Risking all to believe
in what is just (...) Giving up glory to fight for a cause (...) Forgetting a
career to join a revolution (...) Taking the risk to avoid regret (...) Becoming
the symbol of a struggle (...) And playing, playing, playing (...) Using
football as a propaganda tool.
Saint-Étienne, 12
aprile 1958
La voce della donna al
telefono mi avvisa che è un’interurbana. Qualche rumore d’interferenza poi, tra
le scariche elettriche della linea, ecco la voce di Mustapha Zitouni. Dice che
è d’accordo anche lui: domani si parte. Fino a questo momento Mustapha era il
più restio del gruppo. A 30 anni sarebbe stata la sua ultima possibilità di
giocare un Mondiale, e le recenti prestazioni al centro della difesa del Monaco quest’estate in Svezia ne avrebbero fatto un titolare fisso dei Bleus. Ma tra
marcare da vicino la grande stella brasiliana Didi, e tentare una pericolosa
fuga verso l’ignoto, anche lui ha scelto la seconda opzione. Mi spiega che lui e
altri compagni approfitteranno di una trasferta a Nizza per passare da lì il
confine. Ci si vede a Roma tra un paio di giorni, dice sforzandosi di sembrare
tranquillo, quasi allegro. Ma la voce tradisce paura. Non è semplice, lo
capisco, se li fermano alla frontiera possono arrestarli. Ma lui sa che per me
è ancora più complicato: io sto svolgendo il servizio militare nel Battalion de
Joinville, se mi arrestano sono un disertore.
Domani è un altro
giorno, eppure stasera sono ancora un semplice calciatore. Anzi, a dirla tutta
sono il migliore, sono un idolo paragonabile a un attore del cinema. Sono il
Cary Grant di questo fottuto paese. Mezz’ala d’immenso talento, con la maglia
dei verts del Saint-Étienne ho già vinto uno scudetto segnando caterve di gol. L’anno
scorso ho portato la nazionale militare al trionfo ai mondiali di categoria e
da allora, a soli 21 anni, sono già titolare indiscusso della nazionale
francese: la stella più attesa al Mondiale che si avvicina. Ma io quella
competizione non voglio giocarla con la Francia, io la Coppa del Mondo voglio vincerla
per il mio paese. Nessun rimpianto, la decisione è oramai presa: dimenticare il
presente per non avere nostalgia del passato, abbandonare tutto quello che ho
raccolto fino ad oggi per tentare di conquistare l’impossibile. Mi accendo
l’ultima sigaretta e lascio che il mio sguardo si perda nel rigoglioso giardino
primaverile che mi si apre davanti. Ma oramai in quel verde riesco a
vedere solo sabbia e deserto. Vedo casa mia: l’Algeria.
Ginevra, 13 aprile 1958
La mattina sveglia
presto, mi rado e mi spruzzo di acqua di colonia: non troppa, per non attirare
l’attenzione. L’appuntamento è per le dieci in stazione, alcuni si sono messi
una crema schiarente sul viso: troppi arabi che vogliono passare un confine
insieme, l’Europa li ha sempre visti malvolentieri. Figuriamoci nel 1958. Un
giorno sarà diverso, e potremo attraversare tutte le frontiere senza problemi.
Anche per questo voglio andare. Alla dogana con la Svizzera nessuno ci crea
problemi, le guardie mi riconoscono e ci fermiamo un po’ a parlare di calcio:
del gol che ho segnato allo Stade de Remis infilando sotto le gambe Colonna, il
miglior portiere del paese. Solo tra qualche anno saprò che quel confine l’ho passato per pochi minuti, che un dispaccio del ministero telegrafato da lì
a poco in tutto il paese avvisava la polizia di frontiera di fermarci e
arrestarci sul posto. A sera siamo a Ginevra. Passeggiando lungo il lago rimaniamo
incantati dal jet d’eau. Siamo tutti ragazzi e, benché calciatori famosi, del
mondo non abbiamo ancora visto nulla. Mohamed (Soukhane) per esempio gioca a Le
Havre, che su in Normandia è pieno di algerini, chiamati per la ricostruzione
dopo la Guerra. Dahmane (Defnoun) invece gioca ad Angers. Non sanno nulla di
quello che sta succedendo in Algeria. Io invece sono nato a Sétif, e la
violenza mi è entrata in casa fin da piccolo.
Avevo nove anni quel
giorno, e con i miei compagni di scuola anch’io ero in strada a manifestare. I
grandi ci avevano spiegato che era il giorno in cui i nazisti si erano arresi
agli Alleati, e allora ci avevano chiesto di fare dei disegni che raccontassero
ai francesi che la loro occupazione sulle nostre terre era illegale come quella
dei nazisti da loro. Che si stavano comportando esattamente come quei mostri
che avevano combattuto. Doveva essere un giorno di festa, non sapevo che si
sarebbe trasformato in un massacro. La gendarmerie e i pied-noirs si sono
comportati come belve, la carneficina è andata vanti quasi una settimana. Non
ho mai visto così tanto sangue in giro. Due anni dopo sono andato in Francia,
dove sono diventato un calciatore ricco e famoso. Di Sétif ho rimosso tutto,
fino a quando il mese scorso non mi è arrivata una lettera dal carcere di
Parigi firmata Ahmed Ben Bella. Anche Ben Bella ha giocato a calcio: una volta
con la maglia del Marsiglia ha battuto le Antibes per 9-0, segnando un gol. Poi
ha deciso di disertare dall’esercito francese e di combattere per il suo paese.
E ha fondato il FLN. Quando racconto a Defnoun e Mohamed la storia di Sétif, di
Ben Bella, e del FLN, mi guardano con occhi sgranati: sono più affascinati
dalla rivoluzione che non dal jet d’eau del lago di Ginevra.
Roma, 15 aprile 1958
Abbiamo passato anche
il confine svizzero e siamo arrivati a Roma, dove ci aspetta l’aereo che deve
portarci a Tunisi. La luce del mattino disegna i contorni di una città
meravigliosa, ma l’idillio è interrotto quando ci portano i quotidiani francesi
del giorno prima: le aperture sono tutte dedicate alla clamorosa fuga di nove
giocatori algerini, che ora rischiano l’arresto. Io, che sono militare, sono
considerato anche un disertore. Poche settimane dopo sarò condannato a dieci
anni in contumacia. Ma la paura e lo sconforto del momento lasciano posto alla
gioia quando ci ricongiungiamo con i fratelli che hanno passato il confine a
Imperia. Ci abbracciamo calorosamente. A guardarci, già così siamo una delle
nazionali di calcio più forti al mondo. Ci manca solo la nazione per cui
giocare. L’Algeria ancora non esiste.
Quello che sappiamo mentre
ci dirigiamo all’aeroporto è solo che abbiamo lasciato la fama e la ricchezza
di un paese che non ci appartiene per servire il nostro popolo, non sappiamo
ancora né come né quando sarà possibile farlo. Quello che sappiamo è che
giochiamo bene a calcio, non sappiamo ancora se potrà essere questo il nostro
contributo alla rivoluzione. Nessuno l’ha mai fatto prima di noi, non siamo
sicuri che funzionerà, ma dobbiamo provarci. All’aeroporto di Ciampino, prima
di imbarcarci sul volo che ci deve portare a Tunisi, siamo circondati dai flash
dei fotografi. La notizia della nostra fuga si è diffusa. Sono lì quasi tutti
per me: il Cary Grant francese, il fenomeno del Saint-Étienne, il più talentuoso giocatore che abbia
mai indossato la maglia dei Bleus. Il pazzo che decide di abbandonare la
nazionale francese a pochi mesi dall’inizio del Mondiale di Svezia.
Baghdad, 25 febbraio
1959
E’ nella culla della civiltà
che per la prima volta sentiamo suonare il Kassaman, la musica patriottica che
poi diventerà inno nazionale algerino. L’emozione è tale che nessuna vittoria
con la maglia dei Bleus - i cui giocatori l’anno scorso ci hanno dedicato il
Mondiale svedese, concluso con un’onorevole sconfitta nei quarti per 5-2 con il Brasile - potrebbe essere paragonata alla gioia di questo
momento. Mentre risuonano le note del Kassaman, capiamo quanto il calcio sia
importante per la costruzione di un’identità nazionale anticolonialista, e di
come noi stiamo facendo la storia. Sono passati pochi mesi dal nostro arrivo a
Tunisi e dalla creazione di una nazionale di calcio del FLN. Oggi a Baghdad
della nazionale irachena ci sbarazziamo agevolmente, come abbiamo fatto di
tutte le altre compagini affrontate fino a qui e di tutte quelle che
incontreremo in seguito. Alla fine, nei quattro anni dal 1958 al
1962, giochiamo 90 partite in giro per il mondo, di cui ne vinciamo ben 65
diventando la rappresentativa nazionale più vincente della storia, se solo
fossimo stati riconosciuti come tale. Ma non ci importa nulla, quello che ci
interessa è che stiamo aiutando il nostro paese nella propaganda
rivoluzionaria, che anche noi, a nostro modo, stiamo
combattendo per l’indipendenza della nostra terra.
Il ricordo più bello è
senza dubbio il viaggio a oriente. Cominciamo dalla Jugoslavia di Tito, che battiamo
6-1 in uno storico match. Poi la Cina e il Vietnam, dove ad attenderci c’è Ho
Chi Minh in persona, e sul campo a onorarci prima della partita scende anche il
generale Giáp. Sarà lui, scherzando, a dirci che siccome loro hanno sconfitto
la Francia in battaglia e noi abbiamo battuto loro a calcio, allora siamo anche noi degli
sporchi francesi. E’ in Vietnam che ci rendiamo conto che la lotta di un paese
contro l’oppressore deve necessariamente essere la lotta di tutti i paesi
contro tutte le oppressioni. E capiamo che anche noi, giocando a calcio, abbiamo
contribuito alla lotta antiimperialista per l’indipendenza e
l’autodeterminazione dei popoli. Dopo gli accordi di Evian del 1962 e
l’indipendenza dell’Algeria, è Ben Bella in persona a concedermi il permesso di
tornare in Francia, dove mi concedono un’amnistia. Ho solo 25 anni, e con il
Saint-Étienne vinco altri tre scudetti, una Coppa di Francia e una Supercoppa. Ancora
oggi sono il miglior marcatore dei verts con 192 gol. Nel 1962 viene sciolta anche la gloriosa nazionale
del FLN, e da allora gioco per quella algerina, di cui diventerò anche
allenatore. Perché in fondo io sono semplicemente un uomo di calcio, anche se
sono contento di aver giocato per la rivoluzione. E di aver vinto.