesa con il sole ancora forte, vigoroso, spagnolo. Di Arturo neanche l’ombra. Pensai che non aveva fatto in tempo a venire alla cerimonia e che ci saremmo incontrati direttamente alla festa. Andai in macchina con alcuni cugini simpatici di Cassandra. Quando arrivammo alla villa, una masia antica ma non particolarmente pittoresca, ci attendeva un esercito di camerieri con vassoi pieni di tapas. L’aperitivo fu lungo e piacevole; l’afa, giunti nel Vallese, si era smorzata, e il tramonto colorava di sfumature violacee i volti degli invitati. Venni presentato al vecchio allenatore di Samper, che era stato amico di Arturo, e parlammo degli anni Novanta, anni d’oro del tennis spagnolo che avevo vissuto in prima persona, ma non gli chiesi se conosceva il mio amico. Venni presentato, anche se di sfuggita, al fratello calciatore dello sposo, e mi premurai solo di consigliargli di non seguire troppo il suo nuovo allenatore, quel Luis Enrique che avevo conosciuto a Roma, perché tanto non sarebbe durato molto. Venni presentato, infine, a un’amica molto avvenenente di Cassandra, Valeria, una ragazza argentina, di origine italiana (di cognome faceva Bertuccelli), con cui Casandra aveva recitato in alcune coproduzioni minori (erano entrambe attrici) e che era venuta apposta da Buenos Aires per il matrimonio, la quale, in maniera forse inconsapevole, mi fece dimenticare, un bacio alla volta, l'assenza di Arturo.

La mattina successiva, ormai il 6 di settembre, mi svegliai nella stanza di un hotel che, a quel punto, mi era diventato familiare. Dopo aver fatto la doccia, provai a fare nuovamente l’amore con Valeria, ma avevamo entrambi troppo mal di testa. Indossai allora faticosamente il vestito sgualcito del matrimonio e la salutai, promettendole che sarei tornato nel pomeriggio, per fare un ultimo bagno nella piscina all’ultimo piano e magari poi andare al cinema a vedere un film con Elena Anaya che era appena uscito e in cui lei era la co-protagonista. Valeria aveva delle sopracciglia bellissime e mi dissi che sarei dovuto assolutamente ritornare a baciarle. Prima di uscire dall’hotel mi fermai alla reception per sapere se il signor Arturo *** fosse già ripartito. Fui quasi sollevato quando il ragazzo francese dietro la reception - che immaginai fosse lì in stage - mi disse che non risultava alcun ospite registrato con quel nome nell’ultima settimana.

Anche se non ce n’era bisogno, sulla strada di casa decisi di telefonare a Cassandra. Dopo un rapido preambolo di ringraziamenti, auguri di buon viaggio (con il marito erano in partenza per il Perù) e ammiccamenti su Valeria, le chiesi se avesse mai conosciuto un amico del marito, o comunque se avesse mai sentito nominare il nome di Arturo ***. Mi disse che non sapeva chi fosse. Ci salutammo dandoci appuntamento al suo ritorno. Arrivato a casa, per la verità esausto, mi accorsi subito, già quando aprii la porta, che c’era qualcosa di strano, com’erano sempre state strane, d’altronde, le lettere di Arturo, in cui quello che voleva dirmi non era mai nelle righe, ma tra le righe. La porta di casa, infatti, era come bloccata. Dovetti fare forza per aprirla. Entrando a casa capii il motivo: sotto la porta qualcuno aveva lasciato una busta, che quindi aveva fatto attrito. La presi in mano e riconobbi subito la scrittura di Arturo. Sulla busta c’era questa frase, tra virgolette: “Lo spettacolo calcistico è l’unico rito che ancora vale la pena di far sopravvivere, perché a volte l’esistenza filtrata attraverso la finzione, chiarisce qualcosa”. Non sapevo se era una frase sua o di qualcun altro (magari del famoso allenatore cieco). Aprii la busta con un misto di ardore e timore. Per prendere tempo con me stesso, misi l’acqua sul fuoco per farmi un tè. Quando fu pronto,  mi sdraiai sul divano a leggere la lettera.   




*          *          *


Caro Federico,

come avrai già verificato tu stesso, non ce l’ho fatta a venire al matrimonio. Purtroppo sono dovuto ripartire immediatamente. Sappi però che mi ha fatto un enorme piacere incontrarti. Io e te siamo fatti della stessa materia, una materia calda, siamo come due scolature di catrame che invadono le strade che percorrono.

Mi hai chiesto della mia “ricerca”, e io sono stato forse elusivo. Mi accorgo ora che la nostra amicizia richiede che io mi apra un po’ di più. Ed allora voglio dirti questo, anzi mi sento di dirti questo. Prendilo come un anticipo sui nostri incontri futuri.

Il ventisette settembre, nello stadio S. Siro, Batistuta segnò per tre volte al Milan, di cui una con un curioso calcio di punizione tirato all’interno dell’area di rigore, con i giocatori rossoneri in barriera sulla linea di porta. Esultò come se imbracciasse una mitraglietta e il giorno successivo un quotidiano progressista pubblicò l’accorato articolo di un intellettuale che dipinse Batistuta come un porco e un guerrafondaio. Seguirono: su una rivista giuridica internazionale, la lettera aperta di un noto tennista che rivendicava il diritto di spaccare la racchetta per terra; l’intervista, su un rotocalco cattolico, a un prete di Avellaneda che millantava di aver impartito i sacramenti al piccolo Gabriel; la raccolta di firme, a cui Batistuta non diede alcun peso, di un nucleo pacifista del Valdarno perché abiurasse quell’esultanza.

Il diciotto ottobre, Batistuta segnò un gol alla Roma. Era un pomeriggio tiepido e nel primo tempo della partita Batistuta, cui arrivavano pochi palloni, ebbe modo di riflettere sulla conversazione tenuta la sera prima con Gustavo Bartelt, suo connazionale che giocava nella Roma e che gli aveva chiesto di incontrarlo tramite il comune amico Nestor Sensini. I due si erano visti in un bar dei Parioli, Batistuta indossava un cappello da giamaicano per non farsi riconoscere, Bartelt non lo riconosceva nessuno, perché non era molto famoso e assomigliava, se mai, all’altro calciatore argentino Claudio Caniggia, talentuosa ala destra e latin-lover che qualche anno prima, a Roma, era stato squalificato per cocaina: lo avrebbero al limite scambiato per qualcun altro e dopo una pacca sulla spalla o uno sputo sarebbe finita lì.

L’ospite romano di Batistuta aveva l’aria furba (in questo Bartelt ricordava molto Caniggia) di chi si fosse trovato, senza nemmeno accorgersene, a vivere a scrocco un più fortunato destino (in questo Bartelt, almeno per qualcuno, era Caniggia). Tra le altre cose (il conto gratis dal meccanico, un appartamento con un numero elevatissimo di specchi, fornicare con un numero elevatissimo di donne le cui posture si moltiplicavano nel numero elevatissimo di specchi), questa reincarnazione aveva dato a Bartelt la possibilità di incontrare i suoi idoli, come lo sbigottito Batistuta che seduto al tavolino del bar si sentiva lontano anni luce dal conseguimento di quei vertici sessuali. Bartelt gli confidò di essere un calciatore non più che mediocre, ma per ordine dell’allenatore della Roma, un boemo di cinquant’anni, complice una stagione fortunata nel Lanus (tredici gol in diciotto partite), era stato acquistato per ricoprire il ruolo di ala destra, guarda caso lo stesso di Claudio Caniggia. Per come glielo descrisse Bartelt, il boemo, che si chiamava Zdenek Zeman, non parlava quasi mai, fumava sempre e proponeva un gioco d’attacco quasi suicida. Soltanto un giorno, nel ritiro pre-campionato, si era avvicinato a Bartelt pronunciando le seguenti parole: “Sappiamo tutti e due che sei pressappoco una pippa. A me non importa, mi serve solo che tu corra verso l’area avversaria più velocemente che puoi. Possono succedere due cose: o t’insegno a essere la più grande ala destra del mondo oppure non ci riesco, ma le persone penseranno che sei comunque fortissimo, perché in te gioca ancora lo spirito di Claudio Caniggia”.

“Mister, mica è morto Caniggia”.

“Lo so, ma certi giocatori hanno lo spirito vasto”.

Al trentaduesimo del primo tempo, Batistuta agganciò un pallone che sembrava spiovere dall’altra parte del tempo o della terra. Era immerso in un torpore che non sapeva se imputare alla tattica troppo difensivista del suo allenatore o al fatto che i difensori della Roma erano sistemati in modo che la loro linea di difesa coincidesse con quella di metà campo, confinando, in virtù della regola del fuori gioco, la metà in cui la Fiorentina avrebbe dovuto attaccare al di là del lecito calcistico. La nuova disciplina cui si era sottoposto cominciava a funzionare, perché in un solo istante si riscosse dall’abulia e di esterno al volo scavalcò il portiere in uscita.

In genere, i difensori delle squadre avversarie lo tempestavano di botte, qualcuno gli diceva che si sarebbe scopato sua moglie, un paio di volte si era ritrovato con un dito in un occhio. La difesa della Roma al contrario era, la parola giusta gliela offrì proprio il ricordo della sera prima, spirituale, di una sostanza strana fatta di aria e mistero. Tutti si disinteressavano di lui, forse un altro pallone giocabile sarebbe arrivato, avrebbero vinto due oppure tre a zero (la Roma non sembrava intenzionata a segnare, ci furono risse, l’arbitro cacciò alcuni giocatori per comportamento scorretto, ma tutto si svolgeva al di là di una bruma nebbiosa e a Batistuta veniva di chiudere gli occhi), che importa, pensava, l’importante è vincere e che vincano i buoni.

Verso la fine della partita, l’allenatore boemo mandò in campo Bartelt. Non gli disse nulla, solo gli strizzò l’occhio sorridendo. Bartelt pensò: “Che cazzo ridi, stiamo perdendo, siamo rimasti in nove e non ho la più pallida idea di come giocare”. Batistuta pensò: “Sono ridotti alla frutta, io potrei sdraiarmi sul prato per sognare di quando ero bambino, e questo schiera il sosia di Claudio Caniggia, che ieri sera si è pure fatto quattro gin tonic”.

L’ingresso di Bartelt, senza una ragione visibile, ha l’effetto di una scarica elettrica. La Roma, che fino a quel momento aveva giocato in modo a dir poco confusionario, è percossa da uno slancio convulso e teatrale. Lo stadio Olimpico lo avverte e intona una litania crescente di cori. Al novantesimo Bartelt scarta con una mossa fulminea il terzino sinistro della Fiorentina, un tedesco dalle orecchie a sventola, non senza averlo prima irretito con una sequenza di pasodoble che gli aveva insegnato una puttana di Mataderos. A Batistuta, che adesso vede tutto con chiarezza da sfiorare la premonizione, la chioma giallastra di Bartelt pare una lama efferata e incosciente: chiunque al suo posto tirerebbe verso la porta o passerebbe a un compagno, Bartelt no, continua ad avanzare verso la fine dell’area di rigore, rallenta per non oltrepassare la linea, si avvicina all’area piccola del portiere, e da qui offre una traiettoria radente a un compagno di squadra con cui prima di allora non aveva mai avuto a che fare (nessuno per la verità ci aveva mai avuto a che fare, Dmitrij Anatol'evič Aleničev era un idraulico russo che sbarcava il lunario nello Spartak di Mosca, ma sul cui acquisto Zeman aveva molto insistito, sfinendo gli scetticismi della dirigenza) e che non chiede di meglio di pareggiare la partita.

Allo scadere dei minuti di recupero, Bartelt corre in verticale nell’area della Fiorentina, riceve un pallone che arriva dalla destra e prova a girarlo verso la porta. Ne scaturisce un tiro pietoso, neutralizzato da un difensore diverso dal tedesco di prima. Il pallone torna di nuovo sui piedi di Bartelt, che ha la visuale sgombra e può sprecare la sua seconda occasione. Il tiro sbatte sul portiere ma - questo Batistuta già lo sapeva, era ineluttabile - Francesco Totti, il giovane e promettente regista della Roma, si avventa sulla sfera di cuoio e non fallisce il gol del due a uno.

Bartelt, forse con innocenza o forse con perversione, propose a Batistuta di scambiarsi le maglie come ricordo di quella partita. Batistuta non sapeva più cosa pensare, tutto gli pareva assurdo, ridicolo e miracoloso. Scendendo negli spogliatoi incrociò l’allenatore boemo, che lo guardò con una maschera di silenzio dietro cui c’erano il vuoto della saggezza e il vuoto della follia.

Spero di rivederti presto.

Con affetto, il tuo amico Arturo




*          *          *


Verso le sei tornai in albergo a cercare Valeria. In camera non c’era. In piscina neanche. Alla reception, un altro ragazzo, questa volta catalano, mi disse che la signora Bertuccelli aveva fatto il check-out verso le dodici. Telefonai a Cassandra, ma il telefono era staccato. Pensai di mandarle un messaggio, ma non mi sembrava il caso di disturbarla durante il suo viaggio di nozze. Da Valeria, ovviamente, non mi ero fatto lasciare il suo numero. Quando stavo per allontanarmi dalla reception, il ragazzo mi chiese se per caso mi chiamassi Federico ***. Risposi di sì, che ero io. Ah, fece lui. Ah cosa?, lo incalzai. La signora Bertuccelli ha lasciato questa per lei. Una lettera. Il ragazzo mi allungò la busta azzurrina con il logo dell’hotel. Senza neanche pensarci, gli dissi che non la volevo. Mi guardò perplesso. Non la voglio, gli dissi un’altra volta, scandendo le parole. No-la-quiero! Va bene, disse lui. Mi chiese se allora dovesse buttarla. Sì, certo, tagliala in quattro pezzi e buttala nel cestino, gli risposi. Però fammi un favore, aggiunsi: prima di buttarla, leggila. Uscii dall’albergo e mi incamminai verso il cinema, sperando di fare in tempo per lo spettacolo delle otto.

giovedì 29 maggio 2014

Prima che prenda forma il cambiamento

La derrota no merece ni una lágrima
(D. Simeone)
 

Periodaccio.
Il Bologna in B.. Il Real Madrid con la Decima in bacheca.. Prandelli con i dubbi su Verratti.. Le pagine di Open che certo non aiutano nel perenne sforzo di trovare un malsano equilibrio. Provo a non crollare. Provo a distrarmi con un pò di calcio non giocato, nell'attesa che inizino 'sti benedetti Mondiali in Brasile. Un calcio d'inizio prima che nella mia mente prenda forma il cambiamento.
 
1. Cosa abbiano in testa a Milanello proprio non lo capisco.
La cacciata di Allegri ci stava, come Seedorf nuovo allenatore. E credo che Seedorf abbia pure fatto bene, vista (come sempre) la rosa a disposizione e la posizione in classifica da cui è partito. Ora spunta il nome di Inzaghi e il Milan si accartoccia sulla risoluzione del contratto dell'olandese.
Ma se Seedorf era un compromesso, un traghetto fatto e finito, perchè un contratto a due anni e mezzo? E poi - ma questo è un punto mio - se devi prendere Inzaghi tanto vale che tieni Seedorf, no? Nel senso, non stai prendendo Jorge Jesus o Unay Emery o comunque un allenatore emerso.
 
2. Guaraldi perlomeno ci sta provando. Ha parlato con lo staff di Zanetti (che a breve tornerà da un viaggio di lavoro in Asia e scioglierà le riserve) e avrebbe pronta l'alternativa: Massimo Mian, imprenditore e politico, azionista, tra l'altro, de l'Unità e già presidente del Pisa. Intanto servono i soldi per pagare stipendi e tasse, altrimenti scatta la penalizzazione per il prossimo campionato.
La scelta dell'allenatore per risalire è legata a chi sarà l'azionista di maggioranza. Guaraldi ha incontrato Zeman. Zanetti - trapela - sarebbe più orientato su Pioli (ancora sotto contratto) o Pecchia.
 
3. Per chi ancora non lo avesse capito, il Barcellona cerca un centrale di difesa e una punta di peso. Per chi ancora non lo avesse capito, Cesc Fabregas e Dani Alves sono sul mercato. I nomi sono tantissimi: Miranda, Benatia, Marquinos, Godin, Laporte e Mathieu (Valencia). Tutte trattative difficili. Tutti nomi che costano uno sproposito. L'errore di Zubizarreta: aver temporeggiato troppo nel coprire questo ruolo. Il centrale doveva essere in rosa già da tempo. Ora costa. Ad ogni modo, bene rifondare, magari pure falsificando un pò la filosofia. Il tiqui-taka, l'abbiamo chiaro tutti ormai, rende solamente quando sei al top della condizione, altrimenti sono sberle.
 
4. Sembra che l'Italia stia preparando il Mondiale in una maniera ultra cazzuta.
C'è pure una casetta di allenamento a Coverciano in cui vengono riprodotte le condizioni climatiche che gli Azzurri dovranno affrontare a Manaus e dintorni. Apps e tecnologie sofisticatissime. Sono carico. Possono succedere buone cose, anche perchè il livello - almeno sulla carta - è abbastanza basso. #vodkaeBerocca
 
5. Quanto vende la maglia Nike dell'AS Roma quest'anno? Roba da non credere..
 
6. L'immagine di Simeone che si fionda in campo cercando Varane, vi confesso, mi ha fatto salire un'adrenalina pazzesca.

sabato 29 marzo 2014

59, Viale Tiziano


So you sometimes go out in the afternoon
Spend an hour with your lover in his bedroom 

hear old women rolling trolleys down the road
Back to Lyndhurst Grove
Lyndhurst Grove



Quando alzavo la testa dalla tua schiena, dopo esserti venuto dentro, i miei occhi si mettevano a fuoco sul poster di Francesco Totti attaccato con le puntine alla parete sopra il cuscino. Aveva i calzettoni abbassati a metà del polpaccio, i muscoli delle cosce tesi (come i miei, mi veniva da pensare), la maglietta aderente al corpo asciutto, la posa sprezzante, lo sguardo rivolto verso il compagno a cui aveva lanciato il pallone. I tuoi gemiti, poco prima di afflosciarti sul copriletto, mi riportavano alla realtà di una stanza, e di una casa, sconosciuta.

Sul comodino c'era la foto di una donna che non eri tu. Sorridente, minuta, con i capelli biondi corti ma mossi dal vento e gli occhiali da sole, come a voler velare la malinconia dell'osservatore, teneva in braccio un bambino con una salopette. Avrà avuto quattro o cinque anni. Così diversa da te, con il tuo viso lungo, spigoloso, le tue gambe fredde, la tua ombrosità, i tuoi capelli del colore del legno. Non ho mai capito come avesse fatto tuo marito, l'Architetto, a riparare tra le tue braccia dopo quel lutto così improvviso. La ferita ancora aperta, la frattura tra due vite, la leucemia, il romanzo postumo, quel bambino così piccolo da crescere. Due donne così diverse. Eppure.

Mentre sistemavi la stanza del bambino che non sei mai riuscita a chiamare tuo figlio andavo in cucina a prendermi da bere. Fare l'amore in quella casa mi disidratava e camminare a piedi nudi sul parquet era un modo per rinfrescarmi. Anche sul frigorifero c'era una fotografia dell'ex moglie. Mentre bevevo a lunghe sorsate l'acqua gelida che scorreva a fiotti dal rubinetto appoggiavo la fronte sudata al vetro della finestra della cucina. La solita immagine di cinque o sei tifosi che tornavano verso la fermata del tram camminando sui binari deserti, con le sciarpe intorno al collo, mi passava davanti. La partita era finita, anche io me ne sarei dovuto andare. Giusto il tempo di rivestirmi e di vedere i risultati della giornata sul televisore del salotto, che lasciavamo acceso con Diretta Gol per essere sicuri di non addormentarci a partite finite, e di chiederti chi aveva fatto quella macchia chiara sul divano grigio. Non l'abbiamo ancora scoperto, è successo qualche sera fa, durante la festa di Giorgio. Ti sei divertita? Sì, voglio dire, c'erano i nostri amici, hanno portato i bambini, loro hanno giocato in terrazzo mentre noi siamo stati qui a mangiare e a parlare di lavoro, libri, musica, arte e sesso. Arte e sesso? Sì, perchè no? E di calcio? No, di calcio no, lo sai che a Giorgio non piace, che quando va allo stadio con il figlio lo fa solo per lui. Dai, adesso vai che potrebbero tornare da un momento all'altro. Dimmi solo una cosa, com'eri vestita? Lei andò di là, e tornò appoggiandosi un vestito nero sul corpo ancora seminudo. Restammo in silenzio e pensai che esistono silenzi fatti solo per noi.

In quella casa, a volte la domenica pomeriggio, a volte il sabato sera, o comunque inseguendo i cervellotici orari della Lega Calcio, ho vissuto i migliori anni recenti della storia della Roma, quelli spallettiani. I gol più belli, le partite più sofferte, le emozioni più intense sono tutti ricordi legati a doppio filo con il sesso, le parole, l'intimità di quell'appartamento luminoso e minimalista, con le maschere africane e le scatole birmane in salotto. Le prime volte che ci entravo, nello stesso momento in cui le squadre erano sulle scale dell'Olimpico pronte per entrare in campo, sentivo lo stesso nervosismo dei giocatori, lo stesso mistero per quello che sarebbe accaduto nei successivi novanta minuti, la stessa ansia da prestazione. Mi sentivo come un turista che affitta una macchina in un paese straniero e inconsciamente si avventura in zone di guerra e non torna mai più indietro, almeno non con quella macchina. Poi, pian piano, seguendola nelle sue fantasie, nelle sue dolcezze, mi sono sciolto; con i nostri quasi vent'anni di differenza, lei è stata per me come un allenatore. Ho deciso di seguirla in tutti i suoi esperimenti tattici, cambiando varie volte la mia posizione in campo, memorizzando schemi e accettando anche delle dolorose panchine. Ricordo una sera - si giocava Roma-Palermo, e la Roma aveva appena segnato un gol da calcio d'angolo - in cui mi sostituì molto prima del finale. Di colpo le era presa un'inquietudine fortissima. Pensavo che non mi volesse più vedere, che mi avrebbe venduto o perlomeno dato in prestito a un'altra squadra. Invece era tutto il contrario: lei voleva fare coppia con me, come Totti e Mancini, come Romario e Bebeto, come Elber e Bobic. Tornando verso la macchina al Villaggio Olimpico, mischiandomi tra i pochi ignari passanti, le scrissi che anche io ero molto triste di vederla così poco e di non poter restare. Per un mese non ci vedemmo, era come se fossi stato squalificato. Poi però, un pomeriggio che la Roma dominava la Fiorentina, tutto tornò come prima, e iniziammo a frequentarci anche durante la settimana, approfittando del fortunato cammino europeo della squadra di Spalletti.


Giorgio lo amava, come si può amare una persona che non ti tradirà mai, che non le faceva mancare nulla, che le dava tutto quello che desiderava - almeno, tutto quello che poteva comprare. E allora perchè hai scelto me?, le chiedevo ogni volta che, sdraiati sul letto, le gambe arrotolate, ascoltavamo in lontananza i boati dell'Olimpico che ci informavano che De Rossi aveva segnato o che Panucci era stato ingiustamente espulso. Non dire che ho scelto tutto questo, mi rispondeva; vuol dire dare alla parola scegliere un senso veramente largo. Allora tornavo ad essere l'amante muto che ero sempre stato, fissavo le pareti della stanza di quel ragazzino che non avevo mai visto, se non in foto, e vivevo con malinconia quegli ultimi spezzoni di partita in cui si sa che non succede più nulla, il risultato è segnato, è inutile continuare ad attaccare. Perrotta veniva sostituito, il centrocampo infoltito, giocare in dieci non è mai semplice ed è meglio coprirsi. Testa contro testa, ascoltavamo il rumore dei passi dei tifosi sul marciapiede, fino alle cinque, quando bevevo un bicchiere d'acqua, appoggiavo la fronte al vetro della finestra della cucina, mi infilavo i pantaloni, le davo un bacio sulla bocca e me ne andavo via, come un tifoso qualsiasi.

Dopo l'estate del 2009 tutto cambiò. Quando la andai a trovare per la prima volta - era un Roma-Juve, Diego fece il fenomeno - capii che qualcosa era cambiato. Non so se in lei, o in me. Facemmo l'amore tre o quattro volte, e continuammo anche durante le interviste del dopo-partita. Giorgio e il figlio dopo lo stadio non sarebbero tornati a casa, perchè andavano a trovare i nonni. La notizia delle dimissioni di Spalletti mi colse all'improvviso, mentre lei mi stava facendo un pompino. Venni di colpo, fu "una scossa che mi svuotò la testa come un cucchiaio che raschia l'interno di un uovo alla coque". Il tecnico di Certaldo parlava ai microfoni di Sky dei problemi dello spogliatoio e io sprofondavo sul divano ancora macchiato. Non ricordo cosa dissi, ma ricordo che lei mi chiese se quelle parole significavano che era tutto finito. Non ho mai saputo se si riferisse alle mie o a quelle di Spalletti, ma risposi di sì, credo di sì, certo però è un peccato. Spalletti si era dimesso, e io con lui.

Oggi, quando ripenso a quei giorni, quei giorni felici in cui ho amato e sono stato amato, in cui mi sono illuso - ci siamo illusi - che un giorno avremmo anche potuto vivere insieme, non solo durante le partite della Roma ma anche nel resto della settimana, un sogno che sembrava possibile ed invece era inverosimile come vincere all'Old Trafford con Vucinic trequartista, non vedo le immagini delle partite, non vedo la stanza con il poster di Totti, non vedo neanche lei, ma vedo quei cinque o sei tifosi che tornano verso la fermata del tram camminando sui binari deserti, con le sciarpe nelle tasche.

lunedì 24 febbraio 2014

Sanremo, Laetitia e la Serie A che non c'è

 
 
L'unica nota positiva del weekend è la chiusura del Festival di Sanremo.
Magari anche ben organizzato, ma sicuramente non di livello quanto alle canzoni in gara.
Salverei solamente il pezzo scartato di Frankie Hi-Nrg (Frankie Hi-Nrg per me è un grande, da sempre adoro la sua Quelli che benpensano - bello anche il duetto con la Mannoia di venerdì) e Laetitia Casta (da brividi nello spot Dolce & Gabbana).
Meglio non parlare delle tre canzoni finaliste. La stessa canzone di Renga - a dire di tutti ingiustamente eliminata prima del gran finale - non mi è parsa un granchè.
Il Festival della Bellezza - se mai la stessa si possa rappresentare - è risultato piatto, poco coinvolgente.

Non solo il Festival. Penso che ormai anche questa Serie A abbia ben poco da dire. Una palla.
Per quanto la Roma (seconda solo al Bayern per gol subiti) faccia punti, la Juventus - in un modo o in un altro - ne fa di più. Per quanto il Napoli si avvicini, lascia sempre per strada qualche punto di troppo.
Buona la prestazione del Toro, ma il finale non sorprende. Troppa la differenza tra i bianconeri e qualunque altra squadra. Tanto che sembra quasi impossibile che la Juve entri in crisi.
 
Per quanto le ultime perdano, il Bologna non riesce a staccarle, a prendere qualche punto di ossigeno.
Buono che una doppietta di Radu affossi un bel Sassuolo (era scontato il declino di Berardi dopo il poker al Milan - ieri panchina in avvio). Buono che fuori casa il Catania sia inesistente. Male che la partita con la Roma poteva pure finire 0 a 4. Quest'anno c'è da soffire come cani.
 
Bellissime due cose: lo striscione della tifoseria laziale a Lotito ("A Cragnotti.. je spicci casa") e Malesani che si toglie l'auricolare dopo la battuta di Gene Gnocchi sui capelli. Ovviamente, mi schiero dalla parte di Malesani.

Qualche nota dall'estero:
  • ride, e non poco, Carlo Ancelotti. Nel giro di poche giornate il suo Real si è ritrovato primo in solitaria. Tonfi assordanti quelli di Barcellona e Atletico a San Sebastian e Pamplona, rispettivamente;
  • partita chiusa, tattica e di studio Liverpool-Swansea. Mi chiedo solo una cosa: c'è qualcosa che non fa Suarez in campo? Lui si, riesce a formare la Bellezza disegnando il cross per il terzo gol;
  • chissà che combina Alino in Cina..

venerdì 22 novembre 2013

La cavalcata giallorossa nella Uefa 90-91



Per me era ancora estate: al 19 settembre 1990 la scuola non era ancora cominciata e mi godevo gli ultimi giorni al mare della Calabria. Spiagge deserte, e lì dove quasi tre mesi prima si accalcava la gente per seguire gli azzurri nel mondiale delle notte magiche non c’era più nessuno.
L’Argentina aveva spezzato il sogno di invincibilità della nazionale di calcio, al ragazzino di dieci anni rimaneva la squadra del cuore, l’unico affetto che con la madre non si cambia mai (lo dice anche un mio amico boliviano tifosissimo dell’Huracàn: in Bolivia vanno pazzi per il calcio argentino).
Le premesse non erano incoraggianti: una serie di campionati passati di basso profilo, senza alcuna possibilità di lasciare una qualche traccia, con il ricordo lontano di quel suicidio di massa in Roma Lecce 2-3…un ricordo vago, oscuro, doloroso.
Il campionato era appena iniziato e la domenica precedente ne avevamo presi 3 a Genova. Mercoledì cominciava una nuova esperienza per me: la coppa Uefa.
Finalmente si potevano vedere le partite in diretta, senza dover ascoltare le telecronache di Giulio Galasso e Lamberto Giorgi su Teleroma 56 - “In campo con Roma e Lazio” - che ogni cinque minuti interrompevano il racconto della partita per ricordarci quanto era bello l’orologio princeps giamaica o per gustarsi il caffè di cui non mi ricordo la marca (che poi è vero che il telecronista brasiliano Pato era il fratello di Falcao?).

E qui apriamo una piccola parentesi: negli anni 80-90 a Roma, ancora prima delle fantomatiche radio ascoltate da tassinari e baristi che chiamano in trasmissione dicendo “Bella Mario, innanzitutto complimenti pe’ la trasmissione….te chiamo da via de Boccea dove ‘sto a fa’ ‘na consegna ….er capitano è troppo forte e la Roma è maggica!”, radio che vengono invocate da stampa tv e giornali come seminatori di odio e disordine tra la tifoseria, insomma prima di queste radio c’era una produzione calcistica televisiva locale di grandissimo livello: il già citato “In campo con Roma e Lazio”, telecronache in diretta e collegamento col campo tre ore prima della partita. 
Impossibile non citare il Professor Claudio Moroni, conduttore in solitaria di “Io e Monna Lisa”: questo qui stava seduto su una poltrona in stile neoimpero (finto), con un ritratto della Gioconda, con la quale dialogava parlando di Roma e di Lazio. Insuperabile quando se la prese con Carlos Bianchi, che chiedeva sempre ai giornalisti dopo una delle tante sconfitte della Roma se avessero mai giocato a calcio in vita loro, dicendo “Ah Bianci, e poi che ti chiedi sempre se uno ha giocato o non ha giocato a calcio?! Fatte li cazzi tua!!”. 
Il top era “Gol di Notte”, condotto da Michele Plastino (si fecero le ossa lì Sandro Piccinini e Fabio Caressa), grande estimatore del Profeta Boemo, che in quella trasmissione lanciò i primi attacchi sul doping. Quando Zeman passò alla Roma invecchiò di dieci anni in un colpo solo. Un sabato sera ho anche chiamato per partecipare ad un gioco dove si vinceva un orologio…l’emozione era tale che non risposi nel modo giusto.
Comunque queste televisioni locali offrivano un prodotto popolare e onesto: non c’erano inutili fighe rifatte da cartellone pubblicitario, filosofi del pallone e calciatori in pensione che facevano i tristi opinionisti, non ti scassavano la minchia con la moviola e c’era una cortesia di fondo tra conduttori, ospiti e ascoltatori. Nel contesto romano, il degrado culturale e la corsa al ribasso derivante da oltre trent’anni di berlusconismo televisivo ha portato, a mio avviso, alla sostituzione di quei programmi televisivi con le radio di oggi in stile Marione. A Roma, la mia impressione è che i tre quarti delle persone con cui parli di calcio per strada ripetono meccanicamente quanto sentono alla radio, senza alcuno spirito critico. Ho visto sempre meno quella leggerezza che vivevo nei primi anni da tifoso, e ho notato sempre più aggressività senza senso.
 

Tornando alla UEFA, il primo scoglio da superare ai miei occhi era insuperabile: il Benfica di Sven Goran Eriksson, sempre rimpianto anche quando è andato alla Lazio, che aveva qualche mese prima perso di misura la finale di Coppa Campioni contro il Milan stellare di Sacchi, Gullit, Van Basten e tanti altri. Quali speranze per la mia Roma contro i vice-campioni d’Europa? Non ne vedevo alcuna.
Era una squadra tosta quella Roma, che giocava un buon calcio all’italiana, di sostanza, senza brillare: a giocatori di cuore e quantità (il caterpillar Berthold, Sebino Nela, Fabrizio Di Mauro, Ruggiero Rizzitelli) ne univa altri di più o meno raffinata tecnica (il principe Giannini, Ciccio Desideri, Andrea Carnevale) e qualche fuoriclasse: Rudy Voeller, un rapace d’area di rigore stile Inzaghi ma non antipatico come lui (tra l’altro era il numero 9 della Germania campione del Mondo). C’era poi un giovane centrale difensivo brasiliano che giungeva proprio dal Benfica, proprio su suggerimento di Eriksson al presidente Viola: Aldair.
Uno spettacolo da veder giocare: abituato agli arcigni difensori italiani, questo qui si vedeva che veniva da un altro mondo. Non un difensore roccioso, particolarmente difficile da superare, ma una tecnica sopraffina, grande capacità di impostazione, personalità in campo e fuori, piede destro e sinistro equivalenti e un’eleganza naturale ad ogni pallone toccato…insomma, uno di quei difensori che con la palla tra i piedi fa impazzire gli attaccanti: stoppava la palla di petto, la metteva a terra sotto la suola, alzava la testa e faceva lanci millimetrici di 30-40 metri.
C’era poi un giovane, promettente e fortissimo portiere: Angelo Peruzzi, ma sappiamo come è andata a finire.
In panchina Ottavio Bianchi, allenatore del primo scudetto del Napoli: classico allenatore italiano e che gioca all’italiana nel senso tradizionale: marcatura a uomo con libero mascherato, ci si adatta alla squadra avversaria e si cerca di non prendere gol. Se capita ne facciamo qualcuno.
Torniamo al fine estate calabrese. Quel mercoledì sera mi reco al bar sportivo del paese, praticamente vuoto e chiedo al barista (panzone e coi baffi) se si può vedere la partita. “Quale partita…??” mi dice. “E’ la partita della Roma, la coppa Uefa….”, rispondo. Gentilmente e silenziosamente accende la TV, io mi siedo aspettandomi in cuor mio 90 minuti di agonia, e invece dopo 30 secondi dal fischio di inizio il miracolo: Carnevale la butta dentro su assist fortunoso di Aldair. Olimpico in delirio. Il resto della partita è un sostanziale assedio del Benfica ben orchestrato da Valdo, brasiliano dal piede vellutato, che trova però un insuperabile ostacolo in Peruzzi.
Si porta così a casa il risultato, che mi appariva una fragile assicurazione. Al ritorno a scuola, tra noi romanisti (ovviamente eravamo la maggioranza) giravano voci incontrollate su uno stadio, il Da Luz di Lisbona, impossibile da espugnare e difficilmente da uscirci indenne: a ricreazione facevamo la colletta, mi sembra 800 lire, per incaricare il bidello Ireneo, grande tifoso giallorosso con il poster dell’83-84 dietro al banco, di andare a comprare il Corriere dello Sport (a patto di lascargli il giornale a fine giornata).
Credo tra l’altro che sia stato in quel periodo che mi sia reso conto di quante minchiate spara il Corriere dello Sport.
Comunque arriva il giorno del ritorno (nel quale indossiamo un’interessante maglietta bianca con le scaglie giallorosse sulle maniche) e accade quello che sembrava impossibile: al 27° su incursione del tedesco volante, Giannini la mette dentro di ribattuta, sotto la curva dei tifosi romanisti. Il resto della partita scivola via con i portoghesi incapaci di imporre il loro gioco e la Roma a controllare la situazione. Al termine non ho più paura, non ho più timore: tutto è possibile per questa squadra.
 
Il turno successivo è preceduto da un evento che sconquassa l’ambiente a Trigoria e lascerà il segno per molto tempo: Peruzzi, già una certezza nonostante la giovane età, e Carnevale, comunque distinto attaccante che assicurava gol e qualità, vengono squalificati per doping. L’impatto è devastante, c’è chi grida al complotto, chi allo scandalo: sicuramente la società fa una gran bella figura di merda, consigliando ai due di giustificarsi in maniera ridicola, prima invocando una pasticca dimagrante presa per errore dalla mamma di Peruzzi dopo una scorpacciata di cinghiale (perchè poi invocare la magnata di cinghiale? Forse il carattere ruspante della presunta abboffata avrebbe reso la menzogna maggiormente credibile…), poi lamentando uno sciroppo contro il mal di tosse.
Un anno di squalifica (una mazzata…manco fossero stati cocainomani recidivi) e tante grazie. Alcuni dicono che ci sia stata dietro una volontà politica per mettere in difficoltà il Presidente Viola, ma un dato è certo: qualcosa di oscuro c’è stato; il controllo venne dopo un Roma-Bari, e sempre dopo un Napoli-Bari venne squalificato Maradona, essendo il Bari guidato da Antonio Matarrese. Solo coincidenze? Inoltre pare che proprio Peruzzi (che poi fu gentilmente regalato alla Juve, dove è diventato uno dei più forti portieri degli anni 90) e Carnevale fossero in quell’inizio stagione spesso sorteggiati dall’antidoping, come a volerli prendere in flagrante (la prima legge antidoping è arrivata subito dopo, sul punto vi consiglio i libri di Sandro Donati, "Campioni senza Valore" e  "Lo sport de doping", dove c'è un passaggio alla vicenda).


Col morale a terra la Roma si presenta a Valencia dove riesce a strappare un pareggio con una partita giocata in affanno (e un arbitraggio benevolo che ci grazia negando un rigore e annullando un gol al Valencia), grazie al gol di Ruggiero Rizzitelli, attaccante dai piedi scarsi e dal cuore grande.
Al ritorno all’Olimpico la squadra sta più in palla e riesce a sconfiggere 2 a 1 un modesto Valencia, grazie a Giannini che prende per mano la squadra e la guida per farla uscire dalle secche in cui si era incagliata.

Agli ottavi di finale ci ritroviamo contro il Bordeaux, semi sconosciuta squadra francese che si rivela avere una difesa scandalosa dotata di portiere citofono: complice anche un terreno di gioco che sembra quello di un oratorio e una serata freddissima che ghiaccia le mani del povero Bell (per la cronaca in quel Bordeaux giocavano Lizarazu e quel gobbo di Deschamps), ne riusciamo a fare 5 con tripletta di Voeller e doppietta di Gerolin. E’ una Roma in ripresa e il ritorno è una passeggiata, anche grazie al portiere Bell che pensa bene di sublimare la bella prestazione dell’andata facendosi espellere già nel primo tempo: finisce 0-2 con doppietta di Voeller e tutti felici!


Ai quarti di finale ci aspetta l’Anderlecht: squadra forte, più forte di noi. L’anno prima si era arresa in finale di Coppa delle Coppe alla Sampdoria campione d’Italia solamente ai supplementari: e invece con una prova pazzesca di tattica e agonismo la Roma gliene rifila 3: di particolare il 2 a 0 di Voeller su punizione, credo uno dei pochi o forse l’unico della sua bella carriera (culminata con la Coppa Campioni vinta col Marsiglia in finale contro il Milan di Capello e in coppia com Alen Boksic).
Il ritorno è una festa soprattutto per i tifosi in trasferta, che illuminano il grigio stadio belga e si godono la tripletta di Voeller, scatenato come una bestia….praticamente come tocca palla la mette dentro: risultato finale 2-3.
Per la semifinale sfida con una squadra danese assolutamente sconosciuta: il Brøndby (piccola cittadina vicino Copenaghen). All’epoca non era affatto strano che una squadra non nota e neppure particolarmente forte arrivasse in fondo ad una competizione europea: l’eliminazione diretta, anche in coppa Campioni e nella Coppa delle Coppe, poteva favorire squadre senza blasone che davano tutto per dieci partite l’anno e si ritrovavano alle fasi finali a giocarsi un posto nella storia. Oggi sarebbe impossibile.
In Danimarca pare che ci siano problemi di ordine pubblico: lo stadio è una bagnarola e basterebbero i tifosi in trasferta per riempirlo tutto. Non ci sono neanche le recinzioni, e le autorità danesi, preoccupate dal vitalismo latino dei romanisti, pensano (bene) di mettere le barriere al settore ospiti, col risultato di creare una gabbia per polli.
La partita è difficile e il Brøndby (in cui gioca il portiere Schmeichel) cerca in tutti i modi di segnare, ma la diga eretta da Bianchi e le parate di Cervone preservano uno 0-0 da giocarsi tutto al ritorno.


Qualche giorno prima della partita di ritorno comincia lo psicodramma: ce la fa l’infortunato Voeller a giocare o non ce la fa? La sua presenza è fondamentale: capocannoniere del torneo, la Roma si aggrappa a lui per arrivare in finale. A scuola il solito giro tra i banchi del Corriere dello Sport, fino a quando leggo la scritta a titoli cubitali che mi rassicura: “segno anche con una gamba sola”. Il tedesco giocherà, e sarà fondamentale: dopo il vantaggio di Rizzitelli e l’autogol di Nela (per la verità nel tentativo di rimediare ad una bella cappellata difensiva di Comi), durante un assedio scomposto, davanti al fantasma dell’eliminazione, riesce non so come a buttarla dentro in una mischia a due minuti dal 90°.
L’Olimpico è di nuovo in delirio.
Siamo in finale: c’è un posto nella storia anche per me.
L’Inter è più forte di noi e alla fine il 2-0 dell’andata - con un rigore inventato dall’arbitro russo su cui giravano strane storie di soldi e intermediari - li garantisce dalla finale di ritorno. L’uno a zero con gol di Rizzitelli non basta, e sette anni dopo la finale di Coppa Campioni dobbiamo subire un’altra finale persa in casa. La settima Coppa Italia vinta contro la Sampdoria campione d’Italia non servirà ad asciugare le lacrime, siamo su due piani completamente diversi. Nel frattempo la società passa di mano: il presidente Viola è morto e gli eredi cedono il pacchetto azionario a Giuseppe Ciarrapico.
Quella finale persa contro l’Inter è stata una mazzata durissima: ero convinto che ce l’avremmo fatta, non era pensabile che un’altra squadra avrebbe potuto alzare la Coppa nel nostro stadio. E invece successe. A 10 anni avevo sperimentato una delusione così grande da essere vaccinato per tutte quelle che ho vissuto in seguito, e non sono state poche.


E’ come se quella fantastica cavalcata nella coppa Uefa 90-91 mi abbia catapultato all’improvviso da uno stadio in cui il tifo è un passatempo piacevole ad uno in cui il tifo è fonte di emozioni fortissime: per questo sento un’empatia verso uno sconosciuto coetaneo tifoso sampdoriano, che l’anno successivo in finale di Coppa Campioni contro il Barcellona vivrà un’amarezza ancora più grande. Non ho vissuto il tuo dolore, ma ti posso capire benissimo. 

lunedì 4 novembre 2013

Tra cinema e la chiusura di Sportitalia


La vita di Adele

Si fa un gran parlare di La Vita di Adele di Abdellatif Kechiche, il film che ha fatto impazzire Cannes.
La prima parte del film è effettivamente quasi perfetta. Come recitazione, come svolgimento e come inquadrature (la scena del bacio sulle scale). Poi il film si blocca, perde all'improvviso di consistenza, diventando insopportabile. La svolta è la scena dello screzio fuori da scuola tra la protagonista e un'amica, ultimo momento in cui viene affrontato il tema centrale.
Da quall'istante tutto si perde in stereotipi, circostanze e piatti di spaghetti bolognaise mangiati avidamente (come se chiunque potesse essere Christoph Waltz che mangia uno strudel). Le protagoniste si ritrovano infangate in ritratti, love parade e pianti isterici.
Il film, quando dovrebbe, non racconta nè l'uscita dall'adolescenza, nè l'omosessualità, nè l'amore.
Per lo più inutile e fuori luogo. Una delusione lunga tre ore, insomma.

* * *

Dopo 9 anni di calcio francese e sudamericano, di sport a 360 gradi e dirette calciomercato, chiude Sportitalia. O meglio, Sportitalia diventa LTSport. Lo annuncia in diretta un Michele Criscitiello a mezza via tra il tono severo e quello scherzoso. Lo scherzoso per sdrammatizzare, il severo per i 35 giornalisti la cui posizione rimane in bilico nel passaggio alla nuova emittente.
Di fatto, per noi spettatori non cambierà quasi nulla, giusto gli studi e un minimo i contenuti. Per loro, qualcosa di più.
Da Lacrime di Borghetti pieno sostegno a Sportitalia.

* * *

Barbara Berlusconi

La vera notizia del weekend è la crisi del Milan.
O meglio: Barbara Berlusconi che, risultati e campagna acquisti alla mano, ipotizza cambi a livello dirigenziale.
Allegri sempre più in bilico, Balotelli sempre più nell'occhio del ciclone (senza cresta e orecchino - peraltro - non mi piace, meglio il vecchio look) e Robinho sempre più titolare. Gli schiaffi viola hanno fatto malissimo.
Si ferma, invece, a Torino la striscia della Roma di Garcia (complice anche qualche spinta di troppo e un rigore che manca all'appello). L'enorme sforzo dei giallorossi è ora ridimensionato dai soli 3 punti che li dividono dalle inseguitrici. In altre parole, pesano un infinito alcune decisioni arbitrali pro-Juve e pro-Napoli.
Infine, Toni con attorno quella marea di sudamericani semi-sconosciuti fa impazzire.

Tutto questo per dire che stasera Bologna-Chievo è fondamentale e che presto o tardi vi esporrò la mia teoria sul perchè i jeans skinny fanno belli i fondoschiena - oggi non ho tempo.

lunedì 14 ottobre 2013

Breve elogio di KS, ovvero della mia estetica capovolta


KS

INCIPIT

Ho sempre subito il fascino dei centrocampisti talentuosi e dal passo felpato. I corazzieri - per quanto essenziali  al gioco - non hanno mai eccitato le mie fantasie pallonare.

Accade poi che si presenta in Italia KS, forse - ma ne sono quasi convinto - con l’unico intento di distruggere le mie convinzioni.

Ricordo che l’anno scorso mi aveva già colpito nella doppia sfida con il Napoli in Europa League ma - memoria in panne - ne avevo riportato un’impressione, seppur del tutto positiva, pienamente diversa dalla reale composizione del suo gioco. Lo ricordavo giocare nel mezzo, qualche metro più avanti, propenso più agli spazi tra le linee che all’ossatura dello scacchiere.

Ecco dunque. KS - sia maledetto -  ha distrutto la mia estetica.

Due tocchi. Prestanza fisica. Posizione sempre puntuale. E poi esplosività, ritmo di palla. Non ricordo di aver mai visto un calciatore con le sue caratteristiche, non nel campionato italiano almeno. Senz’altro mai sulle rive del Tevere. Sono ormai parecchie partite che lo studio, che cerco di addossargli dei limiti.

NIENTE

Un giocatore fantastico. Una faccia da calcio fantastica. Un capolavoro arrivato a Roma per motivi a me inspiegabili.

Ma torniamo alla mia estetica capovolta. Non divaghiamo.
È come quando, sedicenne, hai deciso qual è il genere di ragazza che fa per te. Arriva immancabile il giorno nel quale ne conosci una che - sommandone le qualità - diresti proprio non interessarti. E puntualmente te ne invaghisci.

Ugualmente in controtendenza il nostro KS.
La velocità sostituita dal tempismo. L’aggressività dalla potenza. Il dribbling lascia spazio alla lettura degli spazi, l’imprevedibilità all’essenzialità.
Eppure la palla è sempre pulita, la puoi trovare lì dove deve stare, prima di andare dove deve andare.

Riempirsi gli occhi di semplicità è compito arduo: disciplina da apprendere con diffidenza. Roba per palati fini, sembrerebbe.

Peraltro del tutto fuori contesto il nostro KS, in mezzo agli strappi dei vari De Rossi, Gervinho e Florenzi.

Paradosso dei paradossi, è il giocatore nella rosa giallorosa che, per atipicità, maggiormente mi ricorda Totti, a sua volta ossimoro (e sintesi) del classico numero 10.

Ed è qui che, interrogandomi, formulo il mio giudizio estetico “capovolto”: occorre superare il bello soggettivo per conoscere  il bello naturale che si esprime - Kant insegna - nel sentimento del sublime. 

Bisogna pertanto ammettere che nel calcio e, quindi, nella vita, esistono espressioni - artistiche o meno - che superano la valutazione soggettiva del gusto, per trascendere nell’oggettività della constatazione del bello in senso assoluto.

Ho la mia conclusione, o sintesi che dir si voglia: KS è più forte in senso assoluto, a prescindere dal mio gusto personale.
E che non si dica che guardare una partita sia un mero esercizio visivo, potendo facilmente trascinarci nel mondo dell’esegesi, se non anche nel metodo della filosofia pratica.

Distrutto da cotanto esercizio, vi saluto con l’altra mano.