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venerdì 22 novembre 2013

La cavalcata giallorossa nella Uefa 90-91



Per me era ancora estate: al 19 settembre 1990 la scuola non era ancora cominciata e mi godevo gli ultimi giorni al mare della Calabria. Spiagge deserte, e lì dove quasi tre mesi prima si accalcava la gente per seguire gli azzurri nel mondiale delle notte magiche non c’era più nessuno.
L’Argentina aveva spezzato il sogno di invincibilità della nazionale di calcio, al ragazzino di dieci anni rimaneva la squadra del cuore, l’unico affetto che con la madre non si cambia mai (lo dice anche un mio amico boliviano tifosissimo dell’Huracàn: in Bolivia vanno pazzi per il calcio argentino).
Le premesse non erano incoraggianti: una serie di campionati passati di basso profilo, senza alcuna possibilità di lasciare una qualche traccia, con il ricordo lontano di quel suicidio di massa in Roma Lecce 2-3…un ricordo vago, oscuro, doloroso.
Il campionato era appena iniziato e la domenica precedente ne avevamo presi 3 a Genova. Mercoledì cominciava una nuova esperienza per me: la coppa Uefa.
Finalmente si potevano vedere le partite in diretta, senza dover ascoltare le telecronache di Giulio Galasso e Lamberto Giorgi su Teleroma 56 - “In campo con Roma e Lazio” - che ogni cinque minuti interrompevano il racconto della partita per ricordarci quanto era bello l’orologio princeps giamaica o per gustarsi il caffè di cui non mi ricordo la marca (che poi è vero che il telecronista brasiliano Pato era il fratello di Falcao?).

E qui apriamo una piccola parentesi: negli anni 80-90 a Roma, ancora prima delle fantomatiche radio ascoltate da tassinari e baristi che chiamano in trasmissione dicendo “Bella Mario, innanzitutto complimenti pe’ la trasmissione….te chiamo da via de Boccea dove ‘sto a fa’ ‘na consegna ….er capitano è troppo forte e la Roma è maggica!”, radio che vengono invocate da stampa tv e giornali come seminatori di odio e disordine tra la tifoseria, insomma prima di queste radio c’era una produzione calcistica televisiva locale di grandissimo livello: il già citato “In campo con Roma e Lazio”, telecronache in diretta e collegamento col campo tre ore prima della partita. 
Impossibile non citare il Professor Claudio Moroni, conduttore in solitaria di “Io e Monna Lisa”: questo qui stava seduto su una poltrona in stile neoimpero (finto), con un ritratto della Gioconda, con la quale dialogava parlando di Roma e di Lazio. Insuperabile quando se la prese con Carlos Bianchi, che chiedeva sempre ai giornalisti dopo una delle tante sconfitte della Roma se avessero mai giocato a calcio in vita loro, dicendo “Ah Bianci, e poi che ti chiedi sempre se uno ha giocato o non ha giocato a calcio?! Fatte li cazzi tua!!”. 
Il top era “Gol di Notte”, condotto da Michele Plastino (si fecero le ossa lì Sandro Piccinini e Fabio Caressa), grande estimatore del Profeta Boemo, che in quella trasmissione lanciò i primi attacchi sul doping. Quando Zeman passò alla Roma invecchiò di dieci anni in un colpo solo. Un sabato sera ho anche chiamato per partecipare ad un gioco dove si vinceva un orologio…l’emozione era tale che non risposi nel modo giusto.
Comunque queste televisioni locali offrivano un prodotto popolare e onesto: non c’erano inutili fighe rifatte da cartellone pubblicitario, filosofi del pallone e calciatori in pensione che facevano i tristi opinionisti, non ti scassavano la minchia con la moviola e c’era una cortesia di fondo tra conduttori, ospiti e ascoltatori. Nel contesto romano, il degrado culturale e la corsa al ribasso derivante da oltre trent’anni di berlusconismo televisivo ha portato, a mio avviso, alla sostituzione di quei programmi televisivi con le radio di oggi in stile Marione. A Roma, la mia impressione è che i tre quarti delle persone con cui parli di calcio per strada ripetono meccanicamente quanto sentono alla radio, senza alcuno spirito critico. Ho visto sempre meno quella leggerezza che vivevo nei primi anni da tifoso, e ho notato sempre più aggressività senza senso.
 

Tornando alla UEFA, il primo scoglio da superare ai miei occhi era insuperabile: il Benfica di Sven Goran Eriksson, sempre rimpianto anche quando è andato alla Lazio, che aveva qualche mese prima perso di misura la finale di Coppa Campioni contro il Milan stellare di Sacchi, Gullit, Van Basten e tanti altri. Quali speranze per la mia Roma contro i vice-campioni d’Europa? Non ne vedevo alcuna.
Era una squadra tosta quella Roma, che giocava un buon calcio all’italiana, di sostanza, senza brillare: a giocatori di cuore e quantità (il caterpillar Berthold, Sebino Nela, Fabrizio Di Mauro, Ruggiero Rizzitelli) ne univa altri di più o meno raffinata tecnica (il principe Giannini, Ciccio Desideri, Andrea Carnevale) e qualche fuoriclasse: Rudy Voeller, un rapace d’area di rigore stile Inzaghi ma non antipatico come lui (tra l’altro era il numero 9 della Germania campione del Mondo). C’era poi un giovane centrale difensivo brasiliano che giungeva proprio dal Benfica, proprio su suggerimento di Eriksson al presidente Viola: Aldair.
Uno spettacolo da veder giocare: abituato agli arcigni difensori italiani, questo qui si vedeva che veniva da un altro mondo. Non un difensore roccioso, particolarmente difficile da superare, ma una tecnica sopraffina, grande capacità di impostazione, personalità in campo e fuori, piede destro e sinistro equivalenti e un’eleganza naturale ad ogni pallone toccato…insomma, uno di quei difensori che con la palla tra i piedi fa impazzire gli attaccanti: stoppava la palla di petto, la metteva a terra sotto la suola, alzava la testa e faceva lanci millimetrici di 30-40 metri.
C’era poi un giovane, promettente e fortissimo portiere: Angelo Peruzzi, ma sappiamo come è andata a finire.
In panchina Ottavio Bianchi, allenatore del primo scudetto del Napoli: classico allenatore italiano e che gioca all’italiana nel senso tradizionale: marcatura a uomo con libero mascherato, ci si adatta alla squadra avversaria e si cerca di non prendere gol. Se capita ne facciamo qualcuno.
Torniamo al fine estate calabrese. Quel mercoledì sera mi reco al bar sportivo del paese, praticamente vuoto e chiedo al barista (panzone e coi baffi) se si può vedere la partita. “Quale partita…??” mi dice. “E’ la partita della Roma, la coppa Uefa….”, rispondo. Gentilmente e silenziosamente accende la TV, io mi siedo aspettandomi in cuor mio 90 minuti di agonia, e invece dopo 30 secondi dal fischio di inizio il miracolo: Carnevale la butta dentro su assist fortunoso di Aldair. Olimpico in delirio. Il resto della partita è un sostanziale assedio del Benfica ben orchestrato da Valdo, brasiliano dal piede vellutato, che trova però un insuperabile ostacolo in Peruzzi.
Si porta così a casa il risultato, che mi appariva una fragile assicurazione. Al ritorno a scuola, tra noi romanisti (ovviamente eravamo la maggioranza) giravano voci incontrollate su uno stadio, il Da Luz di Lisbona, impossibile da espugnare e difficilmente da uscirci indenne: a ricreazione facevamo la colletta, mi sembra 800 lire, per incaricare il bidello Ireneo, grande tifoso giallorosso con il poster dell’83-84 dietro al banco, di andare a comprare il Corriere dello Sport (a patto di lascargli il giornale a fine giornata).
Credo tra l’altro che sia stato in quel periodo che mi sia reso conto di quante minchiate spara il Corriere dello Sport.
Comunque arriva il giorno del ritorno (nel quale indossiamo un’interessante maglietta bianca con le scaglie giallorosse sulle maniche) e accade quello che sembrava impossibile: al 27° su incursione del tedesco volante, Giannini la mette dentro di ribattuta, sotto la curva dei tifosi romanisti. Il resto della partita scivola via con i portoghesi incapaci di imporre il loro gioco e la Roma a controllare la situazione. Al termine non ho più paura, non ho più timore: tutto è possibile per questa squadra.
 
Il turno successivo è preceduto da un evento che sconquassa l’ambiente a Trigoria e lascerà il segno per molto tempo: Peruzzi, già una certezza nonostante la giovane età, e Carnevale, comunque distinto attaccante che assicurava gol e qualità, vengono squalificati per doping. L’impatto è devastante, c’è chi grida al complotto, chi allo scandalo: sicuramente la società fa una gran bella figura di merda, consigliando ai due di giustificarsi in maniera ridicola, prima invocando una pasticca dimagrante presa per errore dalla mamma di Peruzzi dopo una scorpacciata di cinghiale (perchè poi invocare la magnata di cinghiale? Forse il carattere ruspante della presunta abboffata avrebbe reso la menzogna maggiormente credibile…), poi lamentando uno sciroppo contro il mal di tosse.
Un anno di squalifica (una mazzata…manco fossero stati cocainomani recidivi) e tante grazie. Alcuni dicono che ci sia stata dietro una volontà politica per mettere in difficoltà il Presidente Viola, ma un dato è certo: qualcosa di oscuro c’è stato; il controllo venne dopo un Roma-Bari, e sempre dopo un Napoli-Bari venne squalificato Maradona, essendo il Bari guidato da Antonio Matarrese. Solo coincidenze? Inoltre pare che proprio Peruzzi (che poi fu gentilmente regalato alla Juve, dove è diventato uno dei più forti portieri degli anni 90) e Carnevale fossero in quell’inizio stagione spesso sorteggiati dall’antidoping, come a volerli prendere in flagrante (la prima legge antidoping è arrivata subito dopo, sul punto vi consiglio i libri di Sandro Donati, "Campioni senza Valore" e  "Lo sport de doping", dove c'è un passaggio alla vicenda).


Col morale a terra la Roma si presenta a Valencia dove riesce a strappare un pareggio con una partita giocata in affanno (e un arbitraggio benevolo che ci grazia negando un rigore e annullando un gol al Valencia), grazie al gol di Ruggiero Rizzitelli, attaccante dai piedi scarsi e dal cuore grande.
Al ritorno all’Olimpico la squadra sta più in palla e riesce a sconfiggere 2 a 1 un modesto Valencia, grazie a Giannini che prende per mano la squadra e la guida per farla uscire dalle secche in cui si era incagliata.

Agli ottavi di finale ci ritroviamo contro il Bordeaux, semi sconosciuta squadra francese che si rivela avere una difesa scandalosa dotata di portiere citofono: complice anche un terreno di gioco che sembra quello di un oratorio e una serata freddissima che ghiaccia le mani del povero Bell (per la cronaca in quel Bordeaux giocavano Lizarazu e quel gobbo di Deschamps), ne riusciamo a fare 5 con tripletta di Voeller e doppietta di Gerolin. E’ una Roma in ripresa e il ritorno è una passeggiata, anche grazie al portiere Bell che pensa bene di sublimare la bella prestazione dell’andata facendosi espellere già nel primo tempo: finisce 0-2 con doppietta di Voeller e tutti felici!


Ai quarti di finale ci aspetta l’Anderlecht: squadra forte, più forte di noi. L’anno prima si era arresa in finale di Coppa delle Coppe alla Sampdoria campione d’Italia solamente ai supplementari: e invece con una prova pazzesca di tattica e agonismo la Roma gliene rifila 3: di particolare il 2 a 0 di Voeller su punizione, credo uno dei pochi o forse l’unico della sua bella carriera (culminata con la Coppa Campioni vinta col Marsiglia in finale contro il Milan di Capello e in coppia com Alen Boksic).
Il ritorno è una festa soprattutto per i tifosi in trasferta, che illuminano il grigio stadio belga e si godono la tripletta di Voeller, scatenato come una bestia….praticamente come tocca palla la mette dentro: risultato finale 2-3.
Per la semifinale sfida con una squadra danese assolutamente sconosciuta: il Brøndby (piccola cittadina vicino Copenaghen). All’epoca non era affatto strano che una squadra non nota e neppure particolarmente forte arrivasse in fondo ad una competizione europea: l’eliminazione diretta, anche in coppa Campioni e nella Coppa delle Coppe, poteva favorire squadre senza blasone che davano tutto per dieci partite l’anno e si ritrovavano alle fasi finali a giocarsi un posto nella storia. Oggi sarebbe impossibile.
In Danimarca pare che ci siano problemi di ordine pubblico: lo stadio è una bagnarola e basterebbero i tifosi in trasferta per riempirlo tutto. Non ci sono neanche le recinzioni, e le autorità danesi, preoccupate dal vitalismo latino dei romanisti, pensano (bene) di mettere le barriere al settore ospiti, col risultato di creare una gabbia per polli.
La partita è difficile e il Brøndby (in cui gioca il portiere Schmeichel) cerca in tutti i modi di segnare, ma la diga eretta da Bianchi e le parate di Cervone preservano uno 0-0 da giocarsi tutto al ritorno.


Qualche giorno prima della partita di ritorno comincia lo psicodramma: ce la fa l’infortunato Voeller a giocare o non ce la fa? La sua presenza è fondamentale: capocannoniere del torneo, la Roma si aggrappa a lui per arrivare in finale. A scuola il solito giro tra i banchi del Corriere dello Sport, fino a quando leggo la scritta a titoli cubitali che mi rassicura: “segno anche con una gamba sola”. Il tedesco giocherà, e sarà fondamentale: dopo il vantaggio di Rizzitelli e l’autogol di Nela (per la verità nel tentativo di rimediare ad una bella cappellata difensiva di Comi), durante un assedio scomposto, davanti al fantasma dell’eliminazione, riesce non so come a buttarla dentro in una mischia a due minuti dal 90°.
L’Olimpico è di nuovo in delirio.
Siamo in finale: c’è un posto nella storia anche per me.
L’Inter è più forte di noi e alla fine il 2-0 dell’andata - con un rigore inventato dall’arbitro russo su cui giravano strane storie di soldi e intermediari - li garantisce dalla finale di ritorno. L’uno a zero con gol di Rizzitelli non basta, e sette anni dopo la finale di Coppa Campioni dobbiamo subire un’altra finale persa in casa. La settima Coppa Italia vinta contro la Sampdoria campione d’Italia non servirà ad asciugare le lacrime, siamo su due piani completamente diversi. Nel frattempo la società passa di mano: il presidente Viola è morto e gli eredi cedono il pacchetto azionario a Giuseppe Ciarrapico.
Quella finale persa contro l’Inter è stata una mazzata durissima: ero convinto che ce l’avremmo fatta, non era pensabile che un’altra squadra avrebbe potuto alzare la Coppa nel nostro stadio. E invece successe. A 10 anni avevo sperimentato una delusione così grande da essere vaccinato per tutte quelle che ho vissuto in seguito, e non sono state poche.


E’ come se quella fantastica cavalcata nella coppa Uefa 90-91 mi abbia catapultato all’improvviso da uno stadio in cui il tifo è un passatempo piacevole ad uno in cui il tifo è fonte di emozioni fortissime: per questo sento un’empatia verso uno sconosciuto coetaneo tifoso sampdoriano, che l’anno successivo in finale di Coppa Campioni contro il Barcellona vivrà un’amarezza ancora più grande. Non ho vissuto il tuo dolore, ma ti posso capire benissimo.