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lunedì 24 ottobre 2011

Sui calciatori italiani, i Pulp, Albert Finney, il sesso, l'urbanismo e la lotta di classe

giovani incazzati
Leggo in un bellissimo saggio sui Pulp ("Uncommon", di Owen Hatherley, edizioni Zero Books) - libro che per inciso consiglio a tutti quelli che come me sono cresciuti nel mito di Jarvis, prendendogli un colpo all'età di quindici anni mentre su Videomusic passava il video di This is hardcore con le ballerine, le piume e il "that goes in there, that goes in there" sussurrato con nonchalance, a tutti quelli che sono venuti fuori dalle "side-lines" del conformismo culturale liceale, e che come me hanno scoperto quanto sia breve il passo dalla noia del paradiso, della gloria domestica e sociale (His 'n' Hers e A different class) al disincanto dell'inferno, dell'amateurismo non solo sessuale (This is hardcore), chiuso l'inciso - questo aneddoto sul grande attore inglese Albert Finney, indimenticato protagonista della magica stagione del free cinema (imperdibile la sua interpretazione di Arthur Seaton nella trasposizione del capolavoro di Alan Sillitoe "Saturday night and sunday morning", al riguardo consiglio di tenersi alla larga delle sciroppose edizioni della Minimum Fax che vorrebbero trasformare Sillitoe nell'ennesima icona pop working-class da esibire a cena con gli amici sulle terrazze politically correct di Monteverde vecchia):
"When Albert made his million on Tom Jones and went on his sabbatical trip around the world, he stopped in Acapulco. One evening he was drinking Dom Perignon on a balcony with the most beautiful girl in Mexico. He took her into the bathroom and put his cock into her. With every thrust, he said, out loud: 'That's for Dad, and that's for Mum, and that's for Uncle Ted, and that's for Cousin Jim, and that's for Auntie Marron...'. A whole working-class family shared that fuck".
Mi domando allora se la classe sociale rappresentata dai calciatori italiani, ragazzi nostri coetanei che come Albert Finney, come Jarvis Cocker, come l'intera generazione che si è sentita rappresentata dagli angry young men prima e dai Pulp dopo (e in un certo senso, meno sofisticato, sull'altra sponda del britpop, dai cori da pub tutto sommato ottimistici degli Oasis e dal teddy-boyismo da bank holiday a Cipro dei Boys and girls inneggiati dai Blur) sono cresciuti dal basso, dai margini, dalle side-lines del proprio ambiente sociale e culturale (e in molti casi anche economico), abbia saputo declinare in modo originale l'eterna sottocultura racchiudibile nella trinità "sesso, classe e urbanismo", la variante giovanile della lotta di classe, del sex-as-revenge, dell'appartamento nel quartiere in come riscatto dal monolocale di borgata, che in tanti modi ci hanno tenuto fuori dalla festa, dall'establishment, dalle scelte che contano. Mi domando, per farla breve, se quando Marco Borriello si scopava Belen Rodriguez, o Alessandro Matri la sua velina, ovvero, per i più nostalgici, Maini la Merz e così - beati loro - all'infinito, scopavano con coscienza di classe, riscattando generazioni di parenti che si sono dovuti accontentare della cugina sciancata, oppure no.

Il mondo in cui vivono i calciatori è un mondo in cui non sono stati invitati. Non è un mondo pensato per loro. E' un mondo costruito da altri, in cui i calciatori svolgono lo stesso ruolo ornamentale delle black panthers nei salotti della upper west side magistralmente descritti da Tom Wolfe. Ma questo lo sanno? Quando un Christian Brocchi, uno cui la vita non ha dato quasi nulla, neanche un collo (e lo dico al di là del derby, Brocchi è un feticcio storico per me e Nesat), uno che senza il calcio avrebbe potuto aspirare giusto ad essere un personaggio dei raccontini di Maurizio Milani, passa l'estate da re a Formentera, si porta a letto le più belle ragazze dell'isola, paga con la carta di credito in tutti i ristoranti, viene vezzeggiato e coccolato, pensa - anche solo per un attimo - alla rivincita sociale che sta mettendo in atto? Ad ogni forchettata di sushi a bordo scogli, pensa alle generazioni dei suoi avi cui la carne bovina è stata preclusa? Ad ogni bollicina ingurgitata a corso Como, pensa alle mani callose dei suoi parenti che a inizio secolo disossavano la pianura Padana? Ad ogni movimento avanti e indrè della bella sconosciuta inginocchiata, pensa agli amici del baretto che giocano a tresette fissando per ore le orride costruzioni dell'edilizia periferica degli anni sessanta italiani? E soprattutto, lo pensa con gioia, cinismo e avidità, quei sentimenti che proviamo tutti quando riusciamo ad intrufolarci in un buffet e ci riempiamo le mani e la bocca di pizzette, sapendo che potrebbero cacciarci da un momento all'altro?

Sesso, classe e urbanismo, dicevo. Sesso come grimaldello per uscire dalla propria condizione, come veicolo di risentimento verso l'alto. Ed allora il vero atto eroico è quello di Speroni che nell'allenatore nel pallone si porta al letto la moglie del presidente. Quanti calciatori l'hanno fatto? Quanti vanno alle cene con gli sponsor e si portano a letto la moglie del banchiere, del professionista, del medico che gli rimette a posto il ginocchio? Mentre il marito esulta in tribuna per la rovesciata del centravanti nel sette, quante mogli bagnano il divano pregustandosi un altro tipo di rovesciate? Quanti fanno come Eto'o, che alle ragazze che volevano intrattenersi con lui diceva "va bene, ma prima devi fare un pompino al mio amico"? Quanti organizzano le orge di benvenuto ai compagni come fecero a Manchester con i neo-arrivati Nani e Anderson? Dov'è l'hardcore? Dov'è il cafonal? Perchè invece i calciatori italiani si fanno tutti ingabbiare dalla logica della sciacquetta che li aspetta nel privè del locale senza mutandine, o che si avvicina al tavolo del ristorante alla moda di Ponte Milvio e delicatamente fa cadere il tovagliolo a terra per potersi chinare a raccoglierlo? Dalla smandrappona televisiva? Dalla storia patinata con la bionda con due neuroni? Stimo molto di più - i nomi non si possono fare, peccato - quelli che si comprano i pied-a-terre ai Parioli, i capitani che si fanno beccare dalla moglie a letto con la sua migliore amica, i compagni di squadra che si scopano la moglie del compagno - come Scajola - a loro insaputa. Dirò di più: allora stimo più chi rifiuta tutto questo e si sposa la compagna delle elementari, l'amica di tutta la vita, la ragazzetta acqua e sapone del paese.

E urbanismo: perchè i calciatori italiani finiscono in quegli orrendi quartieri periferici, sobborghi-ghetti con piscine e edere rampicanti, e non si appropriano dei quartieri bene, delle aree residenziali, delle viale Parioli d'Italia, come - Gegen ci insegna - ha fatto il grande Pippo Pancaro nel borghesissimo Fleming?

Chissà se si rendono conto, i giocatori, che in realtà non stanno scegliendo nulla, che non possono scegliere nulla, che sono oggetti e non soggetti, che sono costantemente imboccati di bisogni che non sospettavano neanche di avere. Gli amici di tutta la vita continuano ad andare a Cattolica, a Maiori, a Torvajanica e invece loro sono là, a Porto Cervo, a Ibiza, a Miami, e si annoiano, ma perchè lo fanno? Non hanno mai visto il primo episodio di Fratelli d'Italia? Perchè Cristiano Lucarelli era alle Maldive, e non a Marina di Pisa, quando è successo lo tsunami? Perchè non si ricordano del consiglio di Jarvis, che in I spy avverte "take your year in Provence/and shove it up your arse"? Perchè vanno alle trasmissioni sportive vestiti così male, così fuori luogo? Perchè non sono se stessi? Perchè non leggono Lacan, o almeno non ascoltano gli Arctic Monkeys, e sputano in faccia alla feccia che li circonda che "qualsiasi cosa pensano che sono in realtà non lo sono"?

Qualche anno fa mi scioccò la foto di Federico Macheda che in piscina esibiva - a pelle - un borissimo borsello di Gucci, roba da matricola della Luiss. Perchè lo fa? Quando mai, se fosse rimasto al Quarticciolo o al Quadraro, avrebbe speso dei soldi per un oggetto del genere? Chi gli ha detto che si tratta di una cosa figa? Perchè i calciatori italiani abbracciano i valori del peggior ceto medio? Perchè Zebina si è fatto infinocchiare con i consigli di arte contemporanea di Fabio Capello? Che cazzo c'entra l'arte contemporanea con l'infanzia in una banlieu? Ma chi crede alla favola che possa essere un Mondrian in salotto a riscattare dalla schiavitù? Qualcuno dica a Lilian Thuram e alla sua infanzia nel camion in Guadalupe che non bastano un paio di occhiali con la montatura Armani a trasformarlo in un intellettuale azionista. Piuttosto che raccontarlo in televisione a Giorgio Porrà, quando i vicini di casa di Torino non lo salutavano in ascensore avrebbe dovuto scoparsi selvaggiamente le loro mogli, e dare così un senso a cinquant'anni di post-colonialismo. La classe operaia potrebbe andare in paradiso, ma preferisce accontentarsi del purgatorio. Un purgatorio pieno di gadget lussuosi, quanto meno.

Non che la cosa mi sorprenda. Viviamo in un'epoca di bisogni inventati in cui la coscienza critica è rimasta priviliegio di pochi; sarebbe ingiusto addossare ai calciatori una coscienza di classe che non ha più nessuno. D'altronde non c'è differenza tra il bisogno del calciatore di essere nella serata all'Hollywood o in barca a Porto Rotondo e quello dell'hipster del Pigneto di avere il nuovo I-Pad. Viviamo infatti in una società che è riuscita a santificare anche un coglione come Steve Jobs, uno che ha inventato dei gadget (dei gadget di plastica, cazzo!), uno la cui unica vera invenzione (una rivoluzione!) è stata quella di mettere i ping-pong negli uffici. Ma noi non vogliamo ambienti di lavoro friendly, parcheggi per skateboard e pacche sulle t-shirt se poi ci dovete riempire la testa e la stanza di cose di cui non sentivamo l'esigenza, figuriamoci il bisogno. Io, sul tram, voglio parlare col mio vicino, sono disposto (vero Gegen?) anche a imparare il tagalog per farlo, non voglio immaginare cosa sta ascoltando nelle sue cuffiette. Da socialisti (digitali) dobbiamo tornare a essere socialite (reali). E vorrei che anche i calciatori tornassero alle proprie origini, godendo del potere che hanno, riscattandoci tutti, cavalcando selvaggiamente questa società che da reietti li ha trasformati - loro malgrado, mi verrebbe da dire - in protagonisti.

Chiuderò con un aneddoto. Anni fa, per ragioni che forse un giorno espliciteremo, a me e a Nesat venne a prenderci alla stazione ferroviaria di Gallarate un noto giocatore italiano che aveva vissuto i suoi anni di gloria con il Vicenza, per poi fallire - ma non economicamente - all'estero. Guidava un Porsche Cayenne nera, e durante il tragitto verso il suo nuovo campo di allenamento ci raccontò della sua nuova attività professionale, che gli dava molta soddisfazione. Aveva da poco iniziato a fare l'agente immobiliare. Poi ci raccontò della tranquillità della vita in provincia. Infine ci disse che il pomeriggio avrebbe accompagnato il figlio piccolo al cinema (la tipica multisala vista Tangenziale) a vedere un film Disney. Toni pacati. Zero rabbia. Alla fine dell'intervista che gli facemmo, ci raccontò un episodio che aveva scatenato la sua ira. Aveva a che fare con un compagno di squadra con cui non andava proprio d'accordo. Per un momento, quel giocatore - quel ragazzo - che stava seduto davanti a noi mi sembrò un umano. Gli dicemmo che grazie al nostro racconto si sarebbe finalmente potuto vendicare. Gelo nei suoi occhi. Ci guardò fisso e ci fece giurare che non l'avremmo scritto. Questi sono i calciatori italiani, una gran rottura di palle. Una generazione sprecata. Un gruppo di cripto-borghesi di provincia. La vendetta di classe, già fredda, finirà per rimanere congelata, accanto alle pizze nel freezer.