Visualizzazione post con etichetta Amadeo Amadei. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Amadeo Amadei. Mostra tutti i post

giovedì 27 maggio 2010

La fede dei nostri padri

Ho sempre pensato che un giorno, vicino o lontano, mi sarebbe piaciuto portare i miei figli maschi allo stadio con me. Condividere il rituale della domenica con i propri eredi, uscendo di casa con i panini nello zaino, parcheggiare dietro Piazza Mancini per poi incamminarsi mano nella mano lungo Ponte Duca d’Aosta, comprare due Borghetti e discutere della possibile formazione e delle tante occasioni perse nel corso della stagione, e finalmente arrivare di fronte all’ingresso della Tribuna Tevere. Ebbene, ho sempre ritenuto questa possibilità di un romanticismo estremo. Il calcio dentro casa mia non ha mai avuto tanto spazio nelle conversazioni quotidiane. Mio padre è l’anticalcio per eccellenza, e per sua disgrazia si è ritrovato un figlio malato di Roma, a causa di una babysitter speciale che gli parlava sempre del nipote abbonato in curva Sud. Un altro personaggio che ha avuto un ruolo fondamentale è stato il fornaio dietro casa mia, oggi ottantaduenne, un tempo abbonato vitalizio della Roma. Uno di quei personaggi a cui i tifosi giallorossi devono tanto, avendo contribuito personalmente alla salvezza della società quel giorno al Teatro Sistina. È con lui che ho cominciato ad andare con una certa frequenza allo stadio. Erano i primi anni novanta, tribuna Tevere centrale, per tutti io, più o meno 10 anni, ero il Fornaretto. Arrivavamo presto, mangiavamo i nostri panini, e durante l’attesa io ero l’unico studente di un gruppo di professori romanisti che mi deliziavano con lezioni gratuite sulla storia della Roma. Campo Testaccio visto dai loro occhi di bambini appollaiati sul Monte dei Cocci, Amadeo Amadei il vero Fornaretto di Frascati, Ciccio Cordova dalla Roma alla Lazio, la Roma di Anzalone e Dino Viola, Agostino e Falcao, per poi concludere sulla finale di Coppa dei Campioni con il Liverpool. Per molti di loro, la storia finiva lì. Ero già un po’ più grande, ma neanche troppo, quando in occasione di un Roma-Inter, dissi che speravo in una vittoria della Roma contemporaneamente ad una sconfitta della Lazio. Non scorderò mai la risposta del mio professore preferito: “A Fornare’, e tu vvoi scopà con un dito ar culo!”. Dunque, dicevo che quegli anni e questi personaggi mi hanno forgiato calcisticamente, e se vogliamo anche un po’ caratterialmente. Sono loro che mi hanno fatto capire cosa volesse dire essere tifosi di questa squadra, parlandomi delle sue tradizioni e dei suoi incredibili personaggi. L’altro giorno ripensavo proprio a queste cose quando sono arrivato alla triste conclusione che i miei figli li farò giocare a pallanuoto e non li porterò mai allo stadio con me. Innanzitutto perché si deve cercare di regalargli una vita migliore rispetto alla nostra, con meno sofferenze e rimpianti. Probabilmente vedere mio figlio tredicenne, che dopo un Roma-Slavia Praga qualunque, si chiude in camera a piangere per colpa di una malattia che gli ho trasmesso io non mi farebbe stare bene. Quando mi capita di vedere quegli stupidi film adolescenziali dove ragazzini disperati smettono di mangiare, camminano per ore sotto la pioggia e si rovinano l’esistenza per colpa di un fidanzamento non riuscito, mi viene da sorridere. Io non sono mai stato così. Le sofferenze patite per colpa delle donne sono incomparabili con le lacrime versate - le ultime, ahimè pochi giorni fa - per la mia squadra del cuore. Poi è una questione di cattivi esempi. Come potrei far avvicinare queste creature ad uno sport che in Italia dopo essere stato gestito per anni da un mafioso è oggi dominato da un presidente minus habens che grazie alla sua faccia poco intelligente fa credere di essere una persona pulita. E che dire della mia presidentessa, grandi stipendi per tutta la sua famiglia, mogli, cognati, nipoti e badanti. E noi continuiamo a comprare l’abbonamento per permettere a questi signori di continuare a fare una vita agiata. Mio padre mi avrebbe dovuto prendere a bastonate invece di portarmi - controvoglia - al Roma-Bari del settembre ’90, per intenderci quello del Lipopil a Peruzzi e Carnevale. Avrei dovuto capirlo da subito che non era aria. Invece a distanza di ormai vent’anni continuo ad aggirarmi con i miei amici Olivo e Ale nei pressi dell’Olimpico, fermandoci sempre dallo stesso signore che ci vende i Borghetti - il grande Augusto, una vita passata a soddisfare le necessità alcoliche dei tifosi romanisti - ed entrando nel nostro settore ogni volta in condizioni psicofisiche precarie. Ancora mi emoziono come fosse la prima volta quando sento l’inno all’ingresso delle squadre in campo, mi piacciono le bandiere che sventolano, i fumoni e le torce, le imprecazioni del mio vicino di posto ed i cori di scherno nei confronti degli avversari ormai battuti. Non sto nella pelle ogni volta che vinco un derby, ed esco dallo stadio, felice ma distrutto, in trepida attesa del messaggio che mi manderà il mio amico Adone di Ostia che immancabilmente mi farà ridere a crepapelle. La domenica continua ad essere l’unico giorno della settimana in cui non ho bisogno di usare la sveglia. Come quando avevo otto anni, mi sveglio da solo, in tempo per andare a sostenerla. Per inciso, dal lunedì al venerdì, ogni mattina uso tre sveglie diverse. Mi incammino, incontro i miei compagni di viaggio, un paio di Borghetti lungo il ponte e alla Palla, sorridiamo, godiamo del sole che c’è ogni volta che la Roma gioca in casa, ed entriamo. Poi si può vincere oppure perdere, ma non è tanto questo ciò che ci interessa. L’importante è che ci permettano ancora di proseguire con i nostri rituali e le nostre abitudini, perché il tifo è amore e per comprare un biglietto è assurdo che si debba presentare il proprio certificato di nascita, accompagnato da codice fiscale e dichiarazione dei redditi. Ma, è vero scusate, questa è un’altra storia e comunque, io, i miei figli li faccio giocare a pallanuoto!