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giovedì 17 ottobre 2013

Io sono la Maledetta - Pensieri e solitudini di una maglia che porta sfortuna al Real

 

Loro vorrebbero vedermi chiusa per sempre sul fondo di un cassetto, lo so. Gliel’avrò sentito ripetere almeno un centinaio di volte. Sempre con lo stesso tono di voce, sempre con lo stesso sguardo furtivo, sempre con le stesse parole che grondano rabbia. Oppure vorrebbero vedermi bruciare poco a poco. Sì, fuoco che arde le mie fibre sintetiche miste a cotone, fiamme che consumano il mio tessuto bianco fino a liberarlo. Nessuno alzerebbe un dito per provare a salvarmi, anzi. Se ne starebbero lì a guardarmi morire con un sorriso che gli stira gli angoli della bocca mentre il fumo nero frantuma quell’incantesimo che gli impiomba il cuore. Non provano nessuna forma di compassione per me, loro. Mi odiano, semplicemente. E non passa un giorno senza che lo ribadiscano. Ovunque. Sulle panche degli spogliatoi, fra i sedili del pullman che li porta allo stadio, in quel locale dove si chiudono tutte le domeniche dopo aver dato una lezione agli avversari.
 
Ormai non mi stupisco più del modo in cui mi chiamano. Quelle parole le conosco a memoria. Proprio come conosco a memoria quelle facce che mi guardano e mi additano dalla tribuna. Settimana dopo settimana, stagione dopo stagione. Bocche di padri che raccontano a orecchie di figli la mia storia. La storia di una maglia che assorbe il sudore e succhia via il talento dal corpo di chi la indossa. O almeno così sono pronti a giurare loro. E non esiste giornata o panchina che possa salvarmi. In casa o in trasferta, nel nostro stadio da ottantamila posti o nel buco di culo più sperduto di questo Paese allo sbando, posso sentire costantemente i loro occhi che mi si appuntano addosso. I loro sguardi che lacerano le mie fibre, la loro superstizione che dilania il mio tessuto, le loro parole che mi si attaccano sulla schiena fino ad opprimermi. Le stesse, identiche, parole che il giorno dopo si vergognano di aver messo l’una dietro l’altra.
 
Se ancora sopravvivo è tutto merito della Federazione. Di quei parrucconi imbalsamanti che occupano poltrone e scrivanie. Sono stati loro a stabilirlo. Niente allusivi numeri 77, niente nostalgici 88, niente finti estrosi 99. Niente di niente. Solo un banale elenco di maglie in ordine crescente che va dall’1 al 25. E allora ecco che anche io, la maledetta numero 19 del Real Madrid, sono diventata imprescindibile. Più una condanna alla solitudine che una protezione dall’estinzione.
Fortunatamente non ho impiegato molto tempo per imparare ad accontentarmi delle briciole. Sia sul campo che fuori. Ho imparato a non farmi andare troppo stretto questo piccolo ghetto che mi hanno costruito intorno. Io sono quella diversa, quella che non viene mai scambiata a fine partita, quella che non viene mai richiesta da chi ha una qualche probabilità di finire su uno straccio di copertina. Anche in negozio è così. Nello sterminato negozio della società più opulenta del mondo. Nessuno si sognerebbe mai di fare la fila alla cassa per me. Mi tengono in disparte, confinata e piantonata in un angolino mentre migliaia di turisti aspettano pazientemente che venga stampata la loro maglia di Beckham, la maglia di quel cantante pop del cazzo che sa giocare a pallone soltanto con un piede. Non che io sia invidiosa, ci mancherebbe. Anzi, all’inizio era stato anche divertente. Una serie di indizi sui miei poteri che si sono trasformati in una prova schiacciante col passare del tempo. Come nel 1998, quando le “meringhe” vinsero la Champions League e io non entrai in campo nemmeno per un minuto. Come nel 2000, quando il Real alzò al cielo di Parigi la Champions e io non rientrai nel tabellino dei marcatori. Come nel 2002, quando nessuno aveva avuto il coraggio di scegliermi e i blancos entrarono nella storia baciando per l’ennesima volta la coppa con le orecchie. È stato allora che le cose hanno iniziato a cambiare. Tutti hanno cominciato a farsi domande, a guardarmi con sospetto, a mettere in correlazione causa ed effetto. E il mio destino era segnato. Giornata dopo giornata sono diventata io la responsabile di tutto. Come se quei passaggi sempre troppo lunghi o troppo corti di un centimetro fossero colpa mia. Come se quelle entrate in ritardo fossero una mia scelta. Come fossi stata io a pensare che Fernando Sanz poteva essere un giocatore di pallone. 

Una figurina del mai raccomandato
 Fernando Sanz
Il primo ad avermi scelto è stato Mikel Lasa Goikoetxea. Il basco a tutta fascia col cognome che, qui nel calcio spagnolo, evoca brividi e maldicenze. Era arrivato dalla Real Sociedad con l’etichetta cucita dietro al collo di uomo che doveva rompere gli equilibri del campionato. Se n’è andato con la scusa di essere stato danneggiato dalla sentenza Bosman. Me lo ricordo ancora alla perfezione il povero Mikel. Mi portava a spasso lungo la banda sinistra con un’insicurezza capace di trasmettere anche una certa forma di affetto. Eppure, prima del nostro legame, il povero Mikel sembrava destinato a diventare un gigante. Qualche buona giocata, un paio di presenze in Nazionale, addirittura un titolo olimpico conquistato a Barcellona. Come se il calcio potesse finire a fare il cameriere di Pierre de Coubertin. Poi sulla nostra panchina si era seduto Fabio Capello. E Lasa era stato trasferito in una dependance del dimenticatoio. Un’anticamera per il suo trasloco all’Athletic Club.
 
Subito dopo è toccato a Fernando Sanz. Un difensore che ha fatto mettere le mani nei capelli ai tifosi del Real Madrid e a quelli del Malaga. Un difensore senza particolari doti tecniche ma che aveva un padre che come hobby faceva il presidente del Real Madrid e del Malaga. No, non fraintendetemi, non voglio sembrare maliziosa. Non sto dicendo che le domande legittime sul motivo della sua presenza in campo trovassero risposta in quella singolare coincidenza. Solo che sì, ecco, non ci voleva poi tanto per capire che le sue spalle non erano così robuste da reggere il peso di questo blasone. Questioni di testa, di stomaco che si attorciglia su se stesso al momento di entrare in campo, questioni di carattere.
 
Lo stesso carattere che è mancato anche a uno come Nicolas Anelka. Quando mi ha ereditato dal figlio del presidente, era l’estate del 1999. Allora quel francesino dallo sguardo truce e dai modi poco eleganti era sbarcato dalla perfida Albione per 23 milioni di sterline. Una carrettata di soldi che sembravano spiccioli per l’uomo che doveva aiutarci a vincere tutto. Una spicciolata che si è trasformata in un patrimonio per un attaccante capace di mettere insieme solo due gol in tutta una stagione. Lorenzo Sanz prima gli aveva fatto firmare un contratto di sette anni, poi si era presentato davanti alle telecamere e aveva annunciato: “È la più grande follia che potevamo fare”. Una battuta imbevuta di piaggeria che ben presto aveva assunto i contorni cupi del presagio. Nicolas non stava simpatico a nessuno qui. Non che lui si sforzasse troppo di passare per buontempone, sia chiaro. Però in quei mesi vissuti al Bernabeu si era sentito addirittura boicottato. Lui aveva provato a far finta di niente, a tirare dritto per la sua strada, a infischiarsene di tutto quello che dicevano sul suo conto. Eravamo solo io e lui. Lui e io contro tutti. Contro la società, contro i tifosi, contro i nostri stessi compagni. C’eravamo fatti forza a vicenda io e Nicolas. Solo che quando calpestavamo l’erba verde del rettangolo di gioco ecco che iniziava a sentire nostalgia. Nostalgia della sua Francia, nostalgia dell’Inghilterra, nostalgia di qualsiasi posto lo facesse sentire a casa. Un posto che, evidentemente, doveva essere lontano anni luce da Madrid. Per mesi interi l’avevo sentito frignare e lamentarsi, lamentarsi e frignare. Fino a quando ne avevano avuto abbastanza di lui. Tutti. Anche Vicente Del Bosque. Anche il mansueto Vicente Del Bosque.
 
Un giovanissimo Anelka. A Madrid giuravano
che non potesse attraversare la strada da solo
A soli vent’anni Nicolas aveva capito che la sua carriera nel club più importante del mondo era finita ancora prima di iniziare. Così decise di far sentire le sue ragioni. E lo fece nel modo che in quel momento gli riusciva meglio, facendo finire sotto i riflettori i suoi colpi di testa e non le sue giocate. Per tre giorni non si era presentato agli allenamenti, poi si era sfogato sui taccuini di France Football. “Mi trattano come un cane. Ho letto cose incredibili. Che passo il mio tempo al telefono, che sono una bestia, che nemmeno so attraversare la strada da solo. È stato chiaro da subito che non mi volevano. Hierro andò da Sanz, quando questi annunciò il mio ingaggio, e disse: ‘Presidente, abbiamo già Morientes, non ci serve un’altra punta’”. E al mansueto Del Bosque non rimase altro da fare che metterci fuori squadra per 45 giorni e trattenerci 360 mila euro dallo stipendio. Anche per questo, alla fine, Nicolas mi era diventato simpatico. Un po’ ci assomigliavamo io e lui. Tutti e due sempre pensierosi, tutti e due guardati in cagnesco dal resto del gruppo, tutti e due sopportati a fatica. Eravamo diventati un tutt’uno, due facce della stessa medaglia. Tanto che dopo qualche mese nessuno sapeva più dire se lui giocava da schifo per colpa mia o se io ero diventata una iettatrice anche a causa delle sue risibili prestazioni. Un legame malsano, un idillio che non poteva durare. L’estate successiva Anelka salutò tutti senza troppi salamelecchi e se ne tornò a Parigi. Nella sua Parigi. Nell’unica città dove poteva ricominciare a giocare a calcio.
 
Per qualche giorno tutto tornò alla normalità. Gli altri giravano alla larga da me, evitavano di fissarmi, di prendermi in mano. Qualcuno addirittura si rifiutava di pronunciare il mio nome. Poi il mister decise di promuovere in prima squadra Jorge López Marco, per tutti Tote. Un ragazzo che nella cantera aveva spazzato via da solo intere difese. Testa, sangue freddo, senso del gol. E in più il vizio di mortificare gli avversari con quel tocco che aveva imparato alla perfezione. Un tocco che sapevano sfoderare in pochi e che faceva arrabbiare tanti. Un tocco che si chiamava rabona. Non ci aveva messo molto a scegliermi, Tote. E non aveva esitato neanche per un attimo. Come se le leggende messe in giro da quelle malelingue facessero il solletico all’autostima del “Señor de la Rabona”. Un talento straordinario che aveva bisogno solo dell’occasione giusta per esplodere. E di occasioni, Vicente del Bosque ce ne concesse addirittura sette. Solo che dopo il primo scatto il talento di Tote cominciava a evaporare. Piano ma inesorabilmente. Ogni secondo che passava in mezzo a quel prato le sue gambe diventavano più dure, i suoi occhi che trovavano sempre meno corridoi dove far correre il pallone, la porta che diventava sempre più piccola e lontana. Non esattamente le doti che vengono apprezzate nel club più famoso di questo continente vecchio e marcio. E poco importava quanto ci impegnassimo durante la settimana. Sudore, mascelle serrate e tanta corsa. Ma poi, quando arrivava il momento di fare sul serio, ecco che Tote spariva. Puntuale come le tasse o come uno schiaffo che ti colpisce appena pensi di esserti sistemato. Un copione che è andato avanti fino a gennaio. Poi un dirigente si è avvicinato e ha cominciato a parlare con Jorge. Una stretta di mano, una pacca sulla spalla e un incitamento. Tutto qui. Una stretta di mano, una pacca sulla spalla e un incitamento. E Tote è stato spedito a fare esperienza a un altro Real. Il Valladolid. Una mano sudaticcia che ti sia appoggia dietro la schiena mentre un’altra mano sudaticcia ti mostra l’uscita. E la tua carriera inizia a precipitare e ad avvitarsi su se stessa.
 
Portillo e Tote. I ragazzi di Coppa (!)
Dopo quell’ennesimo divorzio me ne sono stata buona per quasi un anno e mezzo. Più per necessità che per una mia scelta. Ho aspettato la fine della stagione in un angolo senza che nessuno mi prestasse attenzione. Un disinteresse dal quale speravo potesse nascere un legame, una quarantena dalla quale pensavo potesse nascere un briciolo di compassione. E invece niente. A luglio nessuno se l’era sentita di rischiare, di provare a dimostrare che tutte quelle storie sui miei poteri erano solo delle palle. Delle colossali palle. Ero tornata ad essere invisibile e sola. Un numero cancellato da una lista con un tratto di penna. Il mio mondo era tornato ad essere nero. Un universo senza colore dove tutto sembrava poter cambiare solo in peggio. Poi, quando sembrava tutto immobile e stanco, ecco che a spezzare l’incantesimo ci ha pensato un ragazzino. Un ragazzino che era arrivato dall’Argentina ancora giovanissimo e che in Argentina era stato subito rispedito a farsi le ossa. Per quattro anni. Un ragazzo che aveva un piede educato ma che sapeva perfettamente quando in campo era il momento di picchiare. Un ragazzino che si chiamava Esteban Cambiasso. La prima volta che mi ha indossato, Esteban aveva il cuore che gli pulsava all’impazzata e una decina di capelli che ancora non si erano arresi alla forza di gravità. Si era capito subito che non sarebbe durato molto qui. Non era bello, non era un personaggio, le sue giocate non strappavano nessuna esclamazione di meraviglia. Faceva tanta legna, quello sì. Ma a volte anche un pregio può trasformarsi in un difetto quando porti sul petto uno stemma sovrastato da una corona. Per due stagioni abbiamo combattuto in mezzo al campo. Due anni senza che nessuno della dirigenza si facesse vivo per rinnovare il suo contratto in scadenza. Così Cambiasso aveva acquistato un biglietto di sola andata per Milano e aveva firmato per l’Inter di Massimo Moratti. L’ennesimo abbandono, l’ennesima coltellata, l’ennesimo talento messo in fuga da un club troppo vorace. Ma allora non c’era stato tempo per capire l’errore che si era appena fatto. Si usciva dalla gestione di Carlos Queiroz. Dalla disastrosa gestione di Carlos Queiroz. Dodici mesi che avevano trasformato la casa blanca in un cumulo di macerie e che avevano annegato i galacticos nelle paludi del quarto posto. Bisognava ricostruire tutto. E bisognava farlo alla svelta. Così a maggio, prima della gara contro la Real Sociedad, Florentino Perez aveva preso la parola e aveva annunciato urbi et orbi il grande colpo. “Lunedì farò un annuncio che restituirà l’entusiasmo alla tifoseria del Real Madrid”, aveva dichiarato mentre il Valencia si cuciva lo scudetto sulla maglia. Un colpo che avrebbe fatto schiumare di invidia tutta Europa. Un colpo che si chiamava Walter Adrian Samuel.
 
Quell’anno ci misi un attimo ad accasarmi. A Roma Walter indossava il numero 19. Un numero dal quale, per motivi scaramantici, non voleva affatto separarsi. Avevamo iniziato anche bene, io e Samuel. Lui non era uno che si lasciava intimidire. No, lui le emozioni riusciva a chiuderle nell’armadietto. Sempre. Lui era quello che nei primi cinque minuti ti aveva fatto assaggiare i tacchetti, ti aveva spiegato che quell’area di rigore era la sua area di rigore, un tempio dove dovevi entrare in silenzio e dal quale dovevi uscire il prima possibile. Senza lasciare segni del tuo passaggio. E questo era tutto quello di cui avevamo bisogno. Solo che poi Florentino riuscì a sbagliare tutto. Dopo tre giornate cacciò José Antonio Camacho,  alla 17° silurò Mariano García Remón e mise tutto nelle mani di Vanderlei Luxemburgo. Tre allenatori che non riuscirono a mettere a posto la cosa più importante: la retroguardia. Vaglielo a spiegare ai tifosi che fra Roberto Carlos, Iván Helguera e Michel Salgado era difficile trovarne anche uno solo avvezzo alla fase difensiva. Tutti puntarono il dito contro Samuel. Lui, il difensore venuto dall’Italia con la fama di “muro” e che qui in Spagna veniva giù rapido come un tramezzo. Lui, il difensore costato 23 milioni di euro. Una cifra che, per uno che gioca dietro, da queste parti viene vista come un abominio. E così, a fine anno, anche Samuel aveva acquistato un biglietto di sola andata per Milano e aveva firmato per l’Inter di Massimo Moratti.
 
Sinceramente un po’ mi ero stufata di questo continuo tira e molla, di questa condanna a ricostruire sempre tutto da capo anno dopo anno. Così, quando nessuno mi aveva scelto per la stagione successiva, avevo tirato un sospiro di sollievo. Un ammutinamento forzato che aveva il gusto dolce della liberazione. Ero stanca. Stanca di essere umiliata per loro, di essere insultata, di dovermi sentire inadeguata. Poi, quando a gennaio venne annunciato l’acquisto di Antonio Cassano, avevo iniziato a convincermi che le cosse potessero cambiare. Sul serio. Finalmente ero finita sulle spalle di uno che con un tocco poteva cambiare la partita, di uno a cui bastava un guizzo per riscrivere la storia. Finalmente ero finita sulle spalle di uno che viveva al confine fra il genio e la follia. Sarei finita in copertina. E l’avrei fatto spesso. “Ecco la giocata di Antonio che ha risolto la partita” avrebbero scritto i giornalisti. “Guardatelo mentre esulta con la sua maglia numero 19” avrebbero urlato i tifosi. D’altra parte qui da noi gli italiani avevano lasciato un ricordo di quelli difficili da obliare. La prima volta che don Fabio Capello si era seduto sulla nostra panchina si era portato dietro Panucci. E aveva avuto ragione. Christian menava e si pettinava, macinava la fascia e si pettinava, crossava e si pettinava. E segnava, anche. Come al suo esordio con la maglia del Real. Prima aveva risolto la partita con un gol decisivo, poi si era seduto ad ascoltare le domande dei cronisti. “Panucci, veni, vidi, vici?” gli aveva chiesto qualcuno. “Biri biri biri? Io non capisco biri biri biri” aveva risposto lui. Uno scivolone che non gli aveva comunque impedito di diventare uno dei leader del nostro spogliatoio.
 
L'unica vera maglia di Cassano al Real Madrid
E così pensavo potesse essere anche con Antonio. Un sogno che avevo chiuso a chiave nel cassetto il giorno della presentazione. E non era a causa di quel giubbotto peloso con cui si era presentato davanti ai fotografi. La prima volta che Antonio mi aveva indossata mi ero quasi sentita male. Aveva infilato orima la testa, poi le braccia, infine giù fino a infilarmi nei pantaloncini. Avevo sentito la sua pancia tendermi di qualche centimetro in avanti, i suoi fianchi riempirmi fino quasi a deformarmi, la sua carne dilatarmi fino allo spasmo. Era grasso, Antonio. Quattro chili sopra il suo peso forma aveva sentenziato il preparatore della prima squadra. Ma in quel momento questo dato non era importante. Quello che importava era che Antonio sorridesse e salutasse i tifosi con la mano. Per pensare al futuro c’era tempo. Qualche giorno dopo io e Cassano avevamo esordito in un incontro di coppa del Re in casa del Betis. Un giorno che non dimenticherò mai. Un giorno che tutti i tifosi del Real non dimenticheranno mai. Io e Antonio eravamo entrati in campo nel secondo tempo mentre un soffio di speranza aveva riempito i polmoni dei tifosi che ci avevano seguito in trasferta. Ci erano bastati tre minuti per segnare e vincere una partita che sembrava maledetta. Un avvio da sogno al quale era seguito un finale da incubo. Juan Ramón López Caro aveva deciso di impiegarci col contagocce. E praticamente mai dall’inizio. Una strategia che aveva relegato il Real Madrid al secondo posto della Liga. L’ennesima stagione da nascondere sotto al tappeto, l’ennesima ricostruzione da tirare su a colpi di acquisti. Per prima cosa Ramón Calderón Ramos decise di restituire le chiavi della squadra a Fabio Capello, l’unico in grado di conciliare solidità collettiva e fantasia individuale. La cura migliore per un talento dilapidato come quello di Cassano. Ma quelli non erano più affari che mi riguardavano.

In estate Antonio era ritornato al suo primo numero, a quel banale numero 18 che si portava dietro da sempre.  E io, nell’indifferenza più totale, fui sballottata sulle spalle José Antonio Reyes Calderón, l’asso gitano proveniente dall’Arsenal che solo qualche settimana prima aveva riempito suo malgrado le pagine di tutti i quotidiani della penisola. Nel cuore del ritiro della Spagna ai mondiali tedeschi, infatti, Luis Aragonés aveva preso da parte il suo esterno e aveva provato a motivarlo come meglio credeva. “Al negro digli che giochi da solo. Digli: negro, sono meglio di te. Digli: me cago en tu puta madre negro de mierda. Sono meglio di te”. Solo che quel“negro di merda” era Thierry Henry. Uno il cui nome viene pronunciato con una smorfia di rispetto in ogni angolo del Regno Unito. Un paragone che aveva finito per fagocitare José Antonio fino a renderlo inoffensivo. Così inoffensivo che quelle parole farcite d’odio che gli aveva rivolto il suo tecnico rimasero le uniche tracce che Reyes aveva lasciato in quella annata. Dodici mesi così incolori che non potevano che terminare con un addio. Ed è stato dopo quell’ennesimo abbandono che per me le cose sono cambiate. Dopo quel divorzio non sono più riuscita ad innamorarmi di nessuno. Era come se sapessi che, tanto, da un momento all’altro sarebbe tutto svanito, bruciato, finito. Negli anni successivi ho visto Julio Baptista trasformarsi da Bestia ad animale da cortile, Klaas-Jan Huntelaar sparare alle stelle palloni che dovevano soltanto essere appoggiati in rete, ho guardato Ezequiel Garay farsi scherzare dagli attaccanti che tutto erano fuorché letali, Raphaël Varane impantanarsi nel ruolo di giovane promessa sempre sul punto di esplodere. È stato divertente, lo ammetto. Ma avevo capito che qualcosa era cambiato. Ero diventata vittima di me stessa, ero intrappolata nelle pagine di un libro che ripeteva all’infinito sempre lo stesso identico finale. Non c’era giorno in cui io non desiderassi di sparire ed essere dimenticata. Ma non potevo. E la colpa era tutta della Federazione. Di quei parrucconi imbalsamanti che occupano poltrone e scrivanie. Ero condannata a sopravvivere. Una parte essenziale di un gioco che iniziavo a detestare. E lo sarei stata per sempre. Io, la pecora nera di una squadra vestita di bianco come le meringhe.  

mercoledì 21 agosto 2013

Calciomercato: la parola agli esperti! Prima parte: i crack



“L'estate stafinendo e un anno se ne va” cantavano i Righeira, più che altro è il calciomercato - eterno rituale estivo, come gli ombrelloni che vengono riposti nei magazzini (per restare dentro la canzone) - che è agli sgoccioli, e anche se spesso i veri botti arrivano alla fine, con i contratti lanciati dietro le porte delle stanze tipo granate nei carrarmati, a pochi giorni dalla chiusura Lacrime di Borghetti ha voluto interrogare alcuni tra i maggiori esperti di calcio - gente che non sfigurerebbe nei migliori salotti biscardiani - per provare a fare il punto su questa sessione, ed eleggere i migliori colpi, le possibili sorprese e i temuti flop della stagione che ci aspetta. Prima di iniziare, approfitto allora per ringraziare tutti coloro che - in pieno Ferragosto, con le mani unte di fritturina di calamari e le gocce di Calippo Fizz sul mento - hanno collaborato a quest’iniziativa, inviandoci le loro preziose opinioni, e ricordo che, in coda a questa serie di post, arriveranno altri contributi.


|BREVE PREMESSA|

Innanzitutto, dobbiamo chiederci: che calciomercato è stato, quello di quest’estate?

Enrico Veronese, giornalista e football analyst, non ha dubbi: (come direbbe Bugo) c’è crisi, dappertutto. “A memoria non ricordo un mercato così deprimente, grigio, al ribasso, recessivo delle squadre italiane. I campioni stagionali - vedi Falcao - non vengono più qui, e chi vende i propri non lo fa più per necessità di sistemare un bilancio ballerino, ma per l'impossibilità di pagare ingaggi che sceicchi e petrolieri russi offrono: al punto da augurarsi, forse, l'ingresso di questi calibri anche nell'ormai inappetibile calcio nazionale, altro che disputare amichevoli negli USA o coppette in Cina. Oppure - ed è la mia teoria - provare a lanciare in Italia il modello Arsenal (o Barcelona), ovvero fiducia ai diciottenni allevati in casa, stessa formazione per molti anni, resistere alla razzia dei vari Marquinhos sui quali si può costruire una squadra”.

Meno negativo è il giudizio del nostro collaboratore Gian Mario Bachetti, per il quale, se è vero che i top player alla Messi e Ronaldo sono ancora comodi nella Liga e non è arrivato in Italia neanche mezzo Robben, “tuttavia, a discapito di quanto si dicesse ultimamente sul fatto che la Serie A fosse diventato un torneo per giocatori finiti e giovani promesse a prezzi del Lidl, sono arrivati parecchi giocatori che sono ancora in grado di fare la differenza”.

Vediamoli, allora, quali sono questi giocatori, i migliori acquisti secondo i nostri opinionisti, fermo restando che, come ricorda Vitellozzo, fantasista nella formazione di Someone still loves you, Bruno Pizzul e star di twitter [nonché idolo di chi scrive dopo questo tweet], causa orari improbabili di un calcio estivo venduto all’ESPN e agli interessi americani, le partite amichevoli che è stato possibile vedere sono state davvero poche. Per fortuna, aggiungo io, ci rimane l’intuito, forgiato su centinaia di posticipi serali avvolti nella nebbia della Bassa.

 
|IL CRACK|
 
La prima considerazione è questa: non c’è un colpo di mercato che abbia messo in ombra gli altri. Il podio dei crack, però, è presto fatto: Kevin Strootman, Mario Gomez e Gonzalo Higuain. Partiamo dal nuovo centrocampista della Roma, forse il meno conosciuto tra i tre.


“Nell’estate in cui i grandi calciatori stranieri sembrano essersi ricordati che esiste anche il campionato italiano, credo che il miglior colpo di mercato sia stato l’acquisto di Kevin Strootman da parte della Roma” sostiene Emanuele Giulianelli, giornalista e padrone della Bottega del Calciofilo. “Ambito da grandi club, ha ventitré anni ma è già un veterano, con più di 130 presenze in Eredivisie e 15 nelle coppe europee. Personalità da vendere, grinta e carattere gli hanno consentito di diventare il più giovane capitano della nazionale olandese: possiede tutte le caratteristiche che negli ultimi anni sono mancate alla squadra giallorossa”. Sulla stessa lunghezza d’onda è Monia Bracciali, che con i suoi Tacchetti a spillo afferma che nonostante “nell'Europeo Under 21 non abbia brillato, Strootman diventerà fondamentale nel centrocampo della Roma. Ha gran fisico, buona tecnica e tiro da fuori, ma soprattutto la cattiveria giusta, interpretando bene la voglia di rivalsa di una piazza intera. Unica cosa che non mi convince molto è la costanza di rendimento in un 4-3-3, perché a mio parere la rosa a disposizione di Garcia non la vedo adatta a quel modulo”. Come precisa Enrico Veronese, “Strootman può essere la rivelazione e diventare una carta in più in mano a Garcia, essendo abile nelle due fasi e pronto al 4-3-3”. Sulla bontà del nuovo acquisto giallorosso sono perentori anche gli amici di Crampi Sportivi: “Dubbi di inserimento ce ne sono pochi, Ambiente-Roma, questioni tattiche, coesistenza con altri giocatori, pochi cazzi:  Strootman è un capo, uno di quei giocatori che semplicemente si impongono aldilà di ogni contingenza”. Peraltro, “neanche l’imbarazzante somiglianza con Alf, l’alieno ghiotto di gatti proveniente dal pianeta Melmac, dovrebbe mettere in ombra l’ultimo prodotto del totaalvoetbal olandese. Giocatore più giovane a indossare la fascia di capitano della nazionale, Van Gaal lo ha già eletto tra gli intoccabili da qui a Rio, nella stessa categoria di Van Persie e Robben. Facile capire il perché: Strootman sa fare praticamente tutto quello che un centrocampista dovrebbe saper fare, e lo fa con la disinvoltura di chi conosce le metafisiche segrete dei campi di pallone, di chi conosce la complessa arte di far risultare ogni gesto funzionale al gioco”. La benedizione al colpo della coppia Sabatini-Zanzi arriva, infine, anche da un tifoso romanista come Fabrizio Gabrielli, che già si auspica una sforbiciata (come il suo meraviglioso libro che lo ha reso, almeno per chi scrive, il Soriano italiano): “Se il vissuto degli ultimi due anni non m’incombesse sulle spalle e sulla memoria come invece malandrino fa, sciorinare entusiasmo per Strootman sarebbe facile e scontato come liberare uno stormo di colombe all'uscita degli sposi. Strootman ch’è giovane, Strootman ch’è giocatore bell’e compiuto, Strootman responsabile, Strootman autorevole, Strootman forte fisicamente e coi piedi raffinati e una buona castagna e tutte le carte in regola per far bene nel gioco dell’aèsseroma, sebbene bisognerebbe sapere, tanto per cominciare, qual è che sarà, il gioco dell’aèsseroma. E il fatto che sia l’aèsseroma, poi, nondimeno, invalida ogni considerazione potenzialmente positiva, sbarazzina e spensierata dishonoris causa. Come non dargli torto? Io e Nesat, precauzionalmente, ci tocchiamo (non a vicenda, s’intende).


Come numero di preferenze, il secondo acquisto più apprezzato dai nostri opinionisti è Mario Gomez, il panzer tedesco della Fiorentina. Una scelta inevitabile secondo gli amici di Aguante Futbol, “tenendo in considerazione carriera, profilo e prezzo. La Viola lo ha comprato a una cifra relativamente bassa e il tedesco in carriera ha sempre (eccezion fatta per quel tristemente famoso Europeo) segnato moltissime reti. L’unico grande dubbio è legato alla Fiorentina, che, al di là del precampionato non proprio brillante, è a nostro avviso una grande incognita. Potrebbe ripetere lo splendido campionato dell'anno scorso, ma alcuni segnali non sono molto incoraggianti”. Così la pensano in molti: Gomez grande acquisto, a condizione che la Fiorentina mantenga le attese. Markovic (frequentatore storico del blog e devoto al taconazo), ad esempio: “Se la Fiorentina continuerà a fare il gioco farfallone dello scorso anno, tutto al servizio dell’attacco, e se Cuadrado e Pasqual (e si è aggiunto Joaquin) metteranno ancora in area venti cross a partita, penso che Marione nostro lo vedremo spesso sotto la Fiesole. Me lo gioco capocannoniere”. Sono ottimisti gli amici di Trappola del fuorigioco, che vedono in Gomez l’uomo della provvidenza per la Fiorentina: “I viola di Montella hanno un sistema di gioco ormai consolidato nell’ottima stagione passata, dove l’unico difetto è stato la mancanza di un catalizzatore dell’enorme gioco offensivo prodotto”. Ecco, allora, che “la campagna acquisti è stata finalizzata a cercare un punto di riferimento per l’orchestra viola. Gomez è in grado di svolgere questo ruolo e realizzare molti gol. L’impatto del tedesco potrebbe essere devastante nel campionato italiano e la sua esperienza internazionale potrebbe far fare alla viola il salto di qualità anche in Europa League. E se Ljajic dovesse rimanere viola, Gomez avrebbe un meraviglioso assist-man in più per la scalata alla classifica cannonieri”. Sottolinea la sua impressionante vena realizzativa anche Giakimo, altro lettore storico del blog: “Super Mario Gomez, oltre ad avere una canzone stupenda a lui dedicata, ha già segnato 221 goal in carriera, pur avendo una tecnica direi approssimativa e non partecipando per niente alla manovra della squadra (contro l’Olanda agli Europei ha toccato palla per 24 secondi segnando però due gol). In sostanza, lui sa fare una cosa sola: trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Il nuovo Inzaghi (o meglio, il nuovo Trezeguet, Super Pippo almeno correva)”. Ma se è così forte, mi chiedo, com’è possibile che la Fiorentina abbia potuto fare questo colpo, senza neanche versare lacrime, sangue e nero di seppia da Giannino? La risposta me la dà sempre Giakimo: “L’acquisto di Gomez da parte della Fiorentina testimonia la follia calcistica degli ultimi anni, con tutte le squadre a rincorrere il marchio del tiki-taka, dei passaggi infiniti, del falso nueve ecc. Solo così si spiega la volontà del Bayern di liberarsi di Gomez e la possibilità che una squadra come la Fiorentina sia riuscita a prenderlo abbastanza indisturbata”. Affascinante e nostalgica è, come sempre, la lettura che di Gomez dà il nostro amico Arturo, che la Viola, tra l’altro, la tifa. Secondo lui, è Llorente, e non Gomez, il bomber che sarebbe dovuto sbarcare a Firenze: “Llorente mi è sempre sembrato uno dei pochi giocatori in grado, moralmente ed esteticamente, di raccogliere l’eredità di Batistuta. Gomez, al contrario, fa parte di un ‘progetto’ (parola odiosissima) che, anche se si rivelasse vincente, non sarebbe mai in grado di colmare il vuoto che si creò in due fatidici giorni di storia della Fiorentina: quello in cui Batistuta si infortunò contro il Milan alla ricerca dello scudetto del 98/99 e quello dell’anno successivo in cui si gettò in lacrime nella rete dopo avervi gettato il pallone contro il Venezia (sua ultima partita in viola, suo ultimo gol e record di Hamrin battuto)”. Da cui il paradosso: “Llorente il miglior acquisto, anche se fallisse, e Gomez il peggiore, anche se riuscisse”.


Da un centravanti all’altro, il terzo nome su cui i fantacalcisti d’Italia possono andare sul sicuro è Gonzalo Higuain, che, secondo gli esperti di Mondo Calcio, a Napoli sembra già sentirsi a casa. “È vero che l’eredità di cui si deve far carico, quella di Cavani, è pesantissima, così come è consistente la cifra sborsata da De Laurentis per averlo; l’impressione, però, è che l’argentino si faccia carico senza problemi delle enormi aspettative che hanno accompagnato il suo arrivo, com’è normale per uno abituato a segnare (e far segnare) con impressionante regolarità, che stia indossando la maglia della seleccion o quella del club. Probabilmente da solo non basterà a cambiare gli equilibri in campionato. L’idea però è che si sia di fronte a un vero top player, il solo che possa realmente fregiarsi del titolo tra coloro che sono arrivati in Italia nel corso del calciomercato”. Su questo punto concorda anche Enrico Veronese: “Il Napoli, che ha sostituito una delle migliori punte al mondo con un suo pari grado, ha compiuto il teorico colpo dell’estate. Higuain ha tutte le carte in regola per non far rimpiangere l’uruguagio, a cominciare dal tabellino dei marcatori. Favorito in questo anche da un centrocampo a trazione offensiva”. Il curriculum di Higuain non lascia adito a dubbi neanche secondo Gian Mario Bachetti: “Se due anni fa qualcuno ci avesse detto che l’attaccante della nazionale argentina (chi vuol capir capisca...) ex Real Madrid (190 presenze e 109 gol con la camiseta blanca ma con tanti spezzoni di 90 minuti) sarebbe arrivato in Italia, non gli avremmo creduto. Avrei potuto dire tranquillamente Mario Gomez, ma penso che all’ombra del Vesuvio in coppia con Benitez il Pepita possa finalmente far vincere qualcosa al Napoli, più di quanto possa fare Super Mario in tandem con l’Aereoplanino all’ombra di Palazzo Pitti"

Detto che anche secondo Nesat “Higuain e soprattutto Mario Gomez non possono fallire”, dobbiamo quindi aspettarci una corsa a due per la classifica cannonieri? Mario di Vito, collaboratore del blog, da quel di Ascoli non è convinto e lancia una provocazione sempre a strisce bianconere: “Il più grande contributo alla rinascita nazionale uscito fuori durante questa prima fase di calciomercato è senza dubbio alcuno Carlitos Tevez. Non dico solo sul versante calcistico, ma anche sul versante umano, politico, culturale. Chiunque abbia visto la serie Boris sa benissimo che «l’unica cosa seria in Italia è la ristorazione» e l’esser riusciti a far sbarcare da queste parti il pingue attaccante argentino vuol dire aver portato nel Belpaese anche il suo chef, che donerà nuova linfa alla terra che ha dato i natali alla benemerita pasta asciutta. Insomma, gli Agnelli - uomini dall’occhio lungo - hanno intuito che la popolarità crescente di spettacoli come Masterchef rischia di svalutare la nostra gloriosa tradizione gastronomica. La soluzione a questa paventata, ennesima, decadenza dei costumi nazionali è chiaramente lo chef di Tevez”. Non rimane che metterci a tavola.


A proposito di attaccanti con tendenza a ingrassare, una doppia preferenza dimostra come ci siano addetti ai lavori - e che addetti! - ancora disposti a credere all’ennesima resurrezione di Antonio Cassano. Mister Vujadin Boskov ne è convinto: "Io dice che grande sorpresa in questo calciomercato è Cassano, io pensa lui a Parma può fare buono campionato se non esagera con tortelli”. Il suo personalissimo suffragio lo dà a Cassano anche Vitellozzo: “Al netto degli infortuni, che a causa dell’età si fanno sentire, è il pezzo mancante all'attacco di Donadoni. La sua fantasia, unita alla velocità, non sempre fruttifera, di Biabiany e alle potenzialità da bomber, non sempre espresse, di Amauri, può lanciare il Parma verso posizioni di classifica più consone ai ducali”. Per tenersi comunque una porta aperta, Vitellozzo consiglia di tener d’occhio (tranquillo, i Vigili di Roma Capitale sono già allertati) anche Maicon: “In vista dei Mondiali brasiliani il terzino destro ha molto da (ri)guadagnare, essendo uscito da mesi dal radar di Felipao Scolari, e il gioco offensivo di Garcia può spingerlo verso il Maracanà”. Esperto di resurrezioni è anche Joaquìn, che a Malaga ha ritrovato lo smalto degli anni migliori. È lui, secondo Marco Maioli - tra l'altro, grande esperto di Calcio Sudamericano -, il vero colpo (un po’ alla Borja Valero): “Probabilmente una delle ali migliori d’Europa. Nel corso dell’ultima stagione ha dimostrato, anche in Champions League, di poter essere ancora devastante sulla fascia. Vero, non è più un ragazzino, ma secondo suo padre avrebbe davanti a sé un paio di lustri di calcio giocato, grazie al latte materno assunto fino all’età di sei anni. Idolo vero a Malaga, Montella gli troverà un posto nella Fiorentina”.

E noi che diciamo? Abbiamo fatto sbilanciare i due esperti del calciomercato (che io, Lo Zio e Gegen al massimo possiamo parlarvi degli affari al mercato sotto casa, destreggiandoci alla grande tra seppie in offerta e carciofi di importazione). Bostero, sdraiato in piscina con i suoi braghini azulgrana, è telegrafico: i colpi sono Mertens, Cirigliano, Rolando Bianchi e la non cessione di Muriel. Poi arriva la stoccata: “va da sé poi che chi sposta DAVVERO è Biglia”. Nesat, invece, oltre a addensare i dubbi che lo vogliono alter ego di Vitellozzo (o viceversa) ha voluto indicare un acquisto azzeccato per ogni ruolo. “Per quel che riguarda la porta, il miglior colpo lo ha fatto la Samp cedendo Romero. Oddio, non che l’attuale titolare Da Costa sia meglio, Romero però è chiaramente uno che è diventato portiere perché era sempre il bambino in più al parco:  ‘sì, puoi giocare con noi ma devi stare fisso in porta’. In difesa punto sulla rinascita di Silvestre al Milan e su quella di Maicon alla Roma. Scommetto su Monzòn del Catania e sono certo di una grandissima stagione di Yepes in quel di Bergamo. Centrocampo. Biglia è da sempre un mio pallino, credo tantissimo in Chibsah a Parma e Cirigliano a Verona. Strootman mi convince sempre di più. Spero possa trovare spazio Mertens. In attacco, oltre a Gomez, Higuain e Tevez, il miglior acquisto è Gabbiadini, impazzisco per Leto e non sputo sopra Gervinho. Zaza grande incognita, Cassano a Parma torna quello di Genova. Trovo assurda la cessione in prestito di Vydra da parte dell’Udinese: a me piace da morire”.

Per chiudere la pagina sui crack, sui grandi colpi insomma, fedele al suo cognome non poteva mancare anche una visionaria profezia di Vincenzo del Laboratorio Saccardi. “Faccio il gradasso come un calabrese che ha aperto un’agenzia conciliazioni a Milano e nonostante la crisi va di Findomestic:  il miglior acquisto sarà Christian Eriksen dell’Ajax al Milan...se il Milan passa il turno e Galliani ci farà il miracolo, trequartista completo e potente, mi pare un talento unico, anche se il flop è sempre dietro l’angolo visto che proviene da quel paese ridicolo e insulso che è l’Olanda, prego che entrambe le previsioni si avverino, mi pare un altro potenziale Sneijder...spero meno fighetto”. Tornando sulla terra, Vincenzo - che da palermitano lo conosce bene - vede come crack Ilicic alla Fiorentina: “se la smetterà di fare venire il voltastomaco e si metterà a lavorare, ne vedremo delle belle”. Sottoscrivo!

venerdì 17 giugno 2011

La Samp ha fatto il botto.

“Boom”. Dalla tribuna dove ero seduto, il tuono si era sentito distintamente. Quel tuono e, un secondo dopo, un boato. Al tredicesimo del primo tempo Giampaolo Pazzini aveva scaraventato in rete un lungo traversone di Stankevicius, bissando il primo gol di testa e portando la Sampdoria sul 2-0, ribaltando di fatto il 3-1

La Samp è la stessa dell’anno prima, un nucleo coeso di italiani al servizio del genio di Cassano e del cinismo di Pazzini che, dopo l’esilio coatto intimato dalla Juve a Trezeguet, è, in Italia, l’attaccante più forte di tutti in area di rigore. Sono rimasti quasi tutti i protagonisti della stagione precedente, nonostante le richieste e le offerte, sono tutti ancora a Genova a caccia di un sogno: disputare la Champions League per e con la Sampdoria.

Quasi tutti, dicevamo, perché la Sampdoria ha perso tre pedine fondamentali : Del Neri e Marotta sono andati a fare grande (…) la Juve portandosi dietro il portiere Storari, l’assicurazione contro la schiena malandata di Buffon.

Non è una cosa comune che una squadra perda allenatore e direttore generale contemporaneamente. E’ facile pensare che queste scelte abbiano creato alla Samp un “vuoto di potere” nei mesi decisivi per la pianificazione della stagione successiva. Chi sarà il prossimo allenatore? e, soprattutto, chi deciderà chi lo sarà? La rincorsa al quarto posto rimanda queste domande a data da destinarsi e l’ebbrezza dell’obiettivo raggiunto, grazie ad una epica vittoria all’Olimpico a poche giornate dalla fine, viene smaltita male e in troppo tempo.

Per la panchina viene scelto Mimmo Di Carlo, centrocampista dell’ultimo grande Vicenza e allenatore specialista della difesa (ora si chiama fase di non possesso) curata già dalla partenza (prima fase!) dell’azione avversaria, grazie al pressing di trequartisti finti come gli occhi azzurri di Sterling St Jacques tipo Giampaolo Pinzi.

In porta viene sbattuto Curci, scartato dalla Roma e reduce da una stagione al Siena(retrocesso) dignitosa, ma non eccezionale.

Il resto è usato sicuro ma non nel senso deteriore del termine: la coppia di centrali Lucchini Gastaldello, per esempio, è una delle migliori d’Italia e la migliore in assoluto di quelle composte solo da italiani, a centrocampo Palombo garantisce corsa e carisma, mentre ci si aspetta il salto di qualità da Poli, centrale campione d’Italia con la primavera di Fulvio Pea qualche anno prima, che ha fatto intravvedere, nel suo primo anno di Serie A, lampi di classe associati ad una buona tenuta fisica e temperamentale. Le fasce hanno interpreti mediocri, session men che, non più esaltati dal gioco di Del Neri, non si sa se avranno il rendimento dell’anno prima, ma certo non sono giocatori di cui ci si deve “preoccupare”.

L’inizio è da paura: i preliminari di Champions. A Brema, contro il Werder, una squadra temuta ma che di lì a poco getterà la maschera, la Samp subisce, sembra cadere ma viene salvata da un grandissimo gol nel finale del bomber Pazzini, che alimenta le poche speranze di entrare nella fase a gironi, la Champions vera, quella che ti può portare in casa in vari Messi, Ronaldo, Rooney.

Per la partita di ritorno Marassi è esaurito ed eccitato al punto giusto. Il boato con il quale il pubblico genovese accoglie la famosa “musichetta” della champions fa quasi tenerezza, mi siedo al fianco di T.A.F.K.A.L. (the athlete formerly known as Lanna) e mi godo la partita tranquillamente fino a quel BOOOM che mi ricorda che sto vedendo un calcio di qualità Champions.

A pochi minuti dalla fine della partita Cassano fissa il risultato con un colpo dei suoi, tre a zero nel tripudio generale. Gli attacchi del Werder, guidati da un impressionate Marin, non sembrano avere la cattiveria necessaria fino a che, proprio nell’ultima azione, Rosenberg con un diagonale tanto preciso quanto beffardo, manda la partita ai supplementari.

Questo gol non viene preso sul serio, proprio come quella frase della tua ex fidanzata che hai capito solo dopo, a distanza di mesi, troppo tardi comunque. La rete di Rosenberg è l’inizio della fine, non la fine di un sogno, l’inizio della fine, ma in quel momento nessuno se ne rende conto.

Nei supplementari il Werder abusa dei resti di una Sampdoria inaridita nel fisico e nella mente, per i blucerchiati le porte del paradiso non si aprono, si aprono invece quelle dell’Europa League che, chissà perché, per le squadre italiane è competizione che ben si può paragonare al purgatorio, qualcosa che si deve fare, ma non si vorrebbe.

Perso il grande stimolo europeo, la Samp vivacchia abulica, per vedere i lampi di Cassano occorre fare la danza della pioggia e ancor più rari sono i gol di un Pazzini che sembra aver dimenticato le coordinate della porta.

Centroclassifica di quelli tristi, troppi punti separano la Samp dal rinnovare sogni europei, troppi punti separano la Samp dalla zona calda, quella in cui devi iniziare a rimboccarti le maniche e darti da fare.

Con l’arrivo dell’inverno la situazione precipita, Cassano, dopo aver subdorato un rinnovo del contratto con ritocco nella direzione sbagliata, litiga pretestuosamente con il presidente Garrone, viene messo prima fuori squadra e poi regalato al Milan, Pazzini, a questo punto, non può essere trattenuto in nessun modo ma viene venduto all’Inter, in una operazione che sa di fallimento economico e tecnico.

La dirigenza della Samp è allo sbando, Tosi, che aveva mandato il curriculum anche all’Ikea, ha sostituito il defenestrato Gasparin ed è stato turlupinato in sede di mercato invernale uscendone, appunto, senza Cassano e Pazzini con in mano una coppia di nove (Maccarone e Macheda) e un kicker traballante (Biabiany). Garrone capisce di aver sbagliato - anche se non sa ancora quanto - e non vuole vedere più la testa enorme e quadrata del ds nè in sede nè a Bogliasco. La Samp è un corpo privo della testa, ha ancora pochi passi a disposizione prima di stramazzare al suolo.

Eppure, la nuova Samp non è poi malissimo sulla carta, certo meglio di tutte le altre squadre che la inseguono in classifica fatta eccezione del Parma, ha un solo problema, non fa mai gol. M-A-I.

Una tifoseria abituata agli arabeschi del “Marziano” Chiorri, ai ricami di “Bobby Gol” Roberto Mancini, con l’immagine dei nuovi gemelli del gol ancora impressa sulla retina, tipo finale di “Quattro mosche di velluto grigio”, si deve aggrappare ai miseri rientri sul destro di un Guberti qualsiasi. Neanche una punizione di Ortega, una rovesciata di Flachi, non c’è più niente, il tifoso inizia a chiedersi se va allo stadio a vedere una partita di calcio o a prendersi un paio di birre con gli amici, la risposta, come quasi tutte le risposte, è in una pinta.

Il lento e costante fenomeno dell’erosione colpisce la compagine blucerchiata, che vede il “gruppone” di coda farsi sempre più vicino, le squadre implicate nella corsa per retrocedere si spingono fra loro ad una velocità che per la Samp è proibitiva, quanto mancano adesso le parate del miglior portiere della stagione 2009/10, quello Storari che, alla Juve, arriva addirittura a mettere in discussione il posto da titolare di Buffon.

Don't panic, don't panic..Ok, panic! Di Carlo non riesce a raddrizzare la biga, a Genova qualcuno trova il libro dei morti, legge parole proibite e riporta in vita lavorativa Cavasin, reduce da un esonero nel campionato Svizzero!

I risultati sono quelli previsti da tutti: una serie di sconfitte vergognose, una squadra senza un’idea senza una certezza, smarrita. E dire che il calendario è uno dei migliori, tutti gli scontri diretti in casa, basta vincerne un paio. Ma dopo le pesantissime sconfitte casalinghe contro Parma, Cesena e Lecce arriva anche l’inutile pareggio contro il Brescia, i tifosi blucerchiati, che colorano speranzosi tutte le domeniche un Marassi sempre vestito a festa, sono attoniti. Adesso lo scenario è apocalittico, manca solo il tumbleweed che rotola sul campo. La Sampdoria deve ora affrontare il derby contro un Genoa alla ricerca di un senso per la propria stagione deprimente, i genoani poi, oppressi da lustri vissuti all’ombra dei cugini, vogliono pestare quelle dita che tengono la Samp sospesa sul baratro; se possibile, la vittoria pomeridiana del Lecce in casa contro il Napoli rende la situazione ancora più critica: vincere il derby in posticipo o morire.

I discorsi dei doriani in giro per la città sono cambiati, non si parla più di calendari, tabelle, pronostici, si parla solo degli errori che hanno portato a questa, imminente, incredibile retrocessione.

La paura che siano proprio “le merde” a mandarti giù rende insostenibile la situazione e insopportabile l’attesa.

A vent’anni dallo storico scudetto dei ragazzi di Boskov, ultima spruzzata di colore in un albo d’oro popolato da li in poi dalle solite note, il Doria ha ben poco da festeggiare…

I più vecchi sanno che questa volta non si può accusare lo sfortunato infortunio di Montella, il gol sbagliato da Catè (!) a San Siro contro il Milan di Zac San, o, ancora, la scellerata decisione di Trentalange di fischiare quel rigore su Simutenkov, trasformato da Klas Ingesson per il Bologna. Questa retrocessione è stata cercata, conquistata e meritata.

Il registro degli indagati è zeppo di nomi, ma è il presidente Garrone, a 11 mesi dall’essere portato in trionfo, che viene accusato dalla piazza di aver smontato il giocattolo senza avere in mano pezzi nuovi e nemmeno istruzioni per rimontarlo.

Oltre al medicarsi le scottature causate dallo scudetto conquistato da Cassano con il Milan e le raffiche di gol segnati dal “Pazzo” con la casacca dell’Inter, i tifosi della Samp se la prendono anche con Curci, che paga, non tanto una stagione fallimentare, quanto il paragone con la precedente annata monstre di Storari. In attacco Big Mac gira a vuoto, Macheda è irritante nella consapevolezza della sua permanenza ad interim e del suo sicuro ritorno sotto le ali di Sir Alex Ferguson, poi ci sarebbe Biabiany, che non farebbe così male se non fosse schiacciato dalla responsabilità di essere “quello che ci hanno dato per Pazzini”. Nelle more è scomparsa pure la stellina Poli, che la retta via sembra aver smarrito.

A rendere la situazione degna di una piece di Harold Pintera arriva anche una conferenza stampa di Cavasin (che ha perso pure quel baffo da “figu” che lo rendeva simpatico) nella quale il tecnico si definisce un fenomeno e un mago della panchina, nonostante una media punti da far riconsiderare con maggior rispetto la breve, benché indimenticabile, conduzione di Maifredi del Brescia edizione 94/95.

La sceneggiatura è stanca e scontata come quella di un cine panettone, il Genoa si porta a casa il derby al 93esimo e, sette giorni dopo, i protagonisti si ritrovano tutti nella stessa stanza, a dover spiegare l’un l’altro equivoci e tradimenti ben chiari, invece, agli spettatori. A Marassi, contro un Palermo che ciondola stancamente da quattro mesi, la Samp si arrende ai suoi demoni, i blucerchiati tornano in serie B in una delle retrocessioni più incredibili della storia.

Sebbene già il Chievo avesse abbinato preliminare di Champions e retrocessione e pure la Lazio ci fosse andata vicino, quelle stagioni erano partite subito male, la Samp, invece, si è trovata in acque burrascose senza essersi preparata minimamente e, anzi, nell’ultimo attracco su terra ferma, ha ben pensato di liberarsi degli inutili giubbotti di salvataggio.

Adesso non puoi parlare ad un doriano di calcio, sentiresti il drugo Lebowsky avvertirti: “sono dei nichilisti, non credono in niente” perché non puoi credere in niente se la squadra che ha battuto l’Inter del Triplete e vinto all’Olimpico contro una Roma che sembrava inarrestabile, la stessa squadra che si è fermata a quaranta secondi dalla Champions League, adesso si trova in serie B.

martedì 29 marzo 2011

Giornalisti sportivi

Braccia rubate all'agricoltura
Un giorno bisognerà farlo un discorso serio sulla categoria dei giornalisti sportivi. Ora voglio solo tirare un sassolino nello stagno. Ho letto ieri sul Corriere della Sera, ovvero il più importante giornale (non sportivo) italiano, un lungo articolo sulla nazionale a firma di Alberto Costa. Costa è una delle penne di punta del giornale di via Solferino, e gode di grandi estimatori tra i lettori (ricordo il mio compagno di stanza in un noto studio legale, un giovane avvocato d'affari che oggi è milionario, ma col cuore tenero quando si tratta di parlare di calcio, nel suo caso rossonero, che mi riportava spesso dei brani di Costa sul Milan, ed entrambi non potevamo che assentire). Alle volte è anche arguto, di piacevole lettura insomma. Ieri parlava della nazionale, ma in realtà il senso dell'articolo era parlare male di Antonio Cassano. Di Cassano e di Pazzini, che con l'Italia non segnano mai, ma soprattutto di Cassano, che -in soldoni- secondo il giornalista ormai l'hanno capito tutti che è un bluff, anche Allegri, che però non lo può dire (mi domando se sia vero anche il contrario, se Cassano cioè si sia accorto che Allegri è un bluff, ma non lo può dire).
Ora, dopo forse vent'anni abbiamo davanti agli occhi una nazionale decente. Lo dico io, che l'ho sempre snobbata (per me la nazionale ha senso se ci giocano giocatori della Roma, per me la partita più bella è stata Italia-Montenegro 2-1 con doppietta di Aquilani e gol di Vucinic). Non mi dilungo su questo. L'Italia gioca bene, è simpatica, ha tocco, eleganza, anche fame, giocatori motivati, un allenatore senza le catene dei procuratori, ti fa venire voglia di non andare al cinema e di sederti sul divano con una birra in mano. Un passo in avanti mica male rispetto all'obbrobbrio sudafricano. E cosa fanno questi giornalisti sportivi, cosa fa questo Alberto Cronos? Si mangia il figlio, affamato -come sempre- di polemica, confusione, zizzania, interessucci privati, inchiostri prezzolati. Non ci sono altre spiegazioni: sui giornali sportivi si parla male di qualcuno o per motivi personali o per motivi prezzolati. A Cassano hanno detto di tutto durante la sua intera carriera; ogni cassanata veniva accolta con il classico birignao moralista; adesso che si comporta bene, da bravo ragazzo, che si allena e non sbuffa, che si fa sostituire e sorride, che si sacrifica per i compagni e corre come un matto, lo crocifiggono. Strano mondo che è questo.
Per poi sponsorizzare Giovinco. Giovinco. Il senso dell'articolo era: Cassano non ha fantasia, non è decisivo, non ha mai dimostrato niente, è un bluff, sentiamo gli esperti che dicono, ecco ne passa uno, è Marco Simone, ciao Marco tu chi metteresti come seconda punta in nazionale, ciao Costa io metterei Giovinco, è molto meglio di Cassano, grazie Marco hai ragione, ciao, viva Giovinco e abbasso Cassano.
Questo è il livello. Ora io non so se i Giovinco di questo mondo sono generosi sotto banco con i Costa di questo mondo, o se i Costa credono davvero in quello che scrivono. Non lo so e non m'interessa. M'interessa denunciare questa categoria squallida, che dà la colpa alla nazionale di Prandelli di essere poco glamour, visto che lo share della partita con la Slovenia è stato troppo basso (come se nel mondo, in questo momento, non sta succedendo di tutto e di più, e magari la famosa gggente ha più paura della guerra santa o della centrale nucleare farlocca che non di una diagonale sbagliata). Scrive Costa che gli italiani (ma che ne sa lui? Ma parla per te) vogliono i grandi nomi in nazionale e non questi carneadi. Sono certo che Costa e i mille suoi simili neanche un anno fa scrivevano il contrario, e cioè che gli italiani erano stufi dei grandi nomi e volevano giocatori veri, giovani, desiderosi di mettersi in mostra. Questo banderuolismo del pensiero mal si concilia con la prosopopea da maitre-a-penser del bar sotto caso che trasuda, tracima dagli articolo di Costa e di molti suoi simili, il problema è che questi si credono tutti dei Brera o dei Mura (personaggi peraltro verso cui non provo nessuna stima, anzi, sono convinto che la colpa primigenia di questa gravità del pensiero calcistico sia la loro) e non si accontentano di fare gli umili cronisti (così come i professori del liceo, come insegna Gegen, non si accontentano di fare gli operatori scolastici), ma devono interpretare le masse, sondare gli umori, interpretare il pensiero, illuminare il proscenio. Peccato che parlano del niente, lo stesso niente che li inghiotterà, molto prima dei canonici quindici minuti di gloria.