“Ralentissez! Les
œuvres cachent les hommes”
(Da una cartolina di Jaime Gil de Biedma a Luis Antonio de Villena)
(Da una cartolina di Jaime Gil de Biedma a Luis Antonio de Villena)
Litmanen e Rooney
Qualche tempo fa ho letto
un’intervista di Wayne Rooney in cui il formidabile bomber del Manchester
United raccontava, con il candore di un ragazzino, che la notte che precede
ogni partita, prima di addormentarsi, si sdraia a letto e si “visualizza”
mentre segna un gol il giorno dopo. Non si tratta di un rito o di una
scaramanzia. Crearsi una memoria
prima del match, immaginarsi la scena che lo vedrà protagonista, è proprio una
parte essenziale della sua preparazione. Tutti i dettagli sono importanti,
tanto che, prima di mettersi il pigiama, per sognare meglio la scena, Rooney
chiama il responsabile della squadra e si fa dire quale maglia indosseranno.
Alla domanda del giornalista su quali sono i tipi di
giocate che normalmente visualizza, Rooney rispondeva - in maniera ancora più
sorprendente - che la maggior fonte di ispirazione gli proviene da Jari
Litmanen. Non Messi, Ronaldo, Zidane, Pelè, Maradona. No. Jari Litmamen. Il più
grande calciatore finlandese - finlandese
- di tutti i tempi. La qualità che più lo affascinava dell’ex trequartista che
aveva ammirato, da ragazzino, con la maglia dell’odiato Liverpool, era la sua
capacità di sapersi muovere tra le linee e infilarsi negli spazi. E poi la sua
pazienza. Osservandolo, sembrava che non avesse mai fretta. Si prendeva il suo
tempo e, quando arrivava l’opportunità, si inseriva per calciare in porta. Con nonchalance, freddezza e un certo gusto
per il gol ad effetto.
Dovrebbero insegnarla nelle scuole calcio, questa cosa di
Rooney.
Litmanen e l’europa
Litmanen arriva all’Ajax - l’unica squadra che il padre
era riuscito a convincere - nel 1992, per fare la riserva di Dennis Bergkamp,
idolo locale. Van Gaal non capiva quel ragazzo timido in campo e fuori, e dopo
pochi mesi decise che era meglio se a fine stagione fosse tornato in quella
landa desolata e piena di laghi da dove era venuto. Litmanen passò quindi buona
parte del campionato in panchina, dove approfittò dell’occasione per studiare
Bergkamp come uno stalker. Durante un
allenamento, ormai a primavera, successe però che quest’ultimo si fece male.
Stagione finita. La domenica, non sapendo cos’altro fare, il burbero allenatore
decise di sostituirlo con quel ragazzino silenzioso. Non solo non lo tolse più
dal campo, ma a fine stagione lo incoronò successore di Bergkamp, venduto
all’Inter. Con il numero 10 sulle spalle, l’anno successivo Litmanen segnò 26 gol partendo sempre da dietro la linea degli attaccanti e condusse i lancieri
al titolo in campionato.
Litmanen ha giocato sette anni
nell’Ajax, sette anni di gloria. I tifosi li hanno congelati in un coro -
“Litmaaanen / ooh ooh” sulle note di Volare - che mette i brividi. Ma Jari non era uno che amava i riflettori.
Pur di stare tranquillo, neanche andò a vivere ad Amsterdam, la languida
Amsterdam, con i suoi canali e le sue case signorili. Non si è mai mosso dall’anonimo sobborgo di
Diemen, vicino al campo di allenamento, perché l’unica cosa a cui pensava era
il calcio, e tutto il resto era di troppo.
Dopo Amsterdam, è tempo di occasioni mancate e
incomprensioni con gli allenatori a Barcellona e Liverpool. Dopo una seconda
tappa ad Amsterdam, ecco la deriva nella periferia calcistica di Lahti e
Rostock, Malmö e Helsinki. Più infortuni che gol, più
silenzi che esultanze, ma la classe, la signorilità e la fantasia sono quelle
di sempre. Iniziano i primi sibili giornalistici: ha disperso il suo talento,
la sua carriera è un enigma, resterà per sempre un’Eterna Promessa. Eppure a me
questa incompiutezza, questa malinconia per ciò che sarebbe potuto essere e non
è stato, non fa altro che aumentare l’ammirazione verso Litmanen. Perché nella
vita qualcosa bisogna pur perderla, lasciarla per strada, altrimenti
l’esistenza diventa soffocante.
Certo, rimane il rimpianto per quel gol del pareggio
segnato contro la Juventus nella finale di Coppa Campioni del 1996. A quella
partita l’Ajax era arrivato, oltre che come detentore del titolo, imbattuto da
diciannove partite, e Litmanen come capocannoniere della manifestazione, con
otto gol. Davvero un peccato che quel gol, il nono, non sia servito a nulla.
Litmanen e la Roma
Estate 1996. In Italia impazza il calciomercato ed è un
calciomercato di qualità eccellente. La Juventus ingaggia un talentuoso
centrocampista offensivo franco-algerino, Zinedine Zidane. L’Inter risponde con
un altrettanto talentuoso fantasista franco-armeno, Youri Djorkaeff. La Lazio
prende Pavel Nedved, il Parma Enrico Chiesa, la Sampdoria addirittura Juan
Sebastian Veròn. Tutti i presidenti, però, sognano di avere i gioielli più
preziosi della corona euopea, gli uomini di quell’Ajax che, come detto, ha
perso da pochi giorni la finale di Coppa Campioni. Mantovani si era già
assicurato il talento di Clarence Seedorf, Berlusconi risponde con i muscoli di
Edgar Davids, Gaucci promette che farà di tutto per strappare i fratelli De
Boer.
In questo valzer di nomi, Franco Sensi non sta a guardare.
Sul suo taccuino, c’è segnato un solo nome. Il più luminoso. Quello di Jari
Litmanen. Le indiscrezioni parlano di un giocatore ben disposto a trasferirsi
nella Capitale, dopo aver sperimentato tutto - grandi successi e grandi
delusioni - in Olanda. La richiesta dell’Ajax è ragionevole: venti miliardi.
Quanto lo vuoi pagare, altrimenti, il terzo talento d’Europa? Al Pallone d'Oro, infatti, era arrivato terzo, dietro a George Weah e - mah!- Jurgen Klismann. Inizio a
crederci, inizio a sognare. Poi, una mattina di agosto, in spiaggia, col
Corriere dello Sport aperto sulle gambe e il Cremino che sgocciola, arriva la
doccia fredda. “Sensi chiude a Litmanen, venti miliardi sono troppi”, titola il
giornale. Al suo posto arriverà, dal Verona, Damiano Tommasi. Grazie Sensi.
Come se non bastasse, Litmanen incrocerà la mia squadra in
un’altra occasione. 19 marzo 2002, Liverpool - Roma, ultima e decisiva sfida
della seconda fase a gruppi della Coppa Campioni. La Roma probabilmente più
forte di sempre, dopo aver asfaltato il Barcellona e sprecato un match-point
contro il Galatasaray, non deve perdere nella bolgia di Anfield per accedere ai
quarti di finale e giocarsi le sue non poche chance di vincere la competizione. Dopo un altro Roma - Liverpool,
è sicuramente la partita europea più importante della nostra storia.
Purtroppo, tutti sappiamo com’è finita, e tutti la
ricordiamo per la sciagurata decisione di Fabio Capello di schierare Marcos
Assunçao sull’ala destra. Proprio quel Marcos Assunçao che al settimo minuto
commette un ingenuo fallo da rigore che rappresenta l’inizio della fine del
sogno. Un calcio di rigore che, con ineffabile grazia, viene trasformato da
Jari Litmanen. Il migliore in campo dei suoi.
Litmanen e
Kaurismaki
Due
finlandesi sono in un bar. Dopo un’ora passata in silenzio, uno alza il suo
bicchiere verso l’altro ed esclama “Salute”. L’altro si volta verso l’altra
parte dicendo “Non sono venuto qui per fare conversazione”.
Storielle
come questa possono dire molto sul carattere di un popolo. Quello finlandese è
famoso per la sua tendenza verso la depressione, la solitudine, l’alcolismo e
il suicidio. È che la Finlandia è un posto da diventar scemi: culturalmente e
geograficamente a metà tra l’est e l’ovest, tra la Scandinavia e la Russia, tra
il socialismo e il capitalismo, ha una lingua assurda che ricorda l’ungherese,
un clima orribile e pochi centri urbani che al tramonto - vale a dire, alle 3
del pomeriggio - diventano deserti. Ma
il vero problema è che manca la luce, in tutti i sensi. In Finlandia non brilla
mai il sole, è sempre buio, e come disse una volta il più grande regista europeo
vivente, Aki Kaurismaki, quando è buio fuori, è buio anche nella mente.
Ecco,
Kaurismaki. Le sue malinconiche commedie, all’apparenza statiche e prive di
ottimismo e di allegria, e invece geniali e piene di umorismo e romanticismo,
sono il perfetto controcanto filmico alle giocate di Litmanen. Sullo sfondo di
orizzonti plumbei e vecchie melodie popolari, Kaurismaki disegna personaggi unici che,
come Litmanen nel calcio, in nessun altro luogo troverebbero un’identità. Ad
aumentare il legame tra i due finlandesi più famosi (Mika Häkkinen mi scuserà) non
vale neanche il gioco del “se fosse un film”, che comunque sarebbe L’uomo senza passato, o
forse La vita da bohéme,
perché Litmanen, in realtà, è un
film di Kaurismaki, non di Aki, ma del fratello produttore Mika, che nel 2012
gli ha dedicato l’emozionante documentario Kuningas Litmanen.
Ma c’è
qualcos’altro, di ancora più profondo, che lega i due uomini. Racconta Aki
Kaurismaki che quando scrive una sceneggiatura lavora quasi solo in termini di
subconscio. Fissa su carta il soggetto del film e qualche elemento della trama,
poi attende per tre mesi che il suo subconscio - il più brillante ed economico
dei mercenari - finisca il lavoro. È il metodo ideale per una persona pigra
come lui. Anche il suo attore di culto, il mitico e compianto Matti Pellonpää, lo utilizzava
per sviluppare il proprio personaggio. Scorreva la sceneggiatura tutta di un
fiato, poi se ne dimenticava per i successivi tre mesi, finché arrivava il
momento di girare ed era costretto a leggerla di nuovo, quanto meno per
memorizzare i dialoghi. Ho qualcosa in più di un’impressione che sia questo il
metodo che anche Litmanen ha impiegato durante tutta la sua carriera di
calciatore. Non è che fosse lento; è che faceva giocare il suo subconscio.