[qui la prima parte] |
La
risposta di Ambrosetti è coerente con i suoi principi: “volevo tornare a casa,
non avevo bisogno di un contratto più oneroso in giro, per fortuna avevo già il
mio serbatoio, non c’era motivo di andare altri due anni in giro a
cercare fortuna; poi avevo già due figli
e non è che uno può stravolgergli la vita, e inoltre ci sono stati alcuni lutti
familiari che mi hanno segnato”. Certo, se fosse uscita un’opportunità
importante e curiosa, ad esempio giocare in Australia, America o Giappone,
Ambrosetti l’avrebbe presa al volo (“perché a me piacciono queste cose”), però poi
ci rivela che non ha avuto il coraggio neanche di prendere in considerazione
un’ipotesi del genere.
Alla
fine, comunque, confessa che il ritorno in serie C, alla Pro Patria, a casa,
gli ha lasciato un grande dispiacere: “ho trovato brutti comportamenti
professionali che non vanno bene, che in 33 anni non avevo mai trovato, che
distruggono una persona, pregiudizi verso chi ha una certa macchina o certi
vestiti, verso chi ha giocato a buoni livelli e poi non può sbagliare un
passaggio”. Ci ha pensato per tutti e due gli anni in cui ha giocato lì, poi
l’estate del 2007 non si è più tenuto: “tenetevi i soldi che io sto a casa,
tanto a me e a voi non cambia la vita”. Invece in questi mesi a Cardano al
Campo, con il signor Scandroglio e i ragazzi della Fulgorcardano, ha incontrato
una sensibilità e una coerenza che non immaginava, e inoltre ora gioca di nuovo
da seconda punta.
Sì
perché, tornando al calcio giocato, Ambrosetti nel Varese iniziò da seconda
punta; fu poi Lucescu che a Brescia, in serie A, lo mise sulla fascia sinistra,
ruolo in cui Guidolin l’ha definitivamente consacrato nel Vicenza (“arrivai il
giovedì e la domenica già giocai in quella posizione lì contro la Lazio”). A pensarci bene, se
si guarda il mondo come una partita di calcio (e quanti di noi lo fanno),
Ambrosetti ci è rimasto impigliato nel suo ruolo di centrocampista esterno nel
4-4-2 del Vicenza di Guidolin: come in campo, così nella vita è una persona
diligente, ordinata, umile, perbene, qualche guizzo ogni tanto e per il resto
molta sostanza. Lui stesso riconosce che si trattava di un ruolo dispendioso,
si tirava di meno e si correva di più, anche perché dovevano giocare sempre al
massimo, col coltello tra i denti, sebbene poi giocare in casa era diverso che
giocare fuori, lì ogni palla che toccavano c’era un grande fracasso sugli
spalti, gli altri tifosi proprio non si sentivano. A proposito di piazze calde
(ammesso che quella del Romeo Menti effettivamente possa rientrare nella
categoria), ci confida che gli sarebbe piaciuto venire a giocare a Roma,
addirittura nel ’99 era quasi fatto il suo trasferimento alla Lazio, e rimane
un enigma perché non sia andato in porto. Basta un ricordo del genere per far
riaffiorare la sua atavica mancanza di fiducia verso il mondo del pallone: “mi
sono tirato fuori dal calcio, non è giusto il ruolo che hanno assunto oggi i
procuratori”. Nel mondo del calcio ha imparato che “o è bianco o è nero”, e che
è pieno di gente pronta a salire sul tuo carro, però lui non ha mai viaggiato
col carro, ma con la sua macchinina tranquilla, perché a casa sua non entrano
tutti.
Il
discorso sul marcio presente nel mondo del pallone lo porta a commentare lo
scandalo Calciopoli (“da dentro non avevo avuto nessun sentore”) in termini
molto netti: “è solo il primo di una lunga serie. Oggi nessuno ha pagato, se
non i calciatori, che non c’entrano nulla; perché chi è stato condannato o
radiato non ha ricevuto sanzioni economiche o penali?”. Le parole più dure,
però, sono rivolte al sistema dei procuratori: “per quale motivo i procuratori,
in serie C, possono sostenere che quello può arrivare e quell’altro no, che
quel giovane della Primavera può andare in quella squadra e quell’altro no?”.
Ambrosetti ricorda che, ai suoi tempi, a lui questo non capitò, e se ha avuto
successo lo deve solo ai suoi genitori e a coloro che l’hanno fatto giocare,
non certo ai procuratori che l’hanno mandato da una parte all’altra: “appena
sono tornato in serie C i miei procuratori, ai quali qualcosa negli anni avevo
dato, sono spariti, non li ho più sentiti, e questo è un peccato, mi dispiace,
non per chiamarli perché ho bisogno di una squadra, ma per sapere come stai,
siamo esseri umani, e io voglio sentirmi un essere umano 24 ore su 24”. E invece, adesso, alla
Fulgorcardano, Ambrosetti è contento, perché tutti, dal signor Scandroglio (“a
cui non riuscirò mai a dare del tu”) al presidente, dal magazziniere ai suoi
compagni, lo giudicano per quello che è come persona (“e io sono così ora ma
ero così anche a 20 anni”) e non perché la domenica fa gol o per la macchina,
la casa o i capelli che ha.
Se
ogni esperienza, comunque, gli ha lasciato dei ricordi e delle emozioni
positive, gli chiediamo allora quale (e cosa) sia il calcio secondo Gabriele
Ambrosetti - se gli esordi di Varese, l’epopea di Vicenza, i lustrini di
Londra, o la semplice passione della Fulgorcardano. La risposta sembra uscita
dalla bocca di Damiano Tommasi: il calcio è “fare l’allenamento la sera con a
fianco i bambini che urlano, ridono, sono contenti, piangono perché cadono e si
fanno male”. Anche suo figlio, a 7 anni, ha la faccia solare quando va a
giocare a pallone, anche se lui non l’ha mai spinto e non lo va mai a vedere,
perché non può, gli altri sanno chi è e sanno che Jacopo è suo figlio, c’è già
pressione a quell’età, con i genitori attaccati alla rete che danno giudizi
volgari, maleducati, “questo fa parte di una situazione che non va bene”. Anche
per questo motivo Ambrosetti è uscito dal calcio (“non so chi è il
capocannoniere in serie A”), ne parla con distacco ma c’è anche del dolore,
“per me il calcio è molto, passione vera, ma a Controcampo sento di quelle
cose, non ce la faccio, oggi per informarmi un po’ ho aperto la Gazzetta ed erano due
anni che non la aprivo, ho trovato la storia di quel giocatore del Cagliari
sotto scorta [Marchini] e l’ho chiusa”. Non si riconosce più in questo mondo:
semplicemente, “speriamo che non finisca questo sogno”.
Con
questi valori antichi, Ambrosetti sembra nato per lavorare nel settore
giovanile, magari proprio a Vicenza. Lui però scuote la testa, “le situazioni
si sono proposte, ma io la mia decisione l’ho presa e o è bianco o è nero, con
tutti i suoi pro e contro, il calcio per me è stato soprattutto positivo ma
anche cose brutte, le racconto tutte”, e si capisce che non vuole più avere
niente a che fare col calcio professionistico. Al riguardo, gli raccontiamo che
abbiamo incontrato Amedeo Mangone e
Massimo Tarantino, rispettivamente allenatore e direttore sportivo a
Pavia: “è tutto un giro così!” commenta, precisando comunque che gli fa piacere
per Amedeo (“che è un bravo ragazzo”), “ma è tutto così e io non mi metto
dentro questo giro”. È chiaro ormai il suo pensiero: nel mondo del calcio o si
è dentro o si è fuori, o si accetta tutto o si rimane esclusi (e la mente corre
inevitabilmente alla lezione di Oronzo Canà), sono tutte conventicole, e
Gabriele ci dice che lui non è abituato ad accettare nulla, non è mai sceso a
compromessi, a livello professionale-calcistico (“nel mio nuovo lavoro nel
mercato immobiliare invece sì”, aggiunge con ironia). Quello che rimane allora
sono le persone, peraltro molto poche, e Ambrosetti si lascia scappare che
qualche tentennamento ce lo potrebbe avere solo se lo richiamasse il suo
presidente del Vicenza, Delle Carbonare, al quale é molto legato.
Non
siamo pienamente convinti che tanta radicalità sia davvero necessaria: non si
tratta di fare l’eroe o il missionario, piuttosto del desiderio di insegnare ai
ragazzi quanto di buono uno ha imparato in tanti anni di carriera. Ambrosetti
ci spiazza con una provocazione: “guardate che io sono un grandissimo figlio di
puttana”. In effetti, ci racconta che in molti hanno avuto la nostra stessa
impressione e gli hanno detto di insistere (tra questi il suo amico Fabio
Rossitto), ma Gabriele si giustifica spiegandoci che la sua non è incoerenza o
chiudere le porte in faccia, ma solo prendere atto di quanto gli è successo.
Sempre lì si ritorna, perchè “il calcio è bello perché vedo l’emozione e il
sorriso di mio figlio quando prepariamo la borsa o quello dei ragazzi qui alla
Fulgorcardano che, quando corrono, corrono alla ricerca di un sogno, e spero
solo che non ci sia qualcuno che glielo spezzi”. Con lo stesso disincanto un
po’ naif, ricorda che nel settore giovanile del Varese, dove ha iniziato lui (e
dove allenatore era proprio il signor Scandroglio), c’erano altri ragazzi molto
bravi, anche più dotati fisicamente di lui, “e perché è successo proprio a me
di sfondare?”.
Il
discorso vira fisiologicamente verso la difficoltà di emergere che i giovani
calciatori italiani incontrano attualmente, in seguito all’invasione modaiola
degli stranieri, e anche qui Ambrosetti ha le idee molto chiare: “il mondo del
calcio ha accettato i preparatori atletici e i procuratori, però ora non
bisogna consacrarli; sono importanti, ma per quale motivo si vuole investire
più su un ragazzo straniero che no su uno di Varese, Lecco o Reggio Calabria?”.
Ricorda con ironia che l’ultimo ragazzo della primavera del Milan che ha
esordito in prima squadra è stato Aubameyang, “non posso credere che il Milan o
l’Inter non abbiano primavera italiani che giocano in prima squadra, l’ultimo è
stato Albertini!”. Difficile dargli torto. Gi facciamo notare che, al
contrario, alla Roma negli ultimi anni il cammino del vivaio è stato battuto ed
ha dato i suoi frutti, e Ambrosetti commenta che è ancora più grave perchè al
Milan o all’Inter hanno un bacino d’utenza diversa, più grande: Aquilani e De
Rossi ci saranno pure lì però così non possono emergere.
Il
tema è caldo e interviene anche il più volte citato signor Scandroglio, una di
quelle leggendarie figure di Maestri di calcio in provincia che rimarresti ad
ascoltare una sera intera in trattoria. Avendo calcato i campi per tutta una
vita, prima come calciatore e poi come allenatore, di football ne sa
qualcosa: “il discorso è diverso, i De Rossi o Aquilani nascono sempre quando
il portafoglio è vuoto, il Milan del periodo Farina diede i Baresi e i Maldini,
l’Inter del periodo Pellegrini diede i Bergomi e altri, la retrocessione della
Juventus e la cassa vuota hanno fatto sì che molti giocatori trovassero una
loro vetrina. Il discorso dell’Atalanta è a sé, non ha seguito le mode, ha
investito più soldi nel settore giovanile che in prima squadra, è andata
controcorrente”. Con la tipica saggezza (e cadenza) lombarda, molto concreta,
prosegue ricordando che i tre-quattro che comandavano il calcio avevano detto
che fare il settore giovanile era inutile e costava di meno comprare i
giocatori all’estero, e tutti sono andati all’estero; ancora oggi si pagano
questi strascichi soprattutto in serie C, dove stranieri e procuratori non
dovrebbero esserci, e lo stesso nel settore giovanile, dove i procuratori vanno
e abbindolano le famiglie. Appare quasi rassegnato quando conclude che è
difficile trovare presidenti che si sobbarchino avventure onerose come quelle
di prendere una squadra in serie C con entrate zero; servirebbe un cambiamento,
in serie C sono professionisti come nella A e nella B, però di fatto ci sono
grandi differenze, e allora dovrebbero esserci situazioni diverse, mentre si va
sempre avanti sullo stesso tran-tran. Su cento posti di lavoro, quindici anni
fa c’erano ottanta lavoratori bravi e venti raccomandati, oggi è il contrario,
e il calcio non fa eccezione a questa regola della società.
Ritorniamo
al senso di questo incontro, al motivo per cui uno come Gabriele Ambrosetti
continua a giocare a pallone in Promozione. Quando gli chiediamo quale squadra
devono affrontare la domenica successiva e quale modulo adotteranno, Ambro,
con la faccia divertita, non se lo ricorda. È Scandroglio ad informarci che
giocheranno contro una squadra di Arese (“dove c’era l’ex Alfa Romeo”), il
Novaffori, “e domani, durante l’allenamento dalle 7 alle 9, vedremo quali
giocatori sono disponibili, e con questi faremo il modulo”. Chiediamo allora a
Gabriele se all’allenamento dell’indomani, alla milionesima volta in cui gli
spiegheranno come fare la diagonale, riuscirà, pensando al Novaffori, ad avere
la stessa grinta di Vicenza per coprire quello spazio lasciato libero dal
centrocampista centrale: con l’umiltà che lo contraddistingue (anche se a lui
non piace la parola umiltà, “è usata in modo inappropriato, io sono fatto
così”), ci risponde che “non cambia nulla”. Già, l’importante è che non gli
tocchino le scarpe!
Sarà
anche vero che una volta in campo non cambia nulla se di fronte hai un Pallone
d’oro o un muratore, ma ci incuriosisce sapere che cosa si prova, a livello
umano, nel passare in un paio d’anni dal Chelsea alla Fulgorcardano. Ambrosetti
riconosce che ci ha pensato molto, e con grande modestia rivela che non voleva
andare lì col desiderio di inculcare a qualcuno un aspetto professionistico
maggiore, perché, a parte che l’ha trovato (in effetti, il campo da gioco della
Fulgor, in erba, è bellissimo, qui dicono che sembra “Wembley”, anche se
Gabriele ci tiene a precisare che non è andato lì per questo, il fango non lo
spaventa, e ci racconta che a Vicenza si è allenato per quattro anni su un
campo che la domenica veniva usato come parcheggio, col muro attaccato al palo
della porta!), non sarebbe comunque
stato giusto, perchè era lui che doveva immedesimarsi nella parte, non i
compagni nei suoi confronti, “ero io che dovevo abituarmi”, e ricorda che prima
si era allenato la sera solo quando il giorno dopo c’era da giocare una partita
di Champions League o di Coppa delle Coppe! Allo stesso tempo, è consapevole
che ci sono delle cose che può dare in più, “però io sono da solo e loro sono
in venti, sono più le cose che posso
imparare io dai miei compagni che non viceversa, e poi non è che possono
imparare loro a tirare da 60
metri!”. Il pensiero è nobile: “sarò io, semmai, che
potrò rubare qualcosa di umano, sulla passione per il calcio, a qualcuno di
loro”, e ricorda che l’unica “persona bella” che ha trovato nel mondo del
calcio è stata Davide Pellegrini, ala destra, ex, tra le altre, di Verona e
Fiorentina, che lui ha incrociato al Venezia per tre mesi, “anche lui di
Varese”, dove i due si erano già incontrati perché quando lui giocava lì Ambrosetti
facevo il raccattapalle.
Gli
chiediamo quale sia invece il giocatore più forte con cui abbia mai giocato,
l’esempio calcistico da cui ha imparato qualcosa, e ci risponde che sono tanti.
Vanificate le nostre speranze che si riferisca anche a Chris Sutton, nostro mito
di gioventù, (“abbiamo condiviso in negativo l’anno al Chelsea, lui però
giocava sempre ma non gli ho mai visto fare una partita positiva”), ci racconta
che l’eleganza e la sicurezza di Desailly lo hanno stupefatto per la posizione
in cui giocava, che Zola è una persona fuori dalla norma, e che il norvegese
Tore Andre Flo è il giocatore con più tecnica che abbia mai visto (“ma il
giocatore che secondo me non ha raccolto nulla per quanto valeva è stato Gigi
Sartor, e lui ha avuto pure delle belle occasioni”). Ci sorprendiamo che non
parli di Vicenza, e ci spiega che lì il suo esempio come giocatore è stato
Fabio Viviani (“ma a Vicenza non c’era un leader, anche se c’erano delle
gerarchie precise”). Che poi, a dirla tutta, scopriamo che a Vicenza,
all’inizio, Ambrosetti neanche ci voleva andare: “stavo talmente bene al
Brescia, sono venuti a prendermi all’aeroporto a Linate, dove tornavo dal
Torneo Anglo-Italiano, che due anni prima avevamo vinto proprio con un mio goal
a Wembley [in finale contro il Notts-County], e il Brescia mi ha venduto al
Vicenza, in serie A, dopo che io, in serie A, già c’era stato proprio col
Brescia, e col Brescia volevo ritornarci”. Quando si dice salire sul treno
giusto, quel treno che nella vita forse non ripassa una seconda volta.
Prima
di congedarci, c’è tempo per un paio di aneddoti curiosi. Lo si capisce subito
che Gabriele Ambrosetti non è tipo da bravate, e fa quasi piacere scoprire un
suo lato più umano, fallibile, quando ci racconta di un pazzo martedì sera a
Vicenza, la sera di San Valentino (“tutti single, con Maini e Brivio,
andammo al ristorante dove mangiavamo sempre, e alle 8 e un quarto eravamo già
ubriachi”), bravata che alla fine l’ha pagata perché ha rovinato la macchina.
L’altra
storia indiscreta riguarda un suo ex compagno di squadra, “l’unico di cui non
posso parlare bene”, l’unico giocatore con cui ha avuto un grosso diverbio in
campo. Ci racconta che il Vicenza andava in ritiro estivo sull’altopiano di
Asiago e c’erano sempre un sacco di persone in paese, (“accampate con tende,
roulotte e camper: un vero macello!”), e il giorno della prima amichevole,
davanti a circa 9 mila persone, questo nuovo arrivato, di professione
centravanti, gli si avvicinò e gli disse “stai zitto te che devi solo correre,
che poi ci penso io”. Colpito nell’orgoglio, Ambrosetti, che erano già tre anni
che giocava a Vicenza, si presentò il giorno dopo in sede con Guidolin, Delle
Carbonare e il ds Gasperin, e disse “signori io me ne vado”. Per Ambro era inconcepibile un
atteggiamento del genere, era la prima amichevole del ritiro, quella che vinci 94 a 0, non c’era agonismo,
era solo una festa per i tifosi. In realtà la cosa non proseguì oltre: “tutto è
finito lì, ora ci vediamo e ci salutiamo, però per me è peggio così, non mi
salutare, è un’incoerenza, se una persona mi tratta male o se io mi comporto
male innanzitutto chiedo scusa e poi per me hai chiuso”. In ogni caso, mai
aveva discusso in questo modo con un giocatore, e questo dà l’idea della
correttezza, della timidezza e della lealtà della persona. Non a caso, dopo
averci raccontato questo episodio, Ambrosetti ci gela con lo sguardo, e non
solo: “se questa storia viene fuori so chi andare a prendere”. La prendiamo
come una battuta, ma forse non lo è.
Forse pentito da troppa
confidenza, non c’è altro che vuole aggiungere (“niente, sono contento di
quello che ho fatto”), e usciamo dalla sede della Fulgorcardano. Fuori piove, e
dopo un giro per gli impianti della società, con grande gentilezza Gabriele ci
accompagna in macchina alla stazione di Gallarate. Durante il tragitto parliamo
del più e del meno, e a un certo punto Ambrosetti propone al signor Scandroglio
di mangiare un boccone insieme al ristorante, prima di tornare a lavorare. A
noi non ci considera proprio. Nondimeno, nell’ameno piazzale davanti alla
stazione ci salutiamo affettuosamente; una volta entrati nel fetido bar accanto
alla biglietteria, però, rimpiangiamo di non essere stati invitati a pranzo al
ristorante. Sul treno per Milano mi sfuggiva; ora invece, finalmente, capisco
il motivo per cui non ci disse nulla: aveva già intuito che avremmo rivelato
gli scabrosi aneddoti finali, e la vita è così, o ci si fida o non ci si fida,
o è bianca o è nera, non ci sono sfumature.
(fine. qui la prima parte)