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giovedì 19 settembre 2013

Confessioni di un milanista pentito

Il primo ricordo calcistico risale agli albori degli anni '90. Poco dopo Tangentopoli e poco prima del famoso videomessaggio "L'Italia è il paese che amo" per il Paese; poco dopo aver smesso con i pannolini e cominciato a mangiare cibi solidi, per me. Mio padre - d'ora in avanti, per brevità chiamato "il professore" - mi portò a vedere una partita dell'Ascoli, non ricordo contro chi, ma mi sembra che si vinse tanto a poco. Uscito dallo stadio credevo che la squadra della mia città fosse la Juve, una convinzione nata dal fatto che mio padre fosse - ed è ancora - il gobbo più fazioso e irredento che conosca. Per dire, secondo lui Calciopoli fu un grande complotto ordito da Inter, Telecom e controspionaggio sovietico. Alle ultime elezioni ha votato Grillo.


L'età dell'innocenza finì alle elementari, un mio amico mi disse che tifava Milan e io mi accodai senza starci troppo a pensare. Erano le memorabili stagioni di Tabarez, del Sacchi e del Capello bis: parte destra della classifica, scontri diretti contro il Bari. Ricordo come un mezzo trauma un tremendo 1-6 contro la Juve e quel titolo del Corriere della Sera: "La Juve spacca San Siro in sei". Ricordo i sorrisoni del professore davanti alle mie lacrime. Per reazione lessi il libro "Berlusconi in concert" che il Presidente degli italiani aveva spedito a tutti i suoi sudditi. La sera mi addormentavo sognando un Milan che seppelliva di gol la Juve. L'anno successivo i gobbi vinsero 4-1, con un netto miglioramento rispetto all'ultima volta, pensai.


Poi l'Ascoli stravinse un campionato di serie C e il mio amore per i colori rossoneri cominciò ad affievolirsi, fino a scomparire quasi del tutto, oggi. Posso anche individuare l'esatto momento in cui sbandai verso il Picchio: un Ascoli-Avellino 4-0, giocato di mercoledì sera, con autogol di Portanova dopo pochi minuti. Una certa fede milanista, ad ogni buon conto, la conservo per la Champions League. La notte di Manchester con il rigore di Shevchenko - e il professore che spegne la televisione appena un attimo prima che Maldini alzasse la coppa al cielo -, la disfatta di La Coruna, la "partita perfetta" contro lo United (Kakà-Seedorf-Gilardino, per gradire), la maledetta finale di Istanbul, la vendetta di Atene, il gol di Adebayor che segnò il tramonto di quella squadra leggendaria. Intendiamoci, quando l'Ascoli tornò in serie A e all'esordio beccammo quel Milan, insultai gli undici rossoneri per tutta la partita, esultai come un matto al gol di Cudini, maledissi Sheva per quel tiro rasoterra che pareggiò l'incontro. 

Al ritorno bestemmiai contro la lumaca Adani che inseguì Inzaghi per mezzo San Siro senza riuscire a prenderlo, nell'unica azione solitaria conclusa con un gol della carriera di Super Pippo. Marco Giampaolo - allenatore di quel Picchio che si salvò magnificamente nella stagione di grazia 2005/2006 - rimane un modello di vita e di calcio, ma devo ammettere che il mio cuore è ancora tutto di Carlo Ancelotti. L'albero di Natale e i belli di notte, le partite che non potevi sbagliare e finivano sempre in trionfo. Quando se ne andò via, divenni un antiberlusconiano ancora più convinto di quanto non fossi. E già avevo letto l'intera bibliografia di Travaglio, e pure qualche testo apocrifo. Adesso vedere tal Valter Birsa al posto di Seedorf e Constant al posto di Serginho mi mette tristezza più di un Enrico Letta modello padre dei popoli alla festa dell'Udc, che, allargando le braccia, dice: "Chi è contro il mio governo è contro l'Italia". 


Queste confessioni di un milanista pentito finiscono con un sms, inviato a una ex ragazza dopo aver visto il Milan di Allegri eliminato dal Tottenham con un mesto zero a zero londinese: "Mi manchi come Ancelotti".

martedì 25 settembre 2012

“Dai che ci salviamo anche quest'anno”. Una vita sotto zero.

Da queste parti ci siamo abituati. Sono anni, ormai, che non cominciamo il campionato con zero punti come la maggior parte dei diligenti partecipanti alla serie B. Anzi, quest'estate abbiamo anche esultato quando ci hanno comunicato che saremmo partiti soltanto da -1.
I più entusiasti - quelli che vanno in tribuna coperta per mangiare al buffet dell'intervallo o in curva per cantare con le spalle al campo -, al bar già sognavano in grande: “E allora puntiamo ai play off”. “Praticamente siamo già in serie A”, "Non ci ferma nessuno", e via delirando.
Facili entusiasmi.
Insomma, quando vivi una vita di miserie e ingiustizie, la volta che te la cavi con un ceffone solo pensi di essere a un passo dalla svolta. Meno male che al bar c'è chi le cose se le ricorda, chi frequenta i distinti e guarda la partita, chi tira avanti vergognandosi del fatto di rimpiangere attaccanti del calibro di Marco Bernacci. Sì, Marco Bernacci. “Vuol dire - dissero i cinici guardando il fondo del bicchiere di Campari vuoto - che quest'anno possiamo perdere due partite in più del solito”.

E' dura l'esistenza del tifoso dell'Ascoli. “La regina delle Marche”, titolo nobiliare che sa di muffa più che di aristocrazia. Noi sì, noi siamo quelli che mandarono via Bierhoff perché era grasso. E il buon Oliver vinse gli Europei facendone due in finale alla Repubblica Ceca, poi fece più gol di Ronaldo in campionato, poi andò al Milan e vinse lo scudetto. Quello lì, il ciccione tedesco.
Noi che una volta l'anno ci mettiamo i calzini rossi per ricordare il più grande filosofo analfabeta (è un complimento, davvero) che la Storia ricordi, Costantino Rozzi. Noi che ogni anno ci dobbiamo inventare una squadra, che il nostro capitano si chiama Di Donato e in campo non lo riconosce mai nessuno. Noi che abbiamo dato i natali calcistici a Mazzone, e lo evochiamo in panchina ogni volta che perdiamo tre partite di seguito (e non succede così di rado). Anche oggi che Carletto si approssima agli Ottanta.

Carlo Mazzone in un momento di assoluta serietà

Noi che siamo un po' scemi, un po' sfigati e un po' fortunati della fortuna che bacia a volte solo gli sfigati più sfigati. Era il 28 agosto del 2005 quando l'Ascoli - appena ripescato in serie A per una clamorosa serie di coincidenze - si apprestava a ospitare il Milan di Ancelotti, quello con Kakà, Shevchenko, Seedorf e via discorrendo. La squadra era stata assemblata in un quarto d'ora, visto che fino a due settimane prima di questa partita eravamo in serie B. Così, un Foggia di qua, un Ferrante in saldo, uno Bjelanovic preso in prestito, un tale chiamato Quagliarella, un vecchio marpione come Adani, qualche giovane di incerte speranze. Il massacro era annunciato. “Se non ce ne fanno più di tre, è un successo”, dicevano al bar quelli che ne hanno viste tante e quell'anno rimpiangevano Colacone e Bucchi.

Andò che il cielo butto giù un diluvio universale e il Milan s'impantanò. Anzi, all'inizio del secondo tempo a buttarla dentro fu Mirko Cudini, uno che in serie B faceva la panchina. Dio benedica la pioggia, la marcatura strettissima di Lauro (chi?) su Kakà e Nelson Dida, che tanta gente ha reso felice durante la sua carriera.
Poi, vabè, Shevchenko pareggiò con un tiraccio da fuori, ma quell'uno a uno ebbe lo stesso effetto di un'apparizione della Madonna. L'armata Brancaleone che ferma l'aviazione americana. Per non citare il solito Davide che stende Golia. Qualcosa del genere, comunque.
Quell'anno lì, poi, andò tutto bene: ci salvammo con largo anticipo e giochicchiavamo un discreto calcio. E' per questo che ad Ascoli il nome di Marco Giampaolo fa ancora scaldare i cuori.

E il Milan s'impantanò ad Ascoli..

L'anno dopo, ovviamente, tornammo nell'inferno da cui provenivamo, senza nemmeno lottare troppo. Tesser prima e Sonetti dopo non riuscirono a salvare una squadra la cui difesa si reggeva su Nastase e Pecorari. Da lì, cominciò il nostro valzer: meno cinque, meno sei, meno sette, meno due... Si parte sempre in apnea, si arriva a novembre in fondo alla classifica - staccatissimi da tutto e da tutti, in coma profondo, senza possibilità di risveglio -, poi si cambia allenatore, si continua a perdere per un po' e alla fine si attacca a vincere. I biscotti di maggio fanno il resto: è salvezza. Passano tre mesi d'estate e si ricomincia, penalizzazione, novembre da schifo, cambio di allenatore, rimontona, biscotti, salvi.

Ecco perché quando la settimana scorsa ne ho presi tre dalla Pro Vercelli non mi sono preoccupato più di tanto. Siamo sempre allo stesso punto, corriamo sul posto e vediamo il mondo passare. Il nostro campionato è sempre uguale. Non vi preoccupate, ci salveremo anche stavolta. E se il Milan continua così, lo rivediamo l'anno prossimo.

mercoledì 18 aprile 2012

LAMENTO PER LA MORTE DI CARLO PETRINI

Friedrich Wilhelm Nietzsche
Nulla sa dell’amore chi non è stato costretto a disprezzare ciò che ama.

Capitava che avevo vent’anni ed ebbro di rhum e libertà pensavo che un’occasione lasciata, dopotutto, è irrimediabilmente persa.
Pensavo che nulla torna e nulla è per sempre. Per troppe notti, nessun tempo per i rimpianti, poi una di troppo, il suo amore gettato sul letto, io in lacrime e così patetico per un’ora buona, come un bambino, senza alcuna liberazione, soffrivo.

Carlo Petrini, calciatore, uomo di merda e scrittore, uomo d’amore e di sconfitta, uomo che ha amato e perso lacrime, certo moltissime, e occasioni, certo moltissime. Centravanti si nasce e dopotutto non è detto sia gran fortuna. In area di rigore, il compiuto mai abbandona. Prima velocissimo si ha. Poi si fa moviola. L’errore diventa fatale, la fortuna talento. Bisogna farsi vuoti, per fare i centravanti. La gioia del bomber si mangia la gioia del terzino. Egocentrico è spesso il modo più gentile con cui appellare l’egoista. Il centravanti è l’uno per ruolo e l’altro per natura. Le riflessioni, servono poco. Nel dubbio, para il portiere.

Carlo Petrini
Carlo Petrini prometteva bene. Attaccante di serie A, dal Genoa al Torino fino al Milan di Rocco e alla Roma di Liedholm. Infortuni, dolori, amori e dissapori. Storie già letta e già sentita, di testa di mulo che non sfonda ma nemmeno va poi male, fino alla maglia rossoblù, in una bellissimamente torbida Bologna 1980, anno fatale dello scandalo scommesse in cui Petrini annega e risorge fenice incompiuta e redentrice. Dopo tre anni di squalifica le ultime canzoni nelle piazze deserte di Savona e Rapallo.E’ un uomo finito. Non si chiama Paolo Rossi e il calcio, in gran segreto, lo guarda anche il Papa.

Non resta che vendere la Porsche e improvvisare affari, imparando dai furbi la furbizia fino a scoprirsi fesso in mano a debiti e usurai.

Né essere, né nulla, il fu Carlo Petrini lascia e va a fuggire. Un uomo in meno, doppio e solo nel desiderio: di dimenticare, ed essere dimenticato. Il nascondino dura poco. Il figlio del fu Carlo Petrini si ammala di tumore e di tumore muore senza il conforto del padre. Un vita se ne va e nascono poesie nel fango del Dio Pallone, opera prima di una fine, come la rovesciata improvvisa che si stampa sul palo negli ultimi minuti di una partita già persa.
Il Dio Pallone dirà di lui: un barbone, un poverino, un disperato, un “dai lascialo perdere”. Povero pazzo da panchina.

Scrive Petrini la sua valanga di merda contro il Calcio, e cosa nasce dalla merda è cosa nota. Sputa Petrini la sua bestemmia, invocazione disperata al proprio Dio affinché punisca, e così punendo torni a manifestare il Verbo. I suoi errori, quelli voluti e quelli subiti, il doping, le scommesse, la miseria morale, le troie, il denaro. Viaggio al termine della Partita e dei lunghi tempi supplementari. Ma Petrini è un uomo e il Calcio è un Dio. Milioni di fedeli e centinaia di Chiese. Cosa importa al Dio Pallone delle miserie di un uomo. Cosa al gregge, della pecora nera?
Petrini si scopre malato dello stesso tumore che ha ucciso suo figlio. Miraggi. Si crede di perdere l’innocenza quando si compie il peccato e invece l’innocenza non è mai stata. Quando si perde, allora del perduto si ha ricordo e l’ innocenza si inventa, per dire cosa prima non era e avremmo voluto che fosse. Il calcio scommesse del 1980, peccato impossibile dell’ Italia Calcistica venduta vergine per maggior prezzo di puttana. In cuor di molti, l’ Eden pallonaro non è mai finito. La Casa chiusa è ancora aperta. Adamo mangia mele cedendo alle proposte di un serpente generoso. Era in un loft, gli altri più grandi lì con me sul divano nella stanzetta a parte, a far filosofia del culo e del calcio fra una sniffata e una vodka. - ma guarda che Shevchenko è gay!- mi dice lui, al tempo modello presso rinomata agenzia milanese. Io argomentavo sulla cessione dello Sheva al Chelsea come un qualsiasi contadinello cresciuto a pane e gazzetta. - ma lascia perdere! - diceva il modello - lo prende da uno che lavora con me. Sua moglie s’è rotta il cazzo e se lo porta a Londra, almeno li separa!

La storia va avanti, ricca di dettagli che ometto in base a un forse non del tutto sincero “infondo chi se ne frega”. Anni dopo avrei riletto la stessa storia in uno degli ultimi viscidi libri di Petrini. Buffa coincidenza o prova della verità? Due indizi, al mio paese. Il Petrini morente. Sesso sesso e soltanto sesso. Scopate omosessuali e puttane. Il cazzo di Coco e di Nani. Ronaldo, il Fenomeno, che si piscia a letto ogni notte, come quel cretino di Carletto, di cui rimando a nota canzonetta. Infondo chi se ne frega. Infondo non è nulla di nuovo. Infondo si scandalizza chi non conosce la realtà. E dunque cos’era questo Petrini? Un rancoroso, meravigliosamente senza maglia e senza bandiera. Una vendetta vivente lacerata e corrosiva. Ma andiamo, che c'è dignità pure nel raccontare la rogna, se è questione di salvarsi la pelle. Si può, di fronte la morte, pure capire, questo Petrini che innamorato dell’ Odio odia contro il Calcio e contro il Calciatore suo gemello e prossimo.

Scrive Carlo Petrini, il tema delle elementari dal titolo "Il Calcio è sporco" che colpisce e fa storcere il naso, perchè dai bambini vorremmo leggere solo le favole. Le belle favole dei libri bestseller dei Gattuso e degli Ibrahimovic, dove tutto avviene per virtù dell'editor o di altro spirito santo, e la confezione è perfetta: il sacrificio è premiato e i buoni sono ben distinti dai cattivi, la buona novella di sport è servita. Il doping è peperoncino e la cacca cioccolata. Pura et illibata è la vulva del Campionato, sebbene faccia gnocchi col sedere e con la bocca nodi complicati.
Petrini è uno scrittore ed è giusto scriverlo. Anche se poi, quel libro, non l'ha scritto lui. Non importa. Scrittori si è nell'odio accecante che è l’origine di ogni scrittura. Si fa il patto con la Morte venuta a bussare: visto che sei qui, prima di andare ti racconto un po’ le sconcezze della Vita. Letteratura e malattia. Parole per curare, al di là del bene e del male, la carogna di Carlo decomposta e innamorata, a noi offerta per sfamarci come iene, che iene siamo, e vogliamo ridere mentre scanniamo il pasto freddo . Ogni confessore, sia anche confessato, visto che siete qui lettori per adulare il Calcio, sappiate che Petrini il Giuda non ha mentito mai e mai ha tradito altri che il suo Dio. Che colpa ha, se non poteva non farlo?

Tradire Dio è un miracolo al contrario.

Così parlò Petrini.
Il Calciatore suicidato, sul caso Bergamini. L' indagine è oggi riaperta,vedi Ris di Messina e perizie annesse.
Così parlò del doping prima del doping, e degli scandali, anticipati e mai cessati, recenti e quotidiani, di zingari e Doni, di Moggi e pasticciacci brutti vari.
E poi c’è la mediocrità morale, il Campione ridicolizzato. E la reazione del pallonaro, spesso tifoso e dunque a cavallo fra l’innamorato il credente, altrettanto ridicola.
Cosa vuole questo Petrini qua, che ci racconta a fare? Scopre l’acqua calda che però ci scotta le mani, Carlo Petrini. L’indignazione è omessa, per l’altarino scoperchiato. Importa se Sheva è gay? Forse che sì forse che no, mon hypocrite lecteur. E' una sottile questione fra etica, estetica e seduta dal parrucchiere in settimana.
Merda, questo volevamo mangiare. Perdere l’innocenza per innalzare crocifissi e intonare messe. Perdere il Dio Pallone e poi spaventati, correre a negare, rafforzando la fiducia nella sua Chiesa, unica manifestazione, ipocrita e criminale, del primo credo calcistico perduto. Salvare il rito, sacrificando il Sacro. Questo è lo scandalo mai perdonato dal Petrini. Essere stato più Vangelo che eresia, essere più traditore che pentito, più profeta che mercante. Troveremo ancora pecore nere e ne faremo agnelli sacrificali. Troveremo angeli deficenti e ne faremo diavolacci. Il Paradiso del Dio Pallone non deve conoscere fango e non deve conoscere tregua.

Vorrei l’infinita rabbia di Carlo Petrini sparsa come sale sul terreno, affinchè muoia l’erba e torni lo sterrato. Vorrei dire che Carlo Petrini è morto e neanche il Calcio sta molto bene.