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giovedì 15 aprile 2010

Viaggio calcistico-sentimentale nella Pianura Padana

Adesso che ho quasi terminato il mio terzo decennio di vita, se è forse presto per trarne dei bilanci, posso comunque azzardare qualche osservazione sulle cose, le storie, i colori a cui lego per qualche motivo - anche futile; molto spesso futile - la mia esistenza.

Il calcio e le squadre di calcio, e tutto quello ci gira attorno, sono di certo un ingrediente fondamentale della mia madeleine. D'altronde devo ammettere che per tanti anni il pallone è stato praticamente il mio unico ambito d'interesse; e anche adesso non è che ne abbia molti di più (fondamentalmente ne ho un altro; e basta). Per la sua stessa vastità, è ovvio che il calcio sia un argomento che a sua volta si frastaglia in tanti settori e rivi: c'è il calcio che ho giocato, quello che ho visto, quello che ho sognato, quello che ho percepito. Questi ricordi possono a loro volta essere divisi o aggregati per affinità, per argomento, secondo un ordine temporale: ad esempio quello accennato sopra dei tre decenni della mia vita.

Parlerò allora di tre squadre che appartengono a luoghi a me, uomo di alta collina centroitaliana, totalmente estranei e quasi incomprensibili, ma che in qualche modo hanno accompagnato, sia pur in disparte, la mia esistenza. Giacché l'argomento è abbastanza vasto e la mia memoria non è più quella di una volta, tratterò solo dei loro attaccanti, che sono quelli che più stuzzicano la fantasia e la letteratura.

La prima squadra è l'Hellas Verona, che situa la sua maggiore gloria e la sua prima apparizione nei miei ricordi negli anni Ottanta: credo anzi di aver donato ai veronesi, all'età di quattro o cinque anni, il mio primo tifo, prematuro e istintivo, dovuto soprattutto a quei colori gioiosi e piacevoli, abbastanza rari in Italia. A Verona sono stato soltanto di passaggio o per singole e rapide giornate; mi immagino le veronesi come donne magre ed eleganti, di tratti nervosi, attraenti ma decise e quasi aggressive, probabilmente bionde: donne che insomma, arrivato alla mia età, tenderei a giudicare troppo faticose. Ma non è di donne che debbo parlare, e soprattutto quando ammiravo la squadra di Bagnoli l'esistenza stessa di un altro sesso e i motivi per cui un giorno questo mi avrebbe attratto mi erano totalmente ignoti.

L'Hellas che vive nei miei ricordi è soprattutto quello delle stagioni successive al suo glorioso scudetto: un Verona in decadenza, ma che manteneva e difendeva la sua nobiltà incarnandola nella potenza nordica di Elkjaer più che nell'agilità non sempre efficace di Galderisi. Il Verona è per me buie domeniche invernali di fine anni Ottanta e pomeriggi passati in auto ad ascoltare la radio, oppure lunedì pomeriggio dopo la scuola in cui leggevo dai caratteri ancora goffi e grossolani dell'Unità i resoconti del giorno prima. Dell'Hellas ricordo con favore la seconda maglia, negativo della prima, gialla a striscioline blu (mi piaceva di più, era meno cupa), o quella a quarti gialloblù, da Palio medievale (e d'altronde Verona è una città compiutamente medievale, e lì affonda il proprio mito storico e letterario). Ricordo poi del Verona anche la maglia a righe con cui riemerse dalla prima sorprendente serie B, pronta a riprendersi la propria nobiltà schierando il talento cristallino di Piksi Stojković; la fragilità di quel campione, unita alla ridicola imprecisione del giovane Raducioiu, frustrarono quel disegno. Ma siamo già agli anni Novanta, che avrebbero visto un Verona sempre più precario e in disarmo, il Verona che si affidava ai gol di onesti mestieranti come De Vitis e Aglietti o di promesse non del tutto mantenute come Adailton. Solo a fine 2003 mi sarebbe capitato di assistere ad una partita in un Bentegodi immerso in un brumoso pomeriggio invernale: ma mi sarei trovato davanti il Chievo, quasi a voler simboleggiare la caducità delle glorie umane, anche delle più luminose (e quel Verona fu uno squarcio di luce gialla e blù - certo non l'unico - nel noioso bianconero degli anni Ottanta). L'Hellas Verona era retrocessa l'anno prima, senza più rivedere per ora la A; paradossalmente, l'ultima stagione ai massimi livelli era stata anche l'unica in cui finalmente si erano rivisti a guidare l'attacco gialloblù campioncini giovani e rampanti come Mutu e Gilardino. Ma a volte il calcio è crudele, o solo strano.

Se gli anni Ottanta e la mia infanzia sono consacrati - va bene, in parte - all'Hellas, gli anni Novanta appartengono all'incredibile grigiorosso della Cremonese. A Cremona, invece, non sono proprio mai stato: me l'immagino come una città di mattoni ridenti, in mezzo ad una terra grassa e giocosa; e le donne di Cremona devono essere allegre e carnali, donne che vale la pena di incontrare quando si è giovani e si hanno infinite energie da destinare all'altro gioco che rallegra la vita degli uomini. La Cremonese ha navigato per anni tra A e B come un oggetto incongruo, con un'incoscienza e una serenità uniche nel nevrotico panorama del calcio italiano: a Cremona la gente era tranquilla e conscia della fortuna che le era capitata, a trovare una squadra così, capace di regalare certe soddisfazioni non da poco ad una piccola città. Perlomeno, questa era l'impressione che si ricavava: d'altra parte la Cremonese è per me associata agli esordi di "Quelli che il calcio", ad un calcio garbato che forse non esiste più.

La piccola Cremonese, ad ogni modo, non è stata priva di glorie calcistiche: non si può dimenticare Gustavo Abel Dezotti, che retrocesse - non certo per sue colpe - con la maglia grigiorossa nella primavera del 1990 e all'inizio dell'estate giocò una finale mondiale, per poi ritornare in Lombardia a regalare molte altre gioie ai suoi tifosi; né, tornando indietro di qualche anno, quel Gianluca Vialli cresciuto in casa e votato in seguito a grandi imprese in maglia blucerchiata. Negli anni '90, poi, brillò la stella di Enrico Chiesa e quella brevissima e meno vistosa, ma degna di lode e di affetto, di Anders Limpar: uno scandinavo tanto minuscolo da non sembrare credibile come tale, il quale però sapeva parlare alla palla e riusciva a farle fare cose notevoli, che nella mia mente e in quella di altri calciofili un po' romantici sono certo vivano ancora. Limpar, lo scandinavo piccolo e tecnico che purtroppo non si affermò in Italia, ma che ebbe poi ben diverso destino all'Arsenal, ebbe in un certo senso un erede e un vendicatore in Yksel Osmanovski, che qualche anno più tardi avrebbe formato al Bari di Fascetti una coppia perfetta con Phil Masinga (una coppia quasi da telefilm americano, per il suo essere improbabile, politicamente corretta e comunque molto efficace).

Ma il più incredibile di tutti, forse il più cremonese nel senso storico, lombardo e longobardo del termine (benché fosse romagnolo, oltretutto di Rimini), era Andrea Tentoni. Tentoni era probabilmente l'unico calciatore italiano, o comunque l'unico di cui mi resta precisa memoria, che giocasse perennemente con la maglietta aderente a sottolinearne il fisico da campagna e da balera. Robusto, non propriamente muscoloso, massiccio, non propriamente armonico, somigliava ad uno di quei contadini che nei secoli hanno trascinato l'aratro per la fertile terra lombarda. O ai loro buoi. Dava sempre l'impressione di essere destinato, qualora avesse voluto segnare, a entrare in porta con la palla, sbuffando, ché non si vedeva in che altro modo avrebbe potuto metterla dentro; e invece non era così, ché in quanto ad efficacia e produttività il grosso Tentoni dimostrò di potersi benissimo inserire a fianco dell'elegante Limpar, del glorioso Dezotti e del fulminante Chiesa, quanto almeno al contributo dato ai grigiorossi. La Cremonese era una squadra di contadini e signori (Gigi Simoni, che di quella stagione di successi fu il simbolo, riassumeva in sé il meglio di entrambe quelle caratteristiche), una squadra che era dov'era soltanto per i propri meriti, e che onorava con il gioco il palcoscenico che si trovava a calcare. Davanti alla Cremonese dovevi toglierti il cappello.

Purtroppo la gloria di quella società era una sola cosa con la vicenda umana del suo artefice, quel Luzzara ultimo dei grandi presidenti di provincia (il meno pittoresco, forse, ma non il minore. Tutt'altro): come lui invecchiò e decadde, prima della fine degli anni Novanta. Oggi la Cremonese vivacchia in terza serie, non riuscendo a lasciarla nonostante cospicui investimenti: e dà quasi l'impressione di non voler tornare a maggiori imprese, ora che non c'è più l'uomo che per primo le rese possibili. L'ultimo centravanti cremonese che mi ricordi è Gioacchino Prisciandaro, il pugliese dal volto antico arrivato troppo tardi alla gloria del professionismo; ma Prisciandaro, per definizione, era un eroe da campi di provincia.

Tuttavia, anche nel calcio esistono gli equilibri; e se la Cremonese sprofondava nella liquida pianura lombarda, qualcuno doveva prendere il suo posto. E qualcuno venne.

Mantova è un sogno che emerge dalle sue acque, eppure mantiene un'umiltà e un tono misurato che raramente appartengono ai sogni. Le donne mantovane sono miraggi gentili, belle come se non fossero vere, fatte di riflessi sull'acqua e di finissimo cristallo, eppure dolci di carne e di sguardi. O almeno mi piace pensare che sia così. Le donne mantovane sono donne compiute, possibili approdi e porti tranquilli, in cui forse val la pena fermarsi. L'Associazione Calcio Mantova, lungi dal godere di una tale stabilità, ha invece lottato molti campionati e molte volte ha fallito, per riemergere infine e rivedere la luce dei campionati, se non proprio di vertice, almeno prossimi all'Olimpo della A. Perciò in me l'immagine del Mantova, nonostante l'ultimo quinquennio di serie B, con rispettabili glorie e ricchi investimenti, resta quella di una compagine di provincia sempre invischiata nel fango di qualche campetto perduto nel limbo della C2, coi tifosi pazienti ad attenderne l'inevitabile riscatto.

Il Mantova, giova ricordarlo, occupa un posto non di pochissimo conto nella storia del calcio italiano: fu il "piccolo Brasile" di Edmondo Fabbri, la prima squadra italiana di Schnellinger e Sormani, la tomba della grande Inter tradita da una papera del suo portiere, quel Sarti con cui inizia la filastrocca che tutti conoscono (Sarti Burgnich Facchetti...). Alla fine degli anni Novanta e nelle prime stagioni del nuovo millennio, tuttavia, dopo una lunga e complessa trafila di tribolazioni sportive e societarie, il Mantova era ancora imprigionato in C2: e la sua eterna permanenza sembrava simile ad un supplizio di Sisifo, giacché ogni anno pareva l'anno buono, ogni anno la squadra inanellava una serie di prestazioni che davano fiducia, ogni anno si avvicinava ai play-off o li coglieva; e ogni anno frustrava le proprie ambizioni con un paio di mesi senza vittorie, oppure gelando il Martelli con una sconfitta interna decisiva, o ancora annichilendo la passione dei propri numerosi supporter in una qualche trasferta su campi affollati da poche decine di tifosi di casa.

Di conseguenza, gli attaccanti del Mantova erano più lottatori che giocolieri; il più tipico era senz'altro Pupita, uno che probabilmente scendeva in campo con l'elegantissima maglia fasciata di rosso già sporca di terra e sudore, ché non potevi immaginartelo altrimenti. Pupita veniva dal Montefeltro, che è sempre stata terra di guerrieri (le biografie indicano Urbania come suo luogo di nascita; ma io, forse sbagliando, l'ho sempre accostato, più che all'armoniosa Casteldurante, alla discosta e fiera Sant'Angelo in Vado), né lui faceva eccezione a quella regola. In 146 partite in maglia biancorossa, Paolo Pupita ha messo a segno quindici reti; nonostante le cifre, il giudizio su di lui da parte dei tifosi mantovani non è affatto impietoso. Segno che comunque i veri tifosi continuano ad amare le maglie sporche di fango.

Anche il più fortunato o più capace Graziani, ad ogni modo, aveva già nell'apparenza le caratteristiche evidenti dell'attaccante da serie minore: i capelli lunghi, il volto segnato, una certa goffaggine nei movimenti ne facevano un perfetto esemplare di bomber di C. Sulla stessa linea, peraltro, si può ricordare anche Denis Godeas, il quale, pur essendo indubbiamente attaccante di ben altro livello, incarnava nella corsa, nel volto, perfino nel nome un meraviglioso stereotipo cui tutti noi siamo indubbiamente affezionati. Quasi che, anche giunto a pochi passi dal Paradiso (mi trovavo a Norimberga, una sera del 2006, e ascoltavo per radio la finale di ritorno per l'accesso alla serie A; ebbene, anche dalla radio e da Norimberga, e pur non avendo particolari motivi per simpatizzare per i virgiliani, si capiva che in quella partita stesse accadendo qualcosa di strano), il Mantova volesse riaffermare orgogliosamente i suoi legami con il calcio faticoso ma epico delle serie inferiori. Con i quali, purtroppo, la squadra flirta pericolosamente in questi ultimi mesi; ma per ora quest'ultimo resta il decennio del Mantova, delle promozioni a lungo attese, del River Plate del Mincio e del suo sogno non del tutto accantonato di riemergere definitivamente dalle paludi e dalle nebbie e di mostrare al mondo, anche nel calcio, la bellezza di una città e della sua provincia. Questo, fino a prova contraria, è il decennio del Mantova.

Per i prossimi si vedrà.