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martedì 1 luglio 2014

Perchè non hai riso, Thomas Müller?

La Caduta

"Bene. Torniamo, se permette, al suo caso. Cosa mi può dire in proposito?" Gli ripetei il racconto che avevo fatto a Brandt. "E' una storia spaventosa. Deve esserne rimasto sconvolto". "Certo, Herr Standartenführer. E lo sono stato ancora di più per le accuse di quei due difensori dell'ordine pubblico, che non hanno mai, ne sono sicuro, passato un solo giorno al fronte e che si permettono di diffamare un ufficiale delle SS". Baumann si grattò il mento: "Posso capire fino a che punto tutto ciò sia offensivo per lei, Obersturmbannführer. Ma forse la soluzione migliore è fare piena luce su questo caso". "Non ho nulla da temere, Herr Richter. Mi rimetterò alla decisione del Reichsführer".

Jonathan Littell, "Le Benevole"

Perchè non hai riso, Thomas Müller, quando, ormai agli sgoccioli dei tempi regolamentari della partita contro l'Algeria, ti sei rialzato dopo essere caduto goffamente a terra nel tentativo di sviluppare uno schema (o dovrei dire una coreografia? Un omaggio a Roland Petit forse?) su punizione insieme ai tuoi compagni? Peccato Thomas Müller, avresti potuto portare uno squarcio di umanità in una squadra che di umano ha poco (penso alle sembianze gelide e alle qualità atletiche bioniche del tuo portiere Manuel Neuer, simulacro tardivo di eugenetica nazionalsocialista), un momento di gioco in un contesto che di giocosità non ha più nulla, solo i ridicoli scarpini bicolori, ridicoli come un pagliaccio che racconta un funerale. Ti saresti potuto rialzare ridendo in maniera liberatoria, ridendo di te stesso ma anche dell'idiozia di chi ha pensato uno schema del genere (invece di tirare in porta) e della mentalità da zu Befehl dei tuoi compagni di squadra, soprattutto di quel Bastian Schweinsteiger che si capisce lontano un miglio che se gli dicono buttati nell'Elba, lui si butta, pure se è inverno, pure se ha i vestiti addosso, se gli dicono fucila quei prigionieri nel fienile, lui li fucila, pure se non li conosce, se gli dicono fai lo schema B4 su punizione lui lo fa, pure se gli sembra una cazzata. Peccato Thomas Müller, la tua risata avrebbe contagiato anche gli avversari, Yacine Brahimi sarebbe venuto ad abbracciarti, Islam Slimani ti avrebbe dato una pacca sulla spalla, Rafik Halliche avrebbe riso insieme a te e con Sami Khedira si sarebbero ricordati di quella volta che.... Peccato Thomas Müller, ci avresti ricordato che nonostante i soldi, le televisioni, le pubblicità, i jingle, le magliette tecniche, gli stadi futuristici, i palloni iper-tech, la tensione, la cosiddetta posta in palio, i moduli tattici, alla fine, Thomas Müller, tu sei solo un ragazzo di 24 anni che sta giocando a pallone con un gruppo di amici, e che la cosa ti rende sì un professionista dello sport, ma ti diverte anche, come quando eri bambino, e giocavi con la palletta di spugna in camera tua, facevi le rovesciate contro l'armadio, e tua madre s'incazzava perchè così rompevi il letto. 


Javier Marìas raccontava di come i giocatori del Real Madrid plurivincitore della Coppa dei Campioni, capitanati da Alfredo Di Stéfano, in campo si divertivano come matti tra tacchi, raboni, finte fini a se stesse, facendo infuriare l'allenatore. Racconta lo stesso Di Stéfano a Marìas (mi permetto di tradurre): "L'allenatore a volte si innervosiva e mi chiedeva di non fare colpi di tacco, perchè contagiavo i miei compagni; perchè se io facevo dei colpi di tacco andava pure bene, diceva, però se li faceva l'intera squadra era un suicidio; ma alla fine, dovevamo pure divertirci un po', o sbaglio?". Eppure non sembrava che tu ti stessi divertendo, Thomas Müller, non hai riso quando sei caduto e hai perso l'occasione di portare la follia di una risata liberatoria in campo, costringendoci ad associare il sorriso, così malvisto (i grandi campioni - Ibra, Leo, CR7 - non ridono mai, al massimo s'incazzano), allo sguardo da ebete di Cafu, alle finte di Robinho, ai funambolismi di Denilson, insomma a quei bidimensionali dei brasiliani, che tanto conoscono solo l'allegria o la tristezza, la tristezza o l'allegria, e la saudade appena l'aereo supera le acque territoriali.

Scriveva Juan Manuel de Prada che l'atteggiamento di un bambino di fronte alla vita è inaugurale, mentre quello di un adulto è reiterativo. Crescere è scendere a patti con una realtà che si ripete, e adattarsi alla forma di quella realtà ripetuta, convertirsi in creature in serie, con comportamenti prevedibili, con parole sprecate, con sentimenti e passioni stereotipate, con preoccupazioni triviali, trite e ritrite. Juan Manuel de Prada, caro Thomas Müller, sta parlando di te. Hai fatto quello che ci si aspettava, hai negato la caduta, il fallimento dello schema, il ridicolo generale. Non avresti potuto accettare di essere proprio tu - un tedesco affidabile, con un compito ben preciso, nonostante il tuo vagabonadare picaresco per tutto il fronte d'attacco - colui che con una risata ci avrebbe liberato dalla schiavitù di essere figli del calcio del nostro tempo, un calcio che non sa affrontare la caduta con naturalezza. Piuttosto, in quei millesimi di secondo in cui sei rovinato a terra, avresti preferito rompere la capsula di cianuro che tenevi tra i denti, nel bunker di Porto Alegre.

Forse il tuo voleva essere soltanto un omaggio a Simone Perrotta, l'uomo che segnava solo cadendo, e quindi non c'era niente da ridere, perchè la caduta faceva veramente parte dello schema, e nessuno l'ha capito. O forse ti sei sentito in colpa perchè con quella caduta hai rovinato ai nostri ferventi tatticomani, che avevano già salvato sul computer una copia dello screenshot con l'inquadratura della punizione, e già stavano iniziando ad ornarla con cerchi rossi intorno ai giocatori, frecce blu per indicare i loro movimenti, linee tratteggiate gialle per spiegare la traiettoria del pallone, la possibilità di spiegarci che con quello schema basato sulla successione di Fibonacci la Germania non poteva non segnare il gol bellissimo che stava per segnare. O forse la tua caduta era proprio un atto ribelle contro questa assurda pretesa di considerare che il calcio sia una scienza esatta, per sbugiardare plasticamente la propensione della nosta epoca che aspira a capire tutto e che però, attraverso le sue spiegazioni, solo riesce a fare in modo che tutto ci risulti indegno di essere capito, perchè lo spoglia di ogni mistero, così come sono stati sbugiardati gli architetti italiani che nel cinquecento iniziarono a tracciare progetti di giardini che simulavano strade, piazze, prospettive urbane, la lotta contro la natura selvaggia, la convinzione - forse - che il mondo è razionale. Ma allora potevi ridere, Thomas Müller, e noi ti avremmo capito, avremmo riso con te, e i tuoi compagni avrebbero riso con te, e gli algerini avrebbero riso con te, e questo sarebbe stato ricordato come il Mondiale in cui un tedesco ha riso dopo essere caduto e nessuno ha pensato alla caduta, perchè tutti hanno pensato alla risata.

domenica 31 marzo 2013

Dal diario di Rachid Mekhloufi. Il calciatore che giocò per la rivoluzione.



Risking all to believe in what is just (...) Giving up glory to fight for a cause (...) Forgetting a career to join a revolution (...) Taking the risk to avoid regret (...) Becoming the symbol of a struggle (...) And playing, playing, playing (...) Using football as a propaganda tool.







Saint-Étienne, 12 aprile 1958

La voce della donna al telefono mi avvisa che è un’interurbana. Qualche rumore d’interferenza poi, tra le scariche elettriche della linea, ecco la voce di Mustapha Zitouni. Dice che è d’accordo anche lui: domani si parte. Fino a questo momento Mustapha era il più restio del gruppo. A 30 anni sarebbe stata la sua ultima possibilità di giocare un Mondiale, e le recenti prestazioni al centro della difesa del Monaco quest’estate in Svezia ne avrebbero fatto un titolare fisso dei Bleus. Ma tra marcare da vicino la grande stella brasiliana Didi, e tentare una pericolosa fuga verso l’ignoto, anche lui ha scelto la seconda opzione. Mi spiega che lui e altri compagni approfitteranno di una trasferta a Nizza per passare da lì il confine. Ci si vede a Roma tra un paio di giorni, dice sforzandosi di sembrare tranquillo, quasi allegro. Ma la voce tradisce paura. Non è semplice, lo capisco, se li fermano alla frontiera possono arrestarli. Ma lui sa che per me è ancora più complicato: io sto svolgendo il servizio militare nel Battalion de Joinville, se mi arrestano sono un disertore.

Domani è un altro giorno, eppure stasera sono ancora un semplice calciatore. Anzi, a dirla tutta sono il migliore, sono un idolo paragonabile a un attore del cinema. Sono il Cary Grant di questo fottuto paese. Mezz’ala d’immenso talento, con la maglia dei verts del Saint-Étienne ho già vinto uno scudetto segnando caterve di gol. L’anno scorso ho portato la nazionale militare al trionfo ai mondiali di categoria e da allora, a soli 21 anni, sono già titolare indiscusso della nazionale francese: la stella più attesa al Mondiale che si avvicina. Ma io quella competizione non voglio giocarla con la Francia, io la Coppa del Mondo voglio vincerla per il mio paese. Nessun rimpianto, la decisione è oramai presa: dimenticare il presente per non avere nostalgia del passato, abbandonare tutto quello che ho raccolto fino ad oggi per tentare di conquistare l’impossibile. Mi accendo l’ultima sigaretta e lascio che il mio sguardo si perda nel rigoglioso giardino primaverile che mi si apre davanti. Ma oramai in quel verde riesco a vedere solo sabbia e deserto. Vedo casa mia: l’Algeria.

Ginevra, 13 aprile 1958

La mattina sveglia presto, mi rado e mi spruzzo di acqua di colonia: non troppa, per non attirare l’attenzione. L’appuntamento è per le dieci in stazione, alcuni si sono messi una crema schiarente sul viso: troppi arabi che vogliono passare un confine insieme, l’Europa li ha sempre visti malvolentieri. Figuriamoci nel 1958. Un giorno sarà diverso, e potremo attraversare tutte le frontiere senza problemi. Anche per questo voglio andare. Alla dogana con la Svizzera nessuno ci crea problemi, le guardie mi riconoscono e ci fermiamo un po’ a parlare di calcio: del gol che ho segnato allo Stade de Remis infilando sotto le gambe Colonna, il miglior portiere del paese. Solo tra qualche anno saprò che quel confine l’ho passato per pochi minuti, che un dispaccio del ministero telegrafato da lì a poco in tutto il paese avvisava la polizia di frontiera di fermarci e arrestarci sul posto. A sera siamo a Ginevra. Passeggiando lungo il lago rimaniamo incantati dal jet d’eau. Siamo tutti ragazzi e, benché calciatori famosi, del mondo non abbiamo ancora visto nulla. Mohamed (Soukhane) per esempio gioca a Le Havre, che su in Normandia è pieno di algerini, chiamati per la ricostruzione dopo la Guerra. Dahmane (Defnoun) invece gioca ad Angers. Non sanno nulla di quello che sta succedendo in Algeria. Io invece sono nato a Sétif, e la violenza mi è entrata in casa fin da piccolo.

Avevo nove anni quel giorno, e con i miei compagni di scuola anch’io ero in strada a manifestare. I grandi ci avevano spiegato che era il giorno in cui i nazisti si erano arresi agli Alleati, e allora ci avevano chiesto di fare dei disegni che raccontassero ai francesi che la loro occupazione sulle nostre terre era illegale come quella dei nazisti da loro. Che si stavano comportando esattamente come quei mostri che avevano combattuto. Doveva essere un giorno di festa, non sapevo che si sarebbe trasformato in un massacro. La gendarmerie e i pied-noirs si sono comportati come belve, la carneficina è andata vanti quasi una settimana. Non ho mai visto così tanto sangue in giro. Due anni dopo sono andato in Francia, dove sono diventato un calciatore ricco e famoso. Di Sétif ho rimosso tutto, fino a quando il mese scorso non mi è arrivata una lettera dal carcere di Parigi firmata Ahmed Ben Bella. Anche Ben Bella ha giocato a calcio: una volta con la maglia del Marsiglia ha battuto le Antibes per 9-0, segnando un gol. Poi ha deciso di disertare dall’esercito francese e di combattere per il suo paese. E ha fondato il FLN. Quando racconto a Defnoun e Mohamed la storia di Sétif, di Ben Bella, e del FLN, mi guardano con occhi sgranati: sono più affascinati dalla rivoluzione che non dal jet d’eau del lago di Ginevra.





Roma, 15 aprile 1958

Abbiamo passato anche il confine svizzero e siamo arrivati a Roma, dove ci aspetta l’aereo che deve portarci a Tunisi. La luce del mattino disegna i contorni di una città meravigliosa, ma l’idillio è interrotto quando ci portano i quotidiani francesi del giorno prima: le aperture sono tutte dedicate alla clamorosa fuga di nove giocatori algerini, che ora rischiano l’arresto. Io, che sono militare, sono considerato anche un disertore. Poche settimane dopo sarò condannato a dieci anni in contumacia. Ma la paura e lo sconforto del momento lasciano posto alla gioia quando ci ricongiungiamo con i fratelli che hanno passato il confine a Imperia. Ci abbracciamo calorosamente. A guardarci, già così siamo una delle nazionali di calcio più forti al mondo. Ci manca solo la nazione per cui giocare. L’Algeria ancora non esiste.

Quello che sappiamo mentre ci dirigiamo all’aeroporto è solo che abbiamo lasciato la fama e la ricchezza di un paese che non ci appartiene per servire il nostro popolo, non sappiamo ancora né come né quando sarà possibile farlo. Quello che sappiamo è che giochiamo bene a calcio, non sappiamo ancora se potrà essere questo il nostro contributo alla rivoluzione. Nessuno l’ha mai fatto prima di noi, non siamo sicuri che funzionerà, ma dobbiamo provarci. All’aeroporto di Ciampino, prima di imbarcarci sul volo che ci deve portare a Tunisi, siamo circondati dai flash dei fotografi. La notizia della nostra fuga si è diffusa. Sono lì quasi tutti per me: il Cary Grant francese, il fenomeno del Saint-Étienne, il più talentuoso giocatore che abbia mai indossato la maglia dei Bleus. Il pazzo che decide di abbandonare la nazionale francese a pochi mesi dall’inizio del Mondiale di Svezia.


Baghdad, 25 febbraio 1959

E’ nella culla della civiltà che per la prima volta sentiamo suonare il Kassaman, la musica patriottica che poi diventerà inno nazionale algerino. L’emozione è tale che nessuna vittoria con la maglia dei Bleus - i cui giocatori l’anno scorso ci hanno dedicato il Mondiale svedese, concluso con un’onorevole sconfitta nei quarti per 5-2 con il Brasile - potrebbe essere paragonata alla gioia di questo momento. Mentre risuonano le note del Kassaman, capiamo quanto il calcio sia importante per la costruzione di un’identità nazionale anticolonialista, e di come noi stiamo facendo la storia. Sono passati pochi mesi dal nostro arrivo a Tunisi e dalla creazione di una nazionale di calcio del FLN. Oggi a Baghdad della nazionale irachena ci sbarazziamo agevolmente, come abbiamo fatto di tutte le altre compagini affrontate fino a qui e di tutte quelle che incontreremo in seguito. Alla fine, nei quattro anni dal 1958 al 1962, giochiamo 90 partite in giro per il mondo, di cui ne vinciamo ben 65 diventando la rappresentativa nazionale più vincente della storia, se solo fossimo stati riconosciuti come tale. Ma non ci importa nulla, quello che ci interessa è che stiamo aiutando il nostro paese nella propaganda rivoluzionaria, che anche noi, a nostro modo, stiamo combattendo per l’indipendenza della nostra terra.

Il ricordo più bello è senza dubbio il viaggio a oriente. Cominciamo dalla Jugoslavia di Tito, che battiamo 6-1 in uno storico match. Poi la Cina e il Vietnam, dove ad attenderci c’è Ho Chi Minh in persona, e sul campo a onorarci prima della partita scende anche il generale Giáp. Sarà lui, scherzando, a dirci che siccome loro hanno sconfitto la Francia in battaglia e noi abbiamo battuto loro a calcio, allora siamo anche noi degli sporchi francesi. E’ in Vietnam che ci rendiamo conto che la lotta di un paese contro l’oppressore deve necessariamente essere la lotta di tutti i paesi contro tutte le oppressioni. E capiamo che anche noi, giocando a calcio, abbiamo contribuito alla lotta antiimperialista per l’indipendenza e l’autodeterminazione dei popoli. Dopo gli accordi di Evian del 1962 e l’indipendenza dell’Algeria, è Ben Bella in persona a concedermi il permesso di tornare in Francia, dove mi concedono un’amnistia. Ho solo 25 anni, e con il Saint-Étienne vinco altri tre scudetti, una Coppa di Francia e una Supercoppa. Ancora oggi sono il miglior marcatore dei verts con 192 gol. Nel 1962 viene sciolta anche la gloriosa nazionale del FLN, e da allora gioco per quella algerina, di cui diventerò anche allenatore. Perché in fondo io sono semplicemente un uomo di calcio, anche se sono contento di aver giocato per la rivoluzione. E di aver vinto.



mercoledì 18 novembre 2009

La partita del cuore

Si parlava di politica nel calcio qualche post addietro,di come qualche partita potesse in qualche modo essere alterata in campo e sugli spalti da qualche seria diatriba storica o semplicemente folkloristica,ieri a Omdurman è probailmente accaduto l'inverso,ovvero una partita di calcio è riuscita a rompere forse per sempre l'armonia di due nazioni storicamente "Amiche". Nel 1896 Omdurman fu teatro di una sanguinosa battaglia tra anglo-egiziani e Dervisci(grazie wikipedia! prima di oggi pensavo Omdurman fosse una marca di dentifricio) il 18 Novembre del 2009,Omdurman sobborgo di Karthoum, capitale del devastato Sudan, è tornata alle cronache mondiali grazie ad un altra guerra. Algeria-Egitto spareggio secco per la partecipazione al primo mondiale in Africa della storia,quello che si terrà in Sudafrica nel 2010. Il calcio africano è in continua evoluzione grazie anche alla serie di giocatori squisitamente tecnici(e non solo tutto fisico e polmoni) che in questi ultimi 15/20 anni hanno scalato la ribalta europea e internazionale. Algeria-Egitto riporta il calcio del continente nero(grazie Edoardo Vianello per il prezioso sinonimo)a livelli tribali o almeno così poteva sembrare prima del match.Intendiamoci, il clima era effettivamente da Banlieue parigina sull' orlo di una sommossa,ma con mia(e credo anche vostra) grande sorpresa l'organizazione sudanese ha retto l'urto delle 2 agguerite tifoserie nord-africane. In uno stadio stracolmo di algerini,egiziani e ben 15mila inquietanti poliziotti sudanesi a farla da padrone è la giustizia, divina o terrena che sia, che restituisce ai magrebini un mondiale scippato pochi giorni prima al Cairo. Nel gruppo c della zona africana Algeria e Egitto hanno chiuso appaiate sia nei punti che nella differenza reti in virtù del 2 a 0 siglato dai faraoni con Moteab al 95. Nel pre partita una situazione a dir poco ostile aveva visto accogliere il pullman algerino a suon di sassate. L' Algeria qualificata fino al 95simo è stata probabilmente(....)condizionata dalla pesante aria che si respirava al Cairo. Ieri in Sudan ha prevalso invece, il merito di una nazionale più determinata e decisamente in crescita,con un ammonito finito sul tabellino dopo soli quaranta secondi,con un difensore come Yahia(ex primavera Inter)che inventa un goal da centravanti puro,con i nervi ben saldi nonostante davanti avessero i campioni d'Africa,con un portiere di 24 anni che gioca da veterano senza farsi prendere dal panico neanche dopo un grave errore.Benzema e Nasri per fare solo due esempi, sono talenti prestati alla nazionale francese ma con chiare origini algerine,che aumentano il rimpianto di una nazione che vede da sempre i propri campioni indossare la casacca bleus(vedi Zidane).Ieri l'Algeria intera è tornata a sognare,non lo faceva dai tempi del mondiale del 1986 da quando in campo scendeva il due volte pallone d'oro africano Rabah Madjer detto il "tacco di Allah",da quando nel 1990 alzò il suo unico trofeo la coppa d'Africa.Sono passati 23 anni dal suo ultimo mondiale dopo una sofferenza immane fatta di sassi,crisi diplomatiche e spareggi blindati ed infiniti.......ma scommetto che non esiste un solo algerino sulla faccia della terra che non ammetta che ne sia sinceramente valsa la pena.