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mercoledì 6 aprile 2016

Un amore piccolo piccolo



 
Adesso ce l’hanno tutti con Totti - beh, una minoranza invece lo difende, con argomenti tanto appassionati quanto inconsistenti; ma sono le stesse persone che vengono prese in giro dalle pagine facebook anti-gentiste e anti-complottiste, dunque non contano davvero. Perfino Valdano ha detto, del resto giustamente e in maniera intelligente come è solito fare, che Totti dovrebbe riconoscere che è giunto il momento di lasciare. In poche parole, almeno fra le persone non dico ciniche, ma disincantate, fredde, analitiche, è accettato come un dato di fatto che la carriera di Francesco Totti sia finita, e che manchi solo, alla pubblicazione di ciò sulla Gazzetta ufficiale del calcio, la ratifica da parte di Totti stesso. Più Totti aspetta a dichiararsi concluso, più si rivela, invece, immaturo, irrisolto, tutto sommato anche poco sveglio; questo viene detto meno, per ovvi motivi, ma viene comunque detto (anche e soprattutto da romanisti). Esiste insomma, in qualche modo, un movimento di gente che vuol bene a Totti, lo stima come calciatore, e per questo chiede che se ne vada, che la smetta con questo accanimento: perché, razionalmente, non ha senso.

Non che io sia in disaccordo sull’analisi: atleticamente, quarant’anni sono quarant’anni. La genetica e la dedizione assoluta hanno nascosto molto a lungo il tempo, ma il tempo, per sua natura, alla lunga vince: e su Totti infine ha vinto. Non ci sono più le condizioni sportive per far partire Totti titolare in nessuna partita della Roma, mi pare; e non ci sono mai state le condizioni tecniche per farlo giocare dieci minuti alla fine, quasi fosse un Altafini. Né mi pare che un simile utilizzo sarebbe, come dire?, opportuno. Non voglio perciò dibattere sul fatto tecnico - Totti è giunto a fine carriera - né sulle sue conseguenze logiche - dovrebbe accettarlo e smettere; si comporta in maniera sciocca se non lo fa. Ciò che mi stupisce è con quale autorità morale la Roma - in senso ampio: società, proprietà, giornalisti, tifosi, insomma l’ambiente - possano chiedere a Totti una rettezza e un’onestà intellettuale che loro, nei suoi confronti, non hanno mai avuto.

La carriera di Totti, dicevamo, è di fatto finita. Ma è mai iniziata davvero? Io, sinceramente, credo di no. Ci si appella al tempo, criterio inflessibile e imparziale, per indicare al vecchio campione l’uscita, adesso che, di base, non è più utile alla squadra ed è anche un po’ imbarazzante per la società; ma ci si dimentica che far sparire il tempo è stato il trucco, e l’inganno, che ha fatto sì che Totti passasse alla Roma questi venti anni, i suoi venti anni, gli unici venti anni che avrebbe potuto dedicare al calcio e a farsi ricordare.


Non c’è niente di speciale in questa storia: anche la fattura che ha irretito Totti, l’incantesimo che gli ha nascosto il tempo, è stato l’inganno solito che gli esseri umani adoprano sempre (volendolo o no, sapendolo o no) per questo genere di cose: l’amore. Il Totti che esordisce nella Roma è un ragazzino delle superiori; e il rapporto fra i due amanti rimarrà sempre di quel genere lì. La Roma è la fidanzatina del liceo di Totti: solo che sono passati appunto vent’anni e più da allora, e tutto questo non è romantico, anzi non lo è mai stato. Perché Totti, in questi vent’anni, è cambiato tanto, ha lavorato, si è migliorato: la Roma, tutto sommato, no. Il rapporto fra i due si è fatto dunque sempre più sbilanciato, col tempo, sempre più assurdo; e davvero, se era bello e dolce guardare Totti nella prima Roma di Zeman, un ragazzo forte e veloce e ancora immaturo in una squadra che correva tanto e sbagliava tanto, se tutto questo era bello e dolce come guardare l’amore di due ventenni, c’era invece tanto di sbagliato, di fastidioso, nel contemplare Totti anni dopo, un giocatore tanto più grande, in una Roma che si restringeva a vista d’occhio, nell’ultima Roma di Capello che smobilitava o in quella orribile annata piena solo di allenatori. Quando si parla di Roma (squadra, città) si finisce sempre a parlare di derby: ma ditemi voi se non vedete, come me, la differenza amara tra quel “Vi ho purgato ancora” (di cattivo gusto, indubbiamente, e sciocco; ma di uno sciocco genuino) e l’orribile esultanza sulla telecamera, sei anni dopo, in un derby di cui in fondo non fregava nulla a nessuno, perché era la toppa tardiva e inutile a uno dei capitoli più squallidi della storia sportiva romana.

L’unico modo che la Roma aveva - e che ha effettivamente utilizzato - per tenere Totti, un personaggio tanto più grande di lei e in fondo inadatto a lei, era l’amore; ma non più l’amore romantico, l’amore fresco, bensì l’amore immorale e morboso. E quell’inganno orribile per cui si diceva - tutti lo dicevano: tifosi, giornalisti, società - che Totti avrebbe giocato per sempre nella Roma, pur sapendo che sempre nel calcio (nella vita) non esiste, e che ogni giorno in giallorosso era un giorno in meno con la maglia della squadra o delle squadre in cui Totti avrebbe potuto scrivere nel metallo dei palmares la sua grandezza indubbia, ma a cui forse, domani, non crederà nessuno.

Il problema è che il calcio è uno sport di squadra. Fra trent’anni, fra quarant’anni, Totti sarà un calciatore che ha vinto uno scudetto (e, Deo gratias, un mondiale): sarà difficile convincere gli appassionati di calcio di allora, i giovani che leggono, guardano i filmati, che Totti era tanto più forte di praticamente tutta la sua generazione. Chi lo dirà sarà un originale, un cretino, o al limite uno di quelli che vanno a tutti i costi controcorrente; un romantico, diranno i più bendisposti. Ma è romantico, questo? È romantico che Roma e la Roma, che lo hanno amato, abbiano legato Totti a una dimensione che non era la sua? Secondo me fa schifo. Tutta la carriera calcistica e passionale di Totti  sono state un eterno scambio risentito, quello scambio che tutti noi conosciamo bene, fra una fidanzatina che è rimasta sciocchina, immatura, in ultima analisi inadatta, e un uomo che ha studiato, che va verso la vita, che ha un grande futuro: se le cose fossero andate come dovevano andare, il rapporto si sarebbe spezzato, e Totti sarebbe stato libero, libero di essere grande, grandissimo davvero. E poi avrebbe potuto guardare con affetto, con tenerezza, anche con gratitudine al suo primo amore; così, tutto affoga nel rancore, nell’aver compreso troppo tardi che non c’è più tempo, che tutto il tuo tempo è stato sottratto, e non ce ne sarà altro. Con l’ovvio ma doloroso paradosso che la Roma, essendo una società di calcio e non una persona, ci sarà ancora, e potrà perfino decidere di maturare, se riesce e se vuole, di migliorarsi, di essere per qualcun altro ciò che non è potuta essere per Totti, ossia una compagna all’altezza; ma Totti non ci sarà più, Totti, il meraviglioso campione che tutti coloro che amano il calcio hanno amato e amano, Totti invece è finito, finito in questo modo qui, senza gloria, e con in più la colpa di non aver accettato da uomo che tutta la vita l’abbiano trattato da ragazzino.


Vent’anni e passa. Vent’anni sono, per dire, Iliade e Odissea; ma certi eroi incontrano Penelope, altri sono fermati da Circe. Sono, senza dubbio, casi; è umano che ne capitino, ma sarebbe disumano non lamentarsene. Non che non ci siano stati effetti positivi di vent’anni in cui a Totti hanno bloccato il tempo: pensiamo all’arrivo di Spalletti nel 2005, quando Totti era una bellissima ma non immensa mezza punta di 29 anni, che come bellissimo ma non grandissimo sarebbe stato archiviato. E invece, a 29 anni, Totti cambia come un ragazzino, diventa contemporaneamente uno dei migliori attaccanti d’Europa e uno dei più grandi registi bassi, nella stessa squadra e nello stesso tempo, poi va a vincere un Mondiale con un pezzo di ferro nella gamba.

Quello sembrava un Totti nuovo, cui nulla era precluso; ma i limiti dello spazio e del tempo erano invece esattamente gli stessi di sempre. Permettetemi di inserire qui un piccolo paragone, che spero non cada a sproposito: prendiamo Zinedine Zidane. Zidane, che era un giocatore sopraffino, con un fisico da atleta che stonava un po’ con la sua grazia, ma che invece era il segreto che gli permetteva di essere Zidane più a lungo e meglio di un altro trequartista; Zidane che aveva il temperamento nervoso e insofferente di chi sa di valere, e le reazioni sciocche di chi vuole sempre valere; Zidane, che segnava quando c’era da segnare e faceva segnare sempre. Ma tutto questo, comprese le sciocchezze, le reazioni, le meschinità occasionali, non vale forse anche per Totti? E perché allora il gol dei trent’anni, della maturità, il gol che riassume una carriera, per Zidane è quello al Bayer (aveva 30 anni meno un mese) e per Totti quello alla Samp (aveva 30 anni e due mesi)? Tolte le spiegazioni stupide e false, quali la maggior semplicità del segnare alla Samp (quel gol lì!) o altre scempiaggini, resta solo, ed è immenso, il senso d'ingiustizia.

Francesco Totti, nel 2016, adesso, è in torto, forse in torto marcio; come sempre accade ai buoni che sono stati fregati in quanto buoni, reagisce in maniera nevrotica, rozza, non sa spiegare le proprie ragioni, o forse non ne ha più. È un uomo a cui chiedono ragionevolezza, ora che lui non serve più, gli stessi che gli hanno chiesto per vent’anni amore, cioè il contrario della ragionevolezza. Ma forse voi direte: poteva, e doveva, pensarci lui. Gli uomini risolvono da sé le proprie questioni, e sanno sciogliere i legami stretti e dolorosi, quando devono, e riconoscere l’amore dall’ossessione e dall’alibi. Ma provateci voi a liberarvi di un amore che si chiama Roma, con le sue braccia lunghe, infinite; provateci voi ad accettare e a dire a voi stessi che quello che pareva il vostro sogno era un incubo, e che il vostro paradiso era, in fondo, una gabbia.

mercoledì 23 dicembre 2015

Purtroppo è amore (fine di una storia)



Era del tutto normale che dovessi tenerlo io, in mischia. Lui di testa partiva avvantaggiato, ma io in fondo lo potevo marcare: il mio naturale ruolo di terzino non mi aveva mai impedito, in emergenza, di fare il terzo di destra nella difesa a tre o di aggiungermi ai centrai di ruolo. Nel provare la sceneggiata, a casa, eravamo diventati dei grandi attori. Una provocazione continua: lui ad appoggiarsi a me, io a scansarlo, poi lui si sbracciava e ci guardavamo in cagnesco. Qualche spintone, a volte. Era la nostra dichiarazione d’amore guardandoci negli occhi. Certi che se si fosse anche solo sospettato, le nostre carriere sarebbero morte in pochi mesi.

* * *

Quando A. giocava in serie B era tutto più sereno. Perlomeno, eravamo certi che non ci saremmo mai scontrati da avversari. Poi, quando lui è arrivato in A e io brillavo in Europa, capitava che uno dei due, nei rari confronti stagionali tra le nostre squadre, casualmente perdesse un ballottaggio o accusasse un dolorino. Alla fine, decaduti noi dall’Europa e approdato lui in una squadra decisamente migliore, i livelli delle rispettive carriere si erano equilibrati. Se ci incrociavamo, vigeva tra noi sul campo il più assoluto rispetto. A parte le scenette sui corner, era pura non-belligeranza, con azioni di gioco a distanza di sicurezza. Ci dicevamo, scherzando, che se fossimo stati due mediani avremmo potuto rallentare il ritmo a nostro piacimento, o inscenare scaramucce per il puro gusto di prendere tutti in giro. In fondo siamo anche attori, per lavoro.

Quando successe il casino avevo trent’anni. Ero arrivato a godere di un rispetto senatorio da parte di arbitri e colleghi, ma da un po’ aleggiava su di me il dubbio che non avrei retto per molto. Fuori dal giro della nazionale, tanto per cominciare, rischiavo di finirci a breve. Il mio club, storicamente blasonato, era senza piazzamenti rilevanti da quasi un lustro; in quel periodo il mio rendimento era stato discreto, ma niente di eccezionale. Per A., invece, le cose erano diverse. Si affacciava, a ventitre anni, a quello che io rischiavo di lasciare. Accarezzava le infinite possibilità dell’esistenza con la passione dei ragazzi, carta assorbente con il desiderio di scoprire la vita. Tutt’ora non saprei valutarne la consapevolezza di allora: so, però, che sapeva bene cosa fosse una carriera. Andare avanti a testa bassa, come cavalli da corsa.

Ci eravamo conosciuti nel 2011, ad una festa in albergo con giocatori e un esercito di agenti-fratelli. Gente paonazza, file al bagno, musica discutibile. Io ero passato a fare un saluto al mio procuratore, con cui dovevo discutere brevemente di una questione di sponsor. A. era con un compagno di squadra, che di lì a poco sarebbe sparito con alcuni amici. Non l’avevo mai visto prima. Era un adone: un taglio da militare d’altri tempi, un fisico scolpito, lineamenti e modi gentili. Qualche sguardo ricambiato, un paio di sorrisi. Siamo andati a parlare in una stanza semibuia, tra due avvocati degustanti Bombay, una diciannovenne venezuelana e un portiere di Serie B, ormai vicino ai quaranta. Ci siamo piaciuti e ce ne siamo andati quasi subito. A. abitava al tempo a mezz’ora da Milano, dove io vivevo da quasi cinque anni. Quando la domestica l’ha visto uscire dal portone d’ingresso, bello come il sole, mi ha sorriso. Quella mattina per me era di riposo, ma A. doveva presentarsi all’allenamento. Abbiamo fatto colazione, e l’ho accompagnato a Bergamo in macchina. Nel viaggio di ritorno, ho pensato tutto il tempo al suo sorriso.



* * *

Ero un terzino destro, il “due”. Per quel che può valere - mi hanno messo sulle spalle anche il sette o l’undici -, sono diventato un “laterale di fascia”, definizione non del tutto inappropriata se penso che mi hanno schierato per anni tanto a destra quanto a sinistra. Sono alto un metro e ottanta, sono ancora più o meno asciutto, ma da tempo patisco l’esplosività dei più giovani. Per correre come un cavallo pazzo ora mi devo spremere a fondo, per lavorare di geometria e mettere qualche cross ancora ne abbiamo. Mi hanno sempre detto che se avessi avuto un piede migliore sarei stato uno tra i più forti del mondo, ma mi è bastata una gran velocità di partenza, unita a un tempismo affinato negli anni, ad arrivare dove sono arrivato. Qualcosa in carriera ho pure vinto. Da ragazzino, quando mio padre decise che sarei andato a ripercorrere le sue orme a Milano, non ne sapevo niente: è stato lo spogliatoio, a undici-dodici anni, a darmi la certezza di essere omosessuale. Ero innamorato di un mio compagno, Marco, un mediano di Udine che non riuscivo a guardare negli occhi.

Negare diventò l’unica via. Anni a simulare, in campo e fuori. A far finta, quando eravamo in branco, di voler mangiare con gli occhi ogni essere di sesso femminile ci fosse passato davanti. A far coesistere tutto questo con una carriera ormai lanciata. A diciassette anni vinsi il titolo nazionale Allievi, a diciannove ero in prima squadra, a ventuno avevo già girato mezza Italia a farmi le ossa. Da quel momento in poi ha avuto inizio una vita di frenesia e di tutto-e-subito, condita da storie morbose e clandestine. Mai, per scelta, con uomini di calcio. E tanto ho represso che forse, alla fine, era inevitabile che esplodessi.

Per un breve periodo, sono stato contemporaneamente il terzino titolare dei Campioni d’Italia e della Nazionale Maggiore. Ora, dopo tutto il casino, punto alla promozione in Eccellenza con la squadra di cui sono allenatore-giocatore. Trentotto, ed ero fermo da quasi due. Ultimo anno, poi alleno.

I primi sospetti su di me sono stati avanzati quando quel giornalista ha pensato di svelare alcuni retroscena sui componenti della rosa dell’Italia, poco prima dell’Europeo. Il caso specifico non mi coinvolgeva in prima persona, ma il mio nome è stato uno di quelli messi in giro da qualche addetto ai lavori, più o meno informato dall’interno, e dai più audaci propagatori di gossip del paese, che a furia di azzardi mi avevano quasi beccato. Me l’ero cavata per avere avuto, come tutti, qualche storiella di copertura finita sui rotocalchi. Il mio atteggiamento dimesso, il mio essermi esposto sempre poco a mezzo stampa e la mia etica lavorativa avevano fatto il resto; poco importava se quel terzino, faticatore e attaccato alla causa, fosse stato tirato in ballo. Se gioca come sa, e continua a fare il suo, potete chiamarlo “metrosessuale” quanto volete. Si tratta solo di una questione di cura del dettaglio: dal guardaroba all’acconciatura, alle sopracciglia ritoccate in modo impercettibile.


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A. è sempre stato un diligente, un attaccante “vecchia maniera” secondo tutta la stampa nazionale, che in lui ha voluto intravedere un potenziale a tratti eccessivo, ma mai inferiore al suo reale valore. Si trova bene a fare la sponda: non segna molti gol, ma è d’aiuto ai movimenti di tutta la squadra, anche se non è un bestione. In campo è una sicurezza; sembra rassicurante e quasi protettivo. A differenza di me, A. non ha mai avuto problemi a nascondere i suoi gusti. Ha ancora l’atteggiamento di chi vuole sfruttare ogni singola goccia di sudore del proprio sacrificio. Non mi ha mai considerato: né quando gli parlavo di quel giocatore tedesco che era riuscito a dichiararsi, né della nostra situazione “di coppia”. Mi ha sempre dato ragione come ai pazzi, liquidandomi con sorrisi che volevano solo farmi tacere. Mi ha sempre concesso poco e per brevi tratti, finendo per essere, di fatto, il più forte tra i due. Non spero più che si dichiari: lui, ormai, ne è uscito fuori pulito. Litigammo per la prima volta quando giocava in Sicilia, perché da qualche mese ci stavamo vedendo pochissimo. All’inizio era titubante sulla lunghezza del contratto, poi a distanza cominciò a sembrarmi più evasivo. Si arrabbiò, fino quasi a picchiarmi, quando gli dissi che in difficoltà mi ero confidato con un compagno. Iniziò a dirmi sempre meno, a vedersi con altri e a farmelo sapere. Quando lo spostarono a Torino non ero più arrabbiato, ma commosso. Gli concessi tutto, perché speravo che ci saremmo ripresi.

Andai a trovarlo, nell’estate del pre-campionato. A. era arrivato in città da un paio di giorni. C’era stata di mezzo la pausa estiva, e delle sue settimane in Versilia e in Sardegna non avevo voluto sapere. Aveva comprato una macchina nuova, indossava gli occhiali scuri e profumava di dopobarba. Ero elettrizzato, felice all’idea di portarlo in giro per una città in cui avevo vissuto per un anno, nell’ultimo dei miei prestiti; volevo mostrargli i miei luoghi, condividere con lui la città in cui ero diventato adulto. Con mia sorpresa A. è stato freddo da subito. Mi ha tenuto a distanza. Nel salutarmi mi ha baciato appena, sulla guancia vicino alla bocca, come fosse un dovere. Ha scelto un ristorante in periferia, lontano da grandi folle, dove poter guardare le partite in pay-tv. Dopo cena aveva fretta di andarsene. Se ancora non l’avevo intuito, mi ha detto, tra lui e me era finita. E pure da un pezzo. Dovevo capire che starmi a fianco era diventato un problema, che ero pressante e non lo facevo sentire libero. Lui aveva troppa paura di essere scoperto, e non potevo fare altro che accettare la sua decisione. Sarei risorto anche questa volta, diceva, perché ero uno tosto. Avevo carattere, e lui era convinto che saremmo stati meglio entrambi. Magari chissà, alla fine A. sarebbe riuscito ad andare in Premier, come sognava, e io avrei sicuramente avuto un avvenire nel settore. Avevo sulle spalle lo sputtanamento del giornalista, giravo in quel mondo da anni e non ero più una frequentazione sicura. Su queste ultime parole ho ricordato, d’istinto, di essere un calciatore. Di essere in grado di fare arrivare una macchina a prendermi in pochi minuti. Direzione Milano, a casa per l’una di notte. Mentre l’autista sfrecciava, cercavo di dormire. Mi immaginavo A. in pieno tour di locali, tra nani, fotografi e ragazze strabilianti.


* * *

Con i mesi sentivo che difficilmente mi sarei mai staccato da lui. Senza che ne fosse consapevole, era quello che mi aveva conosciuto nel mio pieno, che avevo sentito a fianco - anche se spesso invisibile - in quasi tutti i momenti più luminosi della mia vita professionale. Morivo di dolore, ma ero riuscito a rifarmi nel lavoro. Stavo sudando e sgroppando come un novizio, pronto a stupire il mister e a risalire nelle gerarchie. Il che mi venne, devo dire, particolarmente bene. Cinque partite da titolare e un subentro, un giallo, due assist, media alta su tutti i giornali. Dedizione massima.

La convocazione durante la pausa di ottobre fu una grande soddisfazione. Sarebbe stata giusto per un match di qualificazione e un’amichevole, ma ne avevo bisogno. Mio padre, che da addetto ai lavori continuava a considerarmi come una sua appendice, me l’aveva comunicato con entusiasmo. Il buon B., da ex portiere di un’altra generazione, credeva ancora che potessi dare molto, e forse in cuor suo sperava in un bel finale all’estero, che avesse portato a noi tutti più tranquillità in vista del mio ritiro. Non aveva, ovviamente, idea del momento che stavo attraversando.

Non avevo notato che il selezionatore, questa volta, aveva assortito un gruppo più sperimentale del solito. Oltre ad alcuni miei compagni particolarmente brillanti nell’avvio di campionato, di cui avevo saputo in tempo reale, e al blocco-Juve confermato, il mister aveva puntato su alcuni nomi-scommessa. Tra questi, nel reparto attaccanti, figurava il nome di un giovane centravanti in buona forma e ampiamente noto all’ufficio. Almeno nell’amichevole avrebbe giocato, perché un esordio contro la Macedonia non si nega a nessuno.


* * *

Come da copione. Lui gioca venti minuti scarsi in amichevole, io sto in panchina in attesa della Serbia. Vinciamo facile, A. non brilla particolarmente perché sul 3-0 noi amministriamo. In fondo non è molto che ha lasciato l’Under, dicono, avrà tempo. Ho saputo, in questi giorni, che ha cambiato procuratore, affidandosi a un avvocato che dovrebbe fargli fare un discreto salto entro la prossima estate. Lo vedo turbato, ma non voglio indagare. Ho il terrore di scoprirne il motivo e che non sia per causa mia, ma non riesco a non volergli stare accanto.

Arriva il mio turno. I serbi sono un punto sotto di noi nel girone, e dovremmo cercare di allungare. Se vincono loro, ce la complichiamo di brutto. Il mister parte a quattro dietro, e tutto sommato conteniamo bene. Dalla mia parte c’è calma piatta, penso che potrei addirittura propormi. Tiriamo da fuori senza speranza, loro ripartono bene ma per fortuna al centro siamo solidi. Punizione per loro, a lato di poco. Ammonito De Rossi. Primo tempo 0-0, una brutta Italia.

Nella ripresa giochiamo con una specie di 3-5-2, e mi adatto a fare l’esterno. Davanti riusciamo a completare un paio di azioni, ma non otteniamo che dei corner. Corner che battiamo a nessuno, perché abbiamo una seconda punta esile, una prima punta atipica e dei saltatori nella media. I serbi, nel dubbio, rimarcano la propria caratteristica tenacia, e iniziano a picchiarci negli stinchi. Gialli per loro, ma anche per noi. Ad ogni ripartenza buttiamo via la palla, siamo nervosi e lo diamo a vedere. I tifosi ci sostengono, ma sono timidi anche loro. Dunque, come è normale, contropiede loro. Arrivano in porta in tre tocchi. Assist basso, gol da un metro. Adem Ljajc. Mettici anche che siamo in casa e che il San Nicola è esigente.

Al 67’ annunciano il cambio. Quando A. entra in campo sono incredulo. è vero che la nostra punta non ne ha più, ma non mi aspettavo che lo sperimentalismo del mister arrivasse a tanto. Tocca a lui, primi minuti in un match valevole per le qualificazioni. Non ci penso troppo, perché dobbiamo recuperare e c’è da sbattersi. Ho da fare sulla destra, devo coprire e cercare di ripartire per direttissima. Mi slancio anche, un paio di volte: la prima volta è per un lancio troppo lungo, la seconda volta riesco a mandare in fondo un mio compagno che poi perde palla. Siamo senza schemi, loro sorridono e ci aspettano. Rubo palla in scivolata, la perdo e per poco non prendiamo il secondo. All’ottantacinquesimo siamo in tutto-per-tutto e faccio un lancio lungo alla cieca. All’area piccola la aggancia uno dei nostri e tenta il tiro, ribattuto. Corner. Batte lo specialista e sono in tanti pronti a saltare; io resto dietro a fare da guardia. Alla parabola, perfetta, A. parte in terzo tempo. Al passo numero tre è immobile in aria. è un dio greco in tensione. Ha il ciuffo scompigliato e la faccia accartocciata in una smorfia. La palla gli arriva in fronte, e la potenza che le imprime sembrerebbe arrivare da un tiro di collo. è centrale, ma alta e forte. Il portiere fa quel che può.

Quanto segue è storia nota. Videoripresa. Fotografata.

Uno a uno, e girone ancora nostro. A. si è appena rialzato da terra, dove è caduto dopo l’impatto con il pallone. è pazzo e inizia a urlare, occhi fissi e braccia al cielo. Vedo altri compagni che stanno andando ad abbracciarlo, e mi precipito in avanti. Non posso contenermi, sto esplodendo di gioia. Mentre A. si sta liberando dell’abbraccio di un compagno io arrivo di corsa, scansando gli altri. Lui non se lo aspetta. Gli piombo addosso. Lo abbraccio. Lo bacio, sulle labbra. E' un momento, pochi secondi. Lo stadio è impazzito per il gol e tutto sembra apparentemente normale, le squadre stanno iniziando a tornare a centrocampo. Lui resta immobile e mi fissa. Poi mi urla qualcosa, ma lì per lì stento a decifrare. O forse non voglio sentire. Tutti stanno tornando a centrocampo e lo facciamo anche noi, per gli ultimi minuti di passione. Finisce, uno pari e tutto a posto.

Negli spogliatoi mi guardano in modo strano. Hanno quasi paura. Prendo di corsa le mie cose e fuggo. Mi faccio portare via tramite lo staff della squadra, capisco che in qualche modo devo evitare la stampa. Sono in una stanza d’albergo a tre stelle, è ormai sera, e ho modo di rivedere le azioni della giornata. Vedo il servizio e rileggo il labiale. Controllo Internet dal telefono, cambio canale. Può essere che io sia sulla bocca di tutti. Quasi quasi mi ammazzo.


* * *

Ora, a mente lucida, mi sembra tutto più normale. Mi sembra solo un esito possibile delle umane cose, la fine di un amore come di un altro. La chimica mi aiuta dove può a stare sereno, e se il pallone ha un qualche motivo di utilità, al momento si può dire che è una delle due o tre cose che mi fanno stare al mondo. Sono sempre più convinto che A. l’abbia fatto per le telecamere: è sempre stato un bravo attore, del resto, e gli è andata bene così. Ha avuto e sta avendo pure lui la sua ribalta. Io sono quello che è finito su youtube per un bacio in bocca un po’ troppo pronunciato. Quello che il giorno dopo si è tagliato le vene perché gli hanno gridato in mondovisione “che cazzo fai, frocio di merda?!”. Quello che ora fa qualche soldo con i giornali di gossip, a cui rilascia interviste non in nome della tolleranza di genere, ma perché “ben informato” su certi aspetti interni al mondo dello sport.

Il giorno in cui ho scelto di tornare a giocare, più o meno un anno e mezzo dopo il fatto, vennero a intervistarmi. Ricominciavo in Svizzera, in un campionato con aspettative diverse e molta meno pressione. Rescissi a fine stagione, andando in Serie C. Privo di motivazioni, ho cercato di fare in modo che il mio dolore trapelasse il meno possibile. I quindici chili in più se ne andarono solo a metà, e le mie prestazioni calarono in termini di minuti e concentrazione. Ero diventato un cartellino ingombrante e non avevo mercato, a meno che non avessi scelto campionati di valore insulso. Insomma, tra i pro era finita.

Non so se da allora sono risorto, ma so che fa tutto un po’ meno male. Non so se sono uno tosto, come mi avevano detto, o se ho carattere, ma so che è passato del tempo. So che quest’anno è l’ultimo, che i ragazzi dovrebbero migliorare nelle diagonali e che il nostro trequartista dovrebbe osare di più, perché sull’ultimo passaggio ha un gran potenziale ma non se ne rende conto. So che ho abbastanza soldi per poter vivere in pace da qui ai prossimi venticinque anni. Che siamo a trentotto, e l’anno prossimo alleno. Sicuro.

martedì 10 settembre 2013

Route du Maroc - Prima parte - Casablanca

 
 
Da qualche tempo ho difficoltà a scegliere il libro da leggere. Anche durante i preparativi per la partenza per il Marocco ho incontrato difficoltà. Prendo un libro a caso dalla libreria, leggo la quarta di copertina e lo ripongo nella libreria, che tanto nessuna storia mi sembra bella e attraente dalla quarta di copertina. Finito Nabokov (Re, Donna, Fante, niente di speciale, meglio La difesa di Luzin), rimandato Bolaño (perché i titoli che vorrei leggere sono troppo lunghi) e scartati alcuni autori italiani finalisti allo Strega, ecco che la scelta inevitabilmente ricade su Roth. D'altronde, in vacanza occorre andare sul sicuro. Quest'anno poi ho già avuto una fortuna sfacciata con libri come 54, Arrivano i Sister e Vedi di non morire. Con Roth mi sento tranquillo. Una storia americana quasi certamente ambientata a Newark, sulla costa Est.

Lamento di Portnoy è il monologo dall'analista di Alexander Portnoy, ebreo cresciuto negli anni Quaranta e Cinquanta in perenne conflitto con le proprie tensioni sessuali. Poco convinto a vivere da ebreo, non tanto per mancanza di fede quanto perchè perplesso dal quadro famigliare che lo circonda (la madre quasi ossessiva e il padre stitico).
La scoperta sociale e sessuale dell'America di un ragazzo cresciuto a Weequahic ("come se scopando volessi scoprire l'America. Conquistare l'America è forse più corretto."), fino all'esilio tragico e impotente in Israele.
 
Infilo il libro in valigia, sempre più convinto che per viaggiare il Kindle sia ormai essenziale. 

* * *


A detta di parecchi, Casablanca puo essere brevemente riassunta. Gli interventi chirurgici, il film Casablanca e la moschea Hassan II.

Tralasciando gli interventi chirurgici, non so quanto ancora di attualità, e il film, girato per lo più in studio (il Rick's Café Américain non è mai esistito, quella in città, al limitare della parte berbera della Medina, è solo una fedele ricostruzione gestita da un'americana stabilitasi a Casablanca), rimane la moschea Hassan II. In riva al mare con un minareto alto 200 metri. E' tra le più grandi moschee dell'Islam assieme alle moschee della Mecca e di Medina. Di effetto impressionante anche se particolarmente disadorna all'interno. Vale la pena spingersi al piano inferiore per visitare i bagni.

La verita è che Casablanca, come molti centri di sviluppo economico, risulta, ad un primo colpo d'occhio, impersonale e di scarso folklore.
A ben guardare, pero, è autentica larga parte della sua città vecchia, frequentata ed animata dai locali più che da una serie interminabile di negozi e bancarelle per turisti. Come autentico è il bighellonare della citta nuova e del quartiere degli Habbous, vicino al Palazzo Reale.

Magnifiche le sale da the - specie su Boulevard de Bordeaux -, ferme agli anni Sessanta quanto ad arredamento e accese dal match di Premier di turno (nel caso nostro, la prima vittoria di Moyes sulla panchina del Manchester United). Luoghi dove la gente passa il tempo per il solo piacere di non far nulla, stile ormai perduto dalle parti nostre.

Per nulla caratteristico, invece, il Quartier Gauthier, dominio di banche e multinazionali, vero cuore pulsante della finanza marocchina. Vi ceniamo la prima sera, in una specie di tavola calda la cui specialità sembra siano le coppe di gelato. Ordiniamo omelette e patatine fritte, che arrivano non asciugate dall'olio.

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Maglie - Casablanca, città vecchia
Inganna la pianta della guida riportando, a due passi dalla Chiesa del Sacro Cuore (inguardabile), nel bel mezzo del Parque de la Ligue Arabe, la dicitura "Stadio Municipale". Più che uno stadio una landa desolata di sabbia e malmesse tribune a gradoni.
Non credo giochino qui le due squadre di calcio di Casablanca partecipanti alla Botola, il campionato marocchino.

Il Raja Casablanca è senza dubbio la più famosa squadra di calcio marocchina. La maglia (ultimamente) in stile Celtic e da sempre vincente. Fondato nell'immediato Dopoguerra, il Raja (che significa "speranza") da sempre rappresenta l'alternativa operaia al protettorato francese.
Per lungo tempo a secco di vittorie, diventa dominante sul finire degli anni Ottanta. Alle affermazioni a livello nazionale si sommano le tre vittorie (quarto club in assoluto) in CAF Champions League ('89 contro gli algerini dell'MC Oran, '97 contro l'ES Tunis e '99 contro gli eigiziani dello Zamalek).

Noureddine Naybet
I 10 campionati marocchini a palmares non consentono tuttavia al Raja di primeggiare in città.
Les Rouges del Wydad si sono infatti laureati campioni ben 12 volte (5 prima dell'Indipendenza).
Curioso l'aneddoto legato al nome della squadra. Al tempo, siamo nel 1937, le attività ricreative e sportive a Casablanca erano riservate ai francesi. Tuttavia, visto il crescente numero di musulmani ed ebrei frequentatori (o aspiranti tali) di club sportivi, si decise per la fondazione di una polisportiva riservata ai locali. Nacque cosi l'allora Atheltic Club. Si narra che alla prima riunione dei soci fondatori uno di questi sia arrivato particolarmente in ritardo. La ragione del ritardo era dovuta al fatto che il tale aveva deciso di vedere l'ultima uscita cinematografica con protagonista la star (attrice e cantante) egiziana Oum Kalthoum: Wydad. In italiano, Amore.

Per completezza, occorre menzionare anche la terza squadra di Casablanca, l'Etoile. Attualmente i gialloverdi militano in terza divisione.

E' nato a Casablanca e ha giocato nel Wydad uno dei punti fermi della mia adolescenza da difensore: Noureddine Naybet. Oltre 100 presenze con la maglia della Nazionale e campione di Spagna con il Depor di Djalminha e Makaay. Dopo il ritiro, El Moro ha anche affiancato Michel alla guida della nazionale marocchina.

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Thé à la menthe

Secondo antiche tradizioni, il thé à la menthe richiede un lungo rituale di preparazione, che inizia con il risciacquo del the verde cinese (preferibilmente Gunpowder) per poi passare all'infusione in acqua caldissima (ma non bollente) delle foglie di menta. Secondo alcuni, ai rametti di menta è possibile mischiare qualche foglia di timo o di salvia (ma i puristi vi rinunciano).
Lasciate le foglie a macerare nell'infuso, la bevanda è travasata in bricchi d'argento riccamente decorati (in verità, spesso lo stagno sostituisce il materiale d'elezione di questi samovar d'Atlante), e viene versata in bicchieri intarsiati rigorosamente di vetro, da un'altezza di almeno 40 centimetri. Questa ritualità, dal fine, in apparenza, unicamente estetizzante ha, in realtà, un duplice scopo: ossigenare il liquido dorato in modo da formare una leggera schiuma nella parte superiore del bicchiere (ad evitare l'intorbidirsi della bevanda) e consentire che il the vada velocemente a temperatura ambiente (cosa che la porcellana o la plastica rallenterebbero oltremodo).
Perfetto ad ogni ora e a conclusione del pasto, meglio se molto zuccherato e accompagnato da kaab el ghzal (letteralmente, corna di gazzella), pasticcini a base di pasta di mandorle.