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sabato 13 ottobre 2012

Literaria. “Sforbiciate. Storie di pallone ma anche no”. Ognuno ha il suo filo in questo nodo



Che bello vedere in squadra insieme il Màgico Gonzalez e Franklin Lobos...
Norbeak badu bere haria korapilo honetan, ognuno ha il suo filo in questo nodo, con queste parole inizia - parlando, spiegando - il secondo brano dell’ultimo disco dei Lisabö, “Ez zaitut somatu iristen” (“Non ti ho sentita arrivare”), e ognuno ha il suo filo in questo nodo avrebbe potuto tranquillamente essere il sottotitolo delle storie di calcio, meglio, intorno al calcio, raccontate da Fabrizio Gabrielli nel suo bellissimo libro “Sforbiciate. Storie di pallone ma anche no” (Piano B edizioni, 2012), il libro che, in questo boom di letteratura calcistica spesso mediocre (a parte quando c’è di mezzo Klaus Kinski), stavamo aspettando con ansia e che, almeno per me, consacra il suo autore come l’Osvaldo Soriano italiano (e ho detto tutto).

Anche se non esiste una relazione apparente tra i personaggi e le storie che vengono raccontate - secondo una tecnica di storie vere ma inventate che più che il realismo fantastico dei vari Felisberto Hernàndez (il pianista uruguaiano è omaggiato con l’ultimo racconto, peraltro forse uno dei meno riusciti, dedicato all’Atalanta europea di Stromberg e Nicolini), Juan Josè Arreola o Julio Ramòn Ribeyro, di cui l’autore (ispanista e latinamericanista dichiarato) si dichiara debitore ad ogni capoverso, mi ha ricordato quella usata dal nostro amico Tamas nel suo pregevole “Storie al margine”, partire da fatti realmente successi e modellarli con l’immaginazione - ho ritrovato nella nostalgia, nelle mille (stavo per scrivere cinquanta, maledetto Occidente) sfumature che la nostalgia può assumere, il fil rouge di questa raccolta di volti e tiri e parate e amori e morti e racconti che si affastellano nelle pagine ispirate di Gabrielli, la stessa nostalgia che ho trovato nelle ubriacanti pagine dell’ultimo Arbasino (“Pensieri selvaggi a Buenos Aires”) quando ricorda, pur se magari non sono ricordi suoi, “quanti tanghi e fandanghi e consumazioni di sangrìa e carioca e tequila con Django e Durango nei decenni adolescenti, colmi di balere e boleri e bandoneòn da caballero stanco su un suo caballo blanco o bronco…”.

Ma chi sono i fili di questo nodo? Nell’immaginario collettivo di Gabrielli, che potremmo dire, ci piacerebbe dire, ma in fondo lo possiamo dire, è anche il nostro, solo per citarne alcuni, c’è George Best adolescente a Belfast che non dimenticherà mai la piccola Claire e il suo vestito bordeaux; c’è Salvador Dalì che da ragazzo, a Figueres, più calciatore che surrealista, ritrae i suoi amici che giocano nella squadra locale (neanche a farlo apposta, ho letto questo racconto nel giardino del castello di Pùbol, che Dalì regalò e arredò per gli ultimi anni di vita della sua amata Gala, peraltro un gran mignottone); c’è Virgilio Felice Levratto, mitico centrattacco degli anni venti, passato direttamente dal Vado in serie B alla nazionale; c’è Tony Vairelles, che per una stagione è stato il Django Reinhardt (il genio che una volta disse “un giorno sono andato a scuola. Un giorno, poi basta”) del football francese; c’è Freddy Rincòn che si porta dietro i riti voodoo, la negritudine e i Tristes Tropiques di Buenaventura; c’è il più grande medico argentino che gioca contro il River Plate; c’è - e come poteva mancare?- il Màgico Gonzàlez che la mattina non si sveglia perchè la sera fa tardi con Camaròn (e c’è anche il nostro orgoglio per aver contributo a farlo diventare l’idolo che è); c’è un arbitro tahitiano che fa tirare all’infinito un rigore alla Tunisia contro la Serbia; c’è il rimpianto per i giocatori che un tempo non erano cognomi su una magliettina griffata, ma erano numeri, “e il numero ha un compito”; c’è l'elogio della locura di Martin Palermo con i suoi tre rigori sbagliati in una partita; ci sono calciatori che fanno politica; c’è Ali Gagarine, la stella più brillante del calcio sudanese; ci sono i teddy boys con la kippah giallonera del Beitar Jerusalem (“Mi chiamo Itzik e sono un tifoso del Beitar. Tutto il resto è merda”, una frase che potrebbe averla scritta Bostero); c’è un prete-presidente di una squadra di calcio giovanile di Terracina; c’è Berni, vicecomandante del Battaglione Ravenna, terzino e partigiano; c’è Franklin Lobos e il deserto arancione del Cile pieno di rame (el Mortero Màgico di cui Bostero ha scritto davvero); ci sono le bandiere con i teschi del Sankt Pauli; c’è l’aereo della Suriname Airwyas carico di giovani olandesi, i Coloratissimi, che si schianta prima di arrivare a destinazione; c’è Ramòn Quiroga che - in risposta ad un certo viaggio in piroscafo - racconta la sua versione del Mundial ‘78 a Clarita Cruz, che scriveva di calcio nel Perù degli anni settanta (“Li cavalcavo. E loro: giù fiumi di parole”); c’è un portiere monco; c’è il presidente evangelico del TP Mazembe; c’è la gang dei fuori di testa del Wimbledon (e purtroppo c’è anche Justin Fashanu, “che si è impiccato come un sacco dei palloni nello spogliatoio”); ci sono le sciarpe del Club Ferro Carril Oeste che sventolano quando Geronimo Saccardi a fine partita regala la maglia ai tifosi assiepati al Caballito; c’è Roberto Trotta che viene ridicolizzato da Sean Dundee a Karlshue (e chi se lo dimentica!); c’è Garrincha che s’è trasferito a Torvajanica e “pe racimolà du spicci aveva fatto er capitano pe na squadra de studenti de giurisprudenza e l’ala pe ‘a formazione da giggièlle, crossato pei còrpi de testa de metalmeccanici e zappatori”; c’è la promessa paraguaiana del Vicenza che perde un braccio in un incidente stradale ma torna in patria a giocare; ci sono i derby di Sheffield e quelli di Edimburgo; c’è il sogno di Pedro Paulo Futre (e di tutti i tifosi della Reggiana) spezzato dall’entrata di un tale Matteo Pedroni (A boca amarga, mate dulce si titola il racconto, e a boca amarga mate dulce è senza dubbio il mio proverbio preferito in spagnolo); c’è l’inventore della chilena; e insomma si è capito che tipo di gente c’è. Mancano solo - di nuovo Arbasino -, ma l’universo culturale è quello, 

 “coppie miliardarie argentine e brasiliane in lini bianchi e vaporosi volants magnificamente stirati. Favolosi gioielli ostentati con nonchalance anche in trattoria su puntarelle e rucole. Bei signori alti e bruti con smisurate haciendas, l’occhione accorato sotto le folte ciglia, i baffetti da ambasciatore, e i riccioli lucidissimi in fondo alla nuca, al termine di ciocche nerissime cementate da gomine trendy per gentlemen d’epoca…”.
Se è vero, come diceva Kant, che gli oggetti artistici forniscono essenzialmente un’esperienza immaginativa sia per i produttori che per i fruitori, allora posso dire - da fruitore - che “Sforbiciate” assolve pienamente al suo compito di oggetto artistico. Mentre lo sfogliavo, seduto da solo all'angolo di un tavolo di Kibuka, non mi sono neanche accorto del cibo che mangiavo. Ero completamente assorto dalla lettura. Ero da un'altra parte, forse in macchina con l'autore, andando verso qualche stadio derelitto della pampa. Tutti i tentativi di scrivere di calcio con lo scopo di aprire un mondo, un altro mondo, impallidiscono di fronte a questo libro. Sempre Kant si era inventato la teoria dello Steckenpferd, il chiodo fisso, il pallino (che esemplifica in un cavallino di legno), per dire che il primo “paese” che si incontra oltre il confine del sano intelletto è l’avere un pallino, lo Steckenpferd appunto, la passione di occuparsi intenzionalmente di oggetti dell’immaginazione, e tante volte, in tanti libri, questo cavallo di legno è stato solo dipinto, e il lettore, e noi, ci siamo limitati a guardarlo, qui invece è come se il cavallo di legno fosse stato costruito, e io l’ho cavalcato, e anche di gran gusto.

Ho letto da qualche parte, o forse ho sognato, questa frase che mi è rimasta impressa: l’addio è una riunione fatta per separarsi. È in questo paradosso - riunirsi per separarsi - che si racchiude la tristezza di ogni addio, e di quasi tutte le cose della vita. Il mio concerto dei Lisabö (il cui disco, ormai si è capito, è “l’oggetto artistico” che più ha segnato quest’anno solare, l’elemento da romanzo di formazione - insieme, appunto, al loro concerto - cui lo associerò tra vent’anni), a giugno, a Barcellona, all’ora del crepuscolo, con l’effimera compagnia degli amici spagnoli e inglesi rivisti, per l'occasione, dopo parecchi mesi, non fa eccezione. E non fa eccezione neanche questo libro, in cui tutti questi personaggi si riuniscono ma solo per separarsi, e allora questo è un libro che va letto e forse anche riletto, perché non ci sono solo loro, ma anche noi, e ognuno di noi ha il suo filo in questo nodo. Norbeak badu bere haria korapilo honetan.