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venerdì 29 maggio 2015

Hasta el año que viene, eh?

Piru Gaìnza, eterno capitàn
Aveva dormito male, malissimo. Anche se non ricordava cosa aveva sognato, era sicuro di aver avuto almeno un paio di incubi orrendi. Ora aveva un mal di testa lancinante e gli sembrava che lo stomaco si fosse ripiegato su sé stesso.

Non mangiò niente, bevve solo un caffè che però non risolse la situazione. Allora prese un paio di aspirine e sperò che il dolore passasse. Annullò tutti gli appuntamenti e ordinò di non essere disturbato. Doveva riposare. Alle 18.15 sarebbe iniziata la partita, e lui avrebbe dovuto essere in piena forma per assistervi.

Quella storia stava iniziando davvero a stancarlo. Tutti gli dicevano che sarebbe stata una passeggiata, ma in fondo che ne sapevano loro? Erano abbagliati dalla vittoria in Coppa dei Campioni contro il Milan di Liedholm, dalle magie di Di Stéfano, dai dribbling di Gento, dalla regia sopraffina di Kopa. A lui invece il calcio faceva schifo, letteralmente. Gli era utile, certo, ma vedere quei 22 imbecilli correre avanti e indietro per disputarsi una stupidissima palla lo faceva quasi infuriare. Ed era proprio perché detestava il calcio che non si sentiva sicuro. Chi profetizzava una vittoria sicura del Real Madrid, a cui niente e nessuno avrebbe potuto togliere il primo triplete della storia del calcio spagnolo, non aveva capito nulla. Né del fútbol, né della gente che il Madrid si sarebbe trovato davanti quella sera.

I baschi... Avrebbe pagato un milione di pesetas per ogni abitante di quel buco per mandarli tutti in Siberia, o nel Sahara, o da qualunque altra parte che non fosse la Spagna. Gente testarda oltre ogni dire, orgogliosa fino all'autolesionismo, attaccata a quel pezzetto di terra come un neonato alle tette della madre. Se c'era una cosa che lo faceva infuriare più del calcio, erano i baschi. E stasera se li sarebbe trovati davanti.


Era stato un errore far giocare la finale a Madrid, lo sapeva fin dall'inizio. Quell'idiota di Alonso Vega, invece, aveva insistito fino a prenderlo per sfinimento, ma quando aveva proposto a Guzmán, il presidente dell'Atlético (denominazione dell'Athletic durante il regime, ndr), di giocare al Metropolitano, quello aveva tirato fuori una bilbainada: niente Metropolitano, giochiamo al Bernabéu, così potranno arrivare più tifosi da Bilbao. Poteva sembrare una sbruffonata, una bilbainada appunto, ma lui era convinto che in realtà Guzmán avesse servito a tutti loro una polpetta avvelenata. Ora Madrid era piena di migliaia di tifosi bilbaini, scesi in macchina, in taxi, perfino con un treno speciale da 20 vagoni, e quasi tutta la Spagna, anche quella che non poteva soffrire i baschi, aveva finito per simpatizzare con l'Atlético. 

La partita era diventata proprio quello che lui non voleva: una sfida tra Davide e Golia davanti ad un'intera nazione. Qualcuno gli aveva detto che quel giorno, più o meno alla stessa ora, in Svezia si sarebbe giocata la finale del Campionato del Mondo tra i padroni di casa e il Brasile, ma era pronto a scommettere che in Spagna nessuno o quasi l'avrebbe seguita. Ogni radio del Paese sarebbe stata sintonizzata sulla sfida del Bernabéu. Perfino la TVE, la televisione di Stato, avrebbe trasmesso l'evento. Una sola, stupidissima partita avrebbe potuto trasformarsi in una figuraccia nazionale.

Basta, non doveva pensarci più. C'era da rompersi la testa, e in ogni caso non poteva far più nulla. Aveva perfino consultato una delle sue cartomanti favorite, ma il verdetto favorevole ai blancos non lo aveva comunque reso più tranquillo. Il mal di testa era ancora lì a tormentarlo. Per smettere definitivamente di rimuginare sulla partita decise di tornare a letto. Lo comunicò all'attendente e chiese di essere svegliato alle 16. Forse, per quell'ora, il dolore sarebbe sparito, e con esso anche quella sensazione di beffa imminente che non voleva proprio abbandonarlo.




La comoda poltrona della tribuna delle autorità gli sembrava quasi uno strumento di tortura medioevale. Il sonno non aveva giovato: si era alzato tutto indolenzito e il mal di testa stava martellando con più forza di quando si era coricato. E le chiacchiere, le chiacchiere intorno a lui, continue e fastidiose... lo stavano facendo impazzire. Era in momenti del genere che si rendeva conto di essere circondato da dei veri imbecilli.
“Quanti gliene facciamo, oggi?”
“Visto che in campionato è finita 6-0... almeno sette, forse anche otto!”
“E da loro come è andata?”
“2-0 per noi, se non ricordo male. Questi non ci segnano neppure fra un anno!”
Erano talmente tronfi e boriosi, tutti quanti, da non prendere neppure in considerazione l'idea di una sconfitta. Stavano commettendo un errore fatale: sottovalutavano gli avversari. Lui non lo aveva mai fatto, per questo era ancora lì. Pregò che i giocatori del Madrid non cadessero in quel tranello. Carniglia, a quanto si diceva, era un buon allenatore, ma in campo non andava lui. Gento era rotto. E gli extranjeros non potevano giocare: sarebbe stato ridicolo, nella Copa del Generalísimo. Le merengues sarebbero scese in campo con qualche riserva di troppo, mentre davanti a loro l'Atlético sarebbe stato quello di sempre, solido e rodato: per un club che utilizzava solo giocatori del País Vasco, il divieto di far giocare stranieri in Coppa era irrilevante. Undici baschi pronti a tutto per vincere. Anzi, a ben guardare erano qualcosa di più di undici baschi: erano undici vizcaínos, tutti provenienti dalla stessa, piccola regione. Soltanto un cieco o uno stupido non avrebbe fiutato il pericolo. Per fortuna nessuno gli rivolse parola, altrimenti avrebbe anche potuto diventare scortese. Quando non era aria, i topi lo fiutavano subito e se ne stavano in disparte. Solo la moglie provò a conversare con lui, ma quel giorno anche Carmen gli dava sui nervi.

Dopo un'attesa che gli sembrò infinita, la squadre entrarono finalmente in campo. Il Real Madrid, nel suo classico completo bianco, scompariva nel contrasto cromatico col biancorosso della maglia e il nero dei pantaloncini dell'Atlético. Un altro segno che non lo lasciò tranquillo. Osservò i capitani scambiarsi il saluto. Juan Alonso, portiere del Madrid, tornò verso la sua area, mentre Gainza si voltò verso la tribuna delle autorità. Ebbe l'impressione che cercasse proprio lui, anche se da quella distanza sarebbe stato impossibile affermarlo con certezza. La partita iniziò subito dopo, accompagnata dal boato dei 125.000 spettatori in delirio. Nonostante i tifosi di Bilbao fossero scesi nella capitale in un numero pazzesco per l'epoca, i loro incitamenti erano impossibili da udire nel caos delle grida dei sostenitori madridisti. Lo stadio era una marea in costante movimento. Le curve e la tribuna di fronte alla sua ondeggiavano ad ogni azione pericolosa, rispondendo agli stimoli del campo come se fossero dotate di vita propria. Per un po' anche lui fu affascinato da quello spettacolo impressionante. Col passare dei minuti, però, l'iniziale entusiasmo del pubblico si attenuò, sostituito da un sordo mormorio che accompagnava ogni sortita offensiva dell'Atlético. I bilbaini tenevano bene il campo, erano compatti e non parevano soffrire la pressione di giocare in quello stadio contro i freschi tricampioni d'Europa, e la gente se ne stava accorgendo.
 
Iniziò ad agitarsi impercettibilmente sulla poltrona. I suoi occhi piccoli e stretti si posavano sempre più spesso su Gainza, che a 36 anni compiuti si muoveva sulla fascia con un'eleganza ancora senza pari. In particolare, era rapito dal piede sinistro di Piru, come lo chiamavano i tifosi: più che un piede gli sembrava una mano guantata, che accarezzava con dolcezza il pallone ma sapeva anche colpire come un pugno sferrato all'improvviso, di pura potenza. Gli altri giocatori, quando non sapevano cosa fare, gli davano la palla e aspettavano, sicuri che non l'avrebbe persa. Cosa che, infatti, non accadeva praticamente mai. Lui non seguiva il fútbol, ma ciò non significava che non sapesse tutto di Gainza. I nemici, come amava ripetere, vanno conosciuti. Era ad un suo assist di testa, e al successivo gol di Telmo Zarra (un altro basco, una maledizione), che si doveva la vittoria sulla Perfida Albione ai Mondiali del 1950. Piru era un folletto imprendibile che abitava la fascia sinistra e da lì, come uno gnomo delle fiabe, creava arcobaleni invisibili in fondo ai quali, al posto di una pignatta colma d'oro, gli attaccanti trovavano i gol. I compagni lo amavano perché non era egoista e preferiva il pase de la muerte al gol, il cross al tiro, il dribbling per andare sul fondo all'inserimento centrale. Mica perché non sapesse come segnare, tutt'altro. Una volta, contro il Nastic di Tarragona, era entrato in porta col pallone dopo aver saltato quattro giocatori e aver ingannato il portiere fintando un passaggio; in un'altra occasione, durante un derby con la Real Sociedad, aveva beffato il numero 1 avversario Eizaguirre scavalcandolo con un incredibile tiro direttamente da calcio d'angolo. Da ragazzo, dicevano, a Piru non piaceva il calcio. Aveva iniziato come portiere perché non voleva correre e sudare, poi una volta lo avevano provato a sinistra, in quanto unico mancino, e adesso era lì, dopo quasi 20 anni di carriera, a giocare da pari a pari con la squadra più forte del mondo. Quella partita era il suo canto del cigno e Gainza la stava interpretando in modo magistrale.




Al 20' Eneko Arieta, che aveva preso il posto di Zarra dopo il ritiro del leggendario ariete, controllò un pallone al limite dell'area e, senza pensarci troppo, tirò: gol. Il Madrid era sotto. I tifosi baschi esultarono, ma dalla tribuna sembravano solo tante formiche che scalavano silenziosamente una collinetta. Il resto del pubblico si fece sentire per dare la carica ai suoi beniamini, stranamente mosci e fuori dal match. Dietro di lui si alzò un commento a voce alta: “Niente paura, è un fuoco di paglia. Non reggono fino alla fine, non contro di noi. Con un solo gol non vanno da nessuna parte”. E infatti, dopo 3 minuti, l'Atlético raddoppiò: palla messa in mezzo da Uribe, tiro al volo di Mauri, 2-0. Un dirigente del club bilbaino scattò in piedi: “Siamo grandi!”, gridò. I tifosi baschi ora si sentivano eccome: il Bernabéu era muto, smarrito, sgomento. Non si capacitava di quel risultato, un ceffone a mano aperta datogli senza alcun timore da capitan Gainza e dai suoi scudieri.

Adesso non parlate, eh, imbecilli?, pensò, soppesando il silenzio greve alle sue spalle. Serrò i pugni mentre veniva percorso da un brivido di rabbia. Quegli undici baschi bastardi lo stavano facendo per davvero. Certo, di tempo per recuperare ce n'era, ma quella era una giornata destinata alla sconfitta. Lo aveva capito fin da quando aveva aperto gli occhi.

Il Real Madrid, giù in campo, non era meno sorpreso delle migliaia di persone accorse per vederlo alzare il terzo trofeo dell'anno, che invece stava lentamente svanendo. Carniglia bestemmiava in panchina, urlando indicazioni che nessuno stava a sentire. Alonso, il capitano, se ne stava solitario tra i pali, testa bassa e braccia inerti lungo i fianchi. Atienza guardava Santamaría, Santamaría guardava Joseíto, Joseíto guardava Rial e tutti guardavano Di Stéfano, che sembrava il più sperduto di tutti. Saeta Rubia era sfinito dopo la lunga, trionfale stagione e la marcatura asfissiante di Etura lo aveva praticamente fatto scomparire dal “suo” prato.

In tribuna, l'uomo chiuse gli occhi. Non c'era più nulla da fare. Il punteggio non era ancora compromesso, ma le facce in campo non mentivano. Da una parte c'erano degli uomini con gli occhi spiritati e la bava alla bocca, dall'altra dei ragazzini spauriti. E poi c'era Gainza. Non aveva segnato, ma con la sua sola presenza aveva dato forza ai compagni. In campo era sceso un ragazzino di 19 anni che in pochissimi conoscevano, Koldo Agirre: stava facendo una partita fantastica. E così anche Carmelo, Orue, Garay, Etura, Canito, Mauri, Uribe, Artexe e Arieta. Undici compaesani che stavano violando lo stadio più sacro d'Europa.
Riaprì gli occhi. Se solo avesse potuto alzarsi e andarsene, lasciando le incombenze del caso a uno dei suoi leccapiedi... Ma non avrebbe mai dato quella soddisfazione ai suoi nemici. Si sistemò meglio sulla poltrona, dov'era sprofondato per lo sconforto. E si preparò ad altri 70 minuti di agonia.

Il signor González Echevarría fischiò la fine: l'Atlético era campione. Il risultato finale di 2-0 non rispecchiava fino in fondo la netta superiorità dei biancorossi, che avevano giocato una partita commovente e avevano conquistato la loro ventesima Coppa nelle condizioni ambientali più difficili. Di Stéfano, più tardi, avrebbe reso onore ai campioni con parole degne di un fuoriclasse (“El Atlético de Bilbao ha jugado más y mejor que nosotros y su victoria ha sido justa y legítima ¿Para qué restar mérito al Atlético de Bilbao?”). Ma adesso toccava a lui. Doveva consegnare la coppa a Gainza, il capitano. Si alzò in piedi seccamente, consapevole che in molti lo stavano osservando. Era furioso, eppure non c'era nemmeno l'ombra di un'emozione sul suo volto inespressivo.

Piru arrivò dopo qualche minuto, seguito dalla squadra. Lui aveva già in mano la coppa. Lo guardò con attenzione: né alto né basso, tratti duri tipici dei baschi, occhi espressivi e intelligenti. I capelli, tirati indietro e lucidi per la brillantina, sembravano quelli di un qualsiasi spettatore, come se non avesse neppure sudato. Ma aveva corso eccome, lui lo aveva visto.
Quando Gainza gli fu davanti, si sporse per consegnargli il trofeo. Si costrinse a sorridere nel modo più cordiale che gli riuscisse in quel momento e, per sembrare ancor più cortese, gli disse “Un'altra volta qui!”, sperando in tal modo di portarlo, anche solo per un attimo, dalla sua parte. Non era una frase a caso: negli ultimi quattro anni, quella era la terza vittoria dei bilbaini.

Piru annuì, senza replicare. Allungò le mani quasi disinteressato ma poi, d'improvvisò, alzò lo sguardo verso di lui, un ghigno sardonico sul viso. “Hasta el año que viene, eh?” rispose, poi afferrò la coppa e andò a festeggiare con i compagni.


Per poco lui non scivolò di sotto. Brutto figlio di puttana! Farsi beffe di me qui, e in questo modo! Sfidarmi davanti a tutti! - pensò, ma fu solo un attimo. Si rimise dritto, impettito come suo solito, cercando di stare leggermente in punta di piedi per apparire più alto. Senza voltarsi, ma afferrandosi con entrambe le mani alla balaustra, disse: “Non voglio più vederli con una delle mie coppe in mano per almeno dieci anni... Sono stato chiaro?”.
Sul momento, nessuno del suo codazzo si mosse. La sua voce era calma e controllata, ma dalla postura, dalla tensione che emanava dalle mani strette come due morse attorno al ferro, chiunque aveva capito che era sul punto di sbottare. Non rispondere sarebbe però stato molto peggiore, perciò un colonnello di una quarantina d'anni fece un passo avanti. Il suo comandante gli stava davanti: era un uomo piccolo, brutto, irrilevante. L'uniforme gli andava un po' larga, il cappello pure. Ma era l'uomo più potente di Spagna, e un basco lo aveva appena umiliato. “Sarà fatto, Generalísimo Franco!”.

martedì 1 luglio 2014

Perchè non hai riso, Thomas Müller?

La Caduta

"Bene. Torniamo, se permette, al suo caso. Cosa mi può dire in proposito?" Gli ripetei il racconto che avevo fatto a Brandt. "E' una storia spaventosa. Deve esserne rimasto sconvolto". "Certo, Herr Standartenführer. E lo sono stato ancora di più per le accuse di quei due difensori dell'ordine pubblico, che non hanno mai, ne sono sicuro, passato un solo giorno al fronte e che si permettono di diffamare un ufficiale delle SS". Baumann si grattò il mento: "Posso capire fino a che punto tutto ciò sia offensivo per lei, Obersturmbannführer. Ma forse la soluzione migliore è fare piena luce su questo caso". "Non ho nulla da temere, Herr Richter. Mi rimetterò alla decisione del Reichsführer".

Jonathan Littell, "Le Benevole"

Perchè non hai riso, Thomas Müller, quando, ormai agli sgoccioli dei tempi regolamentari della partita contro l'Algeria, ti sei rialzato dopo essere caduto goffamente a terra nel tentativo di sviluppare uno schema (o dovrei dire una coreografia? Un omaggio a Roland Petit forse?) su punizione insieme ai tuoi compagni? Peccato Thomas Müller, avresti potuto portare uno squarcio di umanità in una squadra che di umano ha poco (penso alle sembianze gelide e alle qualità atletiche bioniche del tuo portiere Manuel Neuer, simulacro tardivo di eugenetica nazionalsocialista), un momento di gioco in un contesto che di giocosità non ha più nulla, solo i ridicoli scarpini bicolori, ridicoli come un pagliaccio che racconta un funerale. Ti saresti potuto rialzare ridendo in maniera liberatoria, ridendo di te stesso ma anche dell'idiozia di chi ha pensato uno schema del genere (invece di tirare in porta) e della mentalità da zu Befehl dei tuoi compagni di squadra, soprattutto di quel Bastian Schweinsteiger che si capisce lontano un miglio che se gli dicono buttati nell'Elba, lui si butta, pure se è inverno, pure se ha i vestiti addosso, se gli dicono fucila quei prigionieri nel fienile, lui li fucila, pure se non li conosce, se gli dicono fai lo schema B4 su punizione lui lo fa, pure se gli sembra una cazzata. Peccato Thomas Müller, la tua risata avrebbe contagiato anche gli avversari, Yacine Brahimi sarebbe venuto ad abbracciarti, Islam Slimani ti avrebbe dato una pacca sulla spalla, Rafik Halliche avrebbe riso insieme a te e con Sami Khedira si sarebbero ricordati di quella volta che.... Peccato Thomas Müller, ci avresti ricordato che nonostante i soldi, le televisioni, le pubblicità, i jingle, le magliette tecniche, gli stadi futuristici, i palloni iper-tech, la tensione, la cosiddetta posta in palio, i moduli tattici, alla fine, Thomas Müller, tu sei solo un ragazzo di 24 anni che sta giocando a pallone con un gruppo di amici, e che la cosa ti rende sì un professionista dello sport, ma ti diverte anche, come quando eri bambino, e giocavi con la palletta di spugna in camera tua, facevi le rovesciate contro l'armadio, e tua madre s'incazzava perchè così rompevi il letto. 


Javier Marìas raccontava di come i giocatori del Real Madrid plurivincitore della Coppa dei Campioni, capitanati da Alfredo Di Stéfano, in campo si divertivano come matti tra tacchi, raboni, finte fini a se stesse, facendo infuriare l'allenatore. Racconta lo stesso Di Stéfano a Marìas (mi permetto di tradurre): "L'allenatore a volte si innervosiva e mi chiedeva di non fare colpi di tacco, perchè contagiavo i miei compagni; perchè se io facevo dei colpi di tacco andava pure bene, diceva, però se li faceva l'intera squadra era un suicidio; ma alla fine, dovevamo pure divertirci un po', o sbaglio?". Eppure non sembrava che tu ti stessi divertendo, Thomas Müller, non hai riso quando sei caduto e hai perso l'occasione di portare la follia di una risata liberatoria in campo, costringendoci ad associare il sorriso, così malvisto (i grandi campioni - Ibra, Leo, CR7 - non ridono mai, al massimo s'incazzano), allo sguardo da ebete di Cafu, alle finte di Robinho, ai funambolismi di Denilson, insomma a quei bidimensionali dei brasiliani, che tanto conoscono solo l'allegria o la tristezza, la tristezza o l'allegria, e la saudade appena l'aereo supera le acque territoriali.

Scriveva Juan Manuel de Prada che l'atteggiamento di un bambino di fronte alla vita è inaugurale, mentre quello di un adulto è reiterativo. Crescere è scendere a patti con una realtà che si ripete, e adattarsi alla forma di quella realtà ripetuta, convertirsi in creature in serie, con comportamenti prevedibili, con parole sprecate, con sentimenti e passioni stereotipate, con preoccupazioni triviali, trite e ritrite. Juan Manuel de Prada, caro Thomas Müller, sta parlando di te. Hai fatto quello che ci si aspettava, hai negato la caduta, il fallimento dello schema, il ridicolo generale. Non avresti potuto accettare di essere proprio tu - un tedesco affidabile, con un compito ben preciso, nonostante il tuo vagabonadare picaresco per tutto il fronte d'attacco - colui che con una risata ci avrebbe liberato dalla schiavitù di essere figli del calcio del nostro tempo, un calcio che non sa affrontare la caduta con naturalezza. Piuttosto, in quei millesimi di secondo in cui sei rovinato a terra, avresti preferito rompere la capsula di cianuro che tenevi tra i denti, nel bunker di Porto Alegre.

Forse il tuo voleva essere soltanto un omaggio a Simone Perrotta, l'uomo che segnava solo cadendo, e quindi non c'era niente da ridere, perchè la caduta faceva veramente parte dello schema, e nessuno l'ha capito. O forse ti sei sentito in colpa perchè con quella caduta hai rovinato ai nostri ferventi tatticomani, che avevano già salvato sul computer una copia dello screenshot con l'inquadratura della punizione, e già stavano iniziando ad ornarla con cerchi rossi intorno ai giocatori, frecce blu per indicare i loro movimenti, linee tratteggiate gialle per spiegare la traiettoria del pallone, la possibilità di spiegarci che con quello schema basato sulla successione di Fibonacci la Germania non poteva non segnare il gol bellissimo che stava per segnare. O forse la tua caduta era proprio un atto ribelle contro questa assurda pretesa di considerare che il calcio sia una scienza esatta, per sbugiardare plasticamente la propensione della nosta epoca che aspira a capire tutto e che però, attraverso le sue spiegazioni, solo riesce a fare in modo che tutto ci risulti indegno di essere capito, perchè lo spoglia di ogni mistero, così come sono stati sbugiardati gli architetti italiani che nel cinquecento iniziarono a tracciare progetti di giardini che simulavano strade, piazze, prospettive urbane, la lotta contro la natura selvaggia, la convinzione - forse - che il mondo è razionale. Ma allora potevi ridere, Thomas Müller, e noi ti avremmo capito, avremmo riso con te, e i tuoi compagni avrebbero riso con te, e gli algerini avrebbero riso con te, e questo sarebbe stato ricordato come il Mondiale in cui un tedesco ha riso dopo essere caduto e nessuno ha pensato alla caduta, perchè tutti hanno pensato alla risata.

venerdì 25 ottobre 2013

Béla Guttmann, "L'Ebreo Errante" PT.1


Prendete la teatralità di Josè Mourinho, il “pugno di ferro” di Fabio Capello e il fascino romanzesco di Brian Clough, ne verrà fuori un allenatore o forse molto di più. Una storia. Un uomo. Quest’uomo è Béla Guttmann.

Béla Guttmann con la divisa dell'Hakoah Vienna

Bela il calciatore
Béla Guttmann nasce il 27 gennaio del 1899 a Budapest da una borghese famiglia ebraica. I genitori entrambi insegnanti di danza classica lo avvieranno verso la loro stessa professione ma con scarsi successi. A 16 anni Guttmann, dopo aver conseguito il diploma da insegnante di danza classica, s’innamora del calcio. Un amore che durerà per tutta la vita e lo consegnerà alla storia.

Diventa professionista tra le file del Torekvés, squadra della serie B ungherese. L’allenatore vede in lui una grande punta, i giornali vedono in lui “un ragazzo allergico alla corsa e al sacrificio di squadra”. Guttmann si congeda a modo suo dal Torekves, siglando una tripletta nel match contro lo Zsak primo in classifica e imbattuto. Nonostante ciò i giornali saranno lapidari: “Guttmann il peggiore in campo. Non ha corso un solo metro in tutta la partita. Non ha fatto altro che ricevere palla e tirare”. Anni dopo Guttmann, ricorderà con ghigno beffardo la vicenda : “Il calcio è cambiato. A inizio carriera feci 3 gol alla prima in classifica ma venni massacrato dai giornalisti per aver corso poco. Ora se fai un gol contro un’acerrima rivale, sei considerato un eroe a vita”. E’ solo l’inizio della sua carriera da professionista e già si avverte forte il sapore del suo talento tutto “genio e sregolatezza”.

Il talentuoso Guttmann si trasferisce a Vienna dove il calcio, non solo è in forte espansione, ma anche tema di dibattito nei salotti intellettuali dei primi del 900. Passa alla leggendaria Hakoah Vienna, squadra formata esclusivamente da calciatori ebrei, la maggior parte dei quali (Guttmann compreso ndr) fuggirono dall’Ungheria dopo l’ascesa al potere dell’Ammiraglio Horty e le conseguenti pressioni antisemite del suo governo.

L'Hakoah di Vienna  (Anno 1925)
La spiccata personalità di Guttmann non tarda a manifestarsi, Nel contratto con l’Hakoah, Guttmann inserisce una clausola secondo la quale deve giocare esclusivamente con divise di seta in quanto la sua pelle è troppo sensibile ad altri tipi di tessuto. Clausola che all’inizio gli causa non poche divergenze con stampa e tifosi.
Ma nel calcio sono i risultati che contano e i risultati, sono sotto gli occhi di tutti.

Il promettente ed eccentrico ungherese è un talento puro, viene spostato a centrocampo dove gli si richiede meno corsa e dove può liberamente lanciare prelibati palloni ai suoi compagni. Dopo due anni, all’alba dell’inaugurazione del primo campionato austriaco, Guttmann ottiene uno storico rinnovo di contratto. Bela e l’Haok si legano per altri 3 anni ed il compenso percepito dal giovane regista, è di ben un quarto degli introiti della società. I mormorii dei giornali vengono messi a tacere dalle straordinarie prestazioni dell’ungherese e dalla vittoria del campionato.

Il viaggio negli U.S.A.
L’Hakoah di Vienna, divenne leggenda in tutta Europa, complice anche l’epica vittoria contro i “maestri” inglesi del West Ham. Infatti, mai nessuna squadra europea era riuscita prima di allora a battere una squadra inglese, per di più in casa, soprattutto 5 a 0.
Dopo la vittoria del campionato e il “Successo inglese”, l’Hakoah partì per un tournee negli Usa, proprio come fanno i top club ai giorni nostri, seppure con differenti intenti. Infatti, la squadra di Vienna, partì alla ricerca di fondi per la “causa sionista”.
Giocarono dieci partite, tutte vinte. Bela Guttmann ricorderà così l’esperienza negli Usa, terra dove se il calcio è quasi un tabù ancora oggi, figuratevi nel 1926.
 
Durante la prima partita, nonostante un largo vantaggio della nostra squadra, notammo un particolare. I tifosi americani non esultavano ai gol bensì a tiri alti e fuori dallo specchio.
Probabilmente confondevano il calcio con il loro football. Bastò uno sguardo per capirci tra compagni. Iniziammo così a tirare bordate, esaltando i tifosi che a fine partita mi portarono in trionfo
”.

Béla Guttmann decide di rimanere negli Stati Uniti e con lui molti altri dei suoi compagni dell’Hakoah. Viene messo sotto contratto dai New York Giant, dove percepisce l’ingaggio record di 500 dollari mensili per la prima stagione e di mille per la seconda, oltre ai costi dell’alloggio. Dopo due anni però, i Giant’s vengono sospesi dal campionato in seguito a uno scandalo di “fondi neri” . Bela ricontatta i suoi ex compagni dell’Hakoah rimasti come lui in America e decidono di fondare l’Hakoah All Star, squadra nata con “l’intento di promuovere il calcio nelle Americhe” attraverso blasonate amichevoli. I giornali dell’epoca parlano di una realtà ben diversa. E’ risaputo che durante il crollo della borsa del 1929, Guttmann perde tutti i suoi beni e cade in disgrazia. Il suo scopo quindi, ben meno nobile, è quello di guadagnare per poi far ritorno in Europa. Riesce anche in questo intento.
Guttmann torna in Austria nel 1932, dove disputa ancora 4 partite con l’Hakoah di Vienna prima di annunciare l’addio al calcio giocato.

Bela ha un solo obiettivo in mente: diventare allenatore. Non solo ci riuscirà, ma rimarrà per sempre nella storia come uno dei personaggi più intriganti e vincenti della storia del calcio.
Un furbo, un vincente, un cinico, un approfittatore, questo è Bela Guttmann già da calciatore. Tutte queste virtù non faranno altro che amplificarsi nella seconda parte della sua carriera, quella da mister.

Il praticantato di Vienna e il sogno olandese
A soli 34 anni Béla Guttmann diventa un allenatore. La sua squadra storica, l’Hakoah di Vienna, gli concede due anni di contratto, ma ne limita la libertà di lavoro. L’Hakoah gli impone lo staff, in quanto reputa l’ungherese ancora inesperto per lasciargli simili privilegi.

I risultati non saranno esaltanti, Guttmann conquista due decimi posti. Al termine dei due anni, di comune accordo con la società, ognuno va per la sua strada. Quella di Guttmann è in salita, tutti sanno che ha un brutto carattere, è un “odioso uomo, pieno di sé" , titolano i giornali dell’epoca e per di più “totalmente inesperto”. Riesce a trovare un incarico grazie alla raccomandazione del padre Abraham e dell’allenatore della nazionale austriaca, Hugo Meisl, compagno di discussioni nei salotti della Vienna bene.

Si trasferisce in Olanda, precisamente all’SC Enschede (oggi confluita nel Twente ndr). Arrivato in Olanda la società, che prima aveva promesso un contratto di un anno, cambia le carte in tavola e per cautelarsi dalle voci arrivate sul conto del mister ungherese, offre un trimestrale con formula di rinnovo per altri 9 mesi in caso di risultati positivi. Guttmann è stizzito ma accetta. I risultati sono esaltanti, si vedono sprazzi di ottimo calcio. All’alba della scadenza del contratto l’Enschede è terzo in classifica a 5 punti dalla prima. Al tavolo delle trattative Guttmann si presenta con una sola richiesta alla società : un premio record in caso di vittoria del campionato. Si racconta che il Presidente dell’Enschede scoppiò a ridere in faccia a Guttmann pensando si trattasse di uno scherzo, ma una volta compresa la serietà della richiesta, accetta premio e prolungamento sino alla fine della stagione. La squadra si convince dei propri mezzi e ottiene una serie di vittorie , aggiudicandosi il girone Est.
Il campionato olandese allora era diviso in 5 gruppi (Nord-Sud-Ovest I e Ovest II).

Classifica finale Eredivise girone Est

Arrivato al turno finale, il sogno dell’Enschede s’interrompe bruscamente contro il Feyenoord, che si laurea campione d’Olanda per la felicità della dirigenza che, se avesse dovuto pagare il premio concordato con Guttmann, avrebbe dovuto dichiarare la bancarotta del club.

La seconda stagione non è così soddisfacente. La rosa rimane la stessa dell’anno precedente a causa della crisi finanziaria del club e l’Enschede conclude al 4 posto con ben 12 punti di ritardo dalla prima in classifica, Go Ahead Eagles.
Guttmann abbandona la squadra alla scadenza del contratto nonostante l’insistenza della società per un rinnovo. Ritorna alla sua amata Hakoah, che non ha mai smesso di seguirne la sua evoluzione nel suo nuovo ruolo. E’ il 1938 e la Germania di Hitler invade l’Austria, l’Hakoah squadra di cultura ebraica viene dismessa e i suoi componenti iniziano a fuggire per il mondo. Tra questi Béla Guttmann.

L’ungherese si rifugia nella sua terra natale dove trova impiego nell’Ujpest. In un anno il mister vince campionato e Mitropa Cup, antenata della moderna Champions League. I risultati sono frutto di un grande calcio espresso dal team ungherese, che trova la migliore espressione in un nuovo modulo che sta prendendo piede nel calcio mitteleuropeo, il 4-2-4.

 
Fase ad eliminazione dirette Mitropa Cup 1939
Dopo la vittoria della Mitropa Cup, il campionato ungherese, come la maggior parte dei campionati europei, viene interrotto e Guttmann sarà latitante sino al 1945.
Durante l’olocausto perde il fratello maggiore, l’unico componente rimasto della sua famiglia. Lui sparisce insieme alla storica moglie Marienne, che presumibilmente sposa nel 1942. Dove si sia rifugiato rimarrà per sempre un mistero. Lui ogni volta che veniva interrogato sul tema rispondeva laconico “Dio mi ha aiutato”.

Il ritorno
Il ritorno ufficiale in attività di Béla Guttmann risale al 1945, quando firma un contratto annuale con il Vasas, l’altra squadra di Budapest come l’Ujpest. Conclude con un secondo posto e il contratto non viene rinnovato dalla società per alcune divergenze con i calciatori, che mal sopportarono il suo passato con l’eterna rivale.
L’anno successivo Guttmann parte alla volta della Romania, direzione Bucarest.
Firma per il Ciocanul (oggi Dinamo Bucarest ndr), il presidente ebreo della squadra romena, diede all’ungherese pieni poteri per risollevare la squadra ed il calcio romeno. Guttmann, attento osservatore finanziario, decide di essere pagato in natura, causa l’altissima inflazione della Romania post guerra mondiale. L’esperienza romena, una delle più brevi della sua carriera, s’interrompe dopo sole 13 giornate, quando il tecnico ungherese lamenta una continua interferenza di alcuni dirigenti nelle scelte tecniche.

Arriva la seconda chance in Ungheria, ancora alla guida dell’Ujpest, dove senza difficoltà Guttmann impone il suo 4-2-4 e vince il campionato a mani basse esprimendo ancora una volta un gran gioco. Ma Guttmann è un giramondo, un eterno traditore e in quanto tale, ancora una volta, tradisce. A scadenza del contratto s’invaghisce del progetto dell’Honvèd, la terza squadra di Budapest, che è arrivata seconda nel campionato appena conquistato dal tecnico. Trova una squadra tecnicamente fortissima e promettente, al suo interno c’è un talentuoso ragazzo ungherese, un certo Puskàs, con il quale non intrattiene però rapporti idilliaci.

A Sinistra : Béla Guttmann a destra Ferenc Puskàs
All’inizio del secondo tempo di una difficile partita contro il Gyor, Guttmann chiama la sostituzione del suo difensore Bozsik. Puskàs, che assiste alla scena, invita il suo compagno a non uscire dal campo. Béla, scuro in volto esce dalla zona tecnica, si avvia verso gli spalti della tribuna, raccoglie una rivista ippica, si accende il sigaro e non alza la testa sino alla fine della partita. Poi si dirige verso la fermata del tram più vicina allo stadio, vi sale sopra e nessuno lo vede più per mesi.
Era stato profetico il mister, mesi prima in una conferenza stampa.
Alla domanda sull’importanza di aver buoni rapporti con i giocatori disse: “Controlla la stella e controllerai tutta la squadra”.

Per Guttmann si concludeva la seconda fase della sua carriera, quella da “apprendista allenatore”, come lo chiamavano ai tempi della prima esperienza all’Hakoah. Ora Guttmann è un allenatore affermato e si parla di lui in tutta Europa, soprattutto per il suo essere perennemente sopra le righe. E qual è la nazione europea eternamente affascinata da personaggi carismatici, discutibili, polemici e antipatici ? Bravi, l’Italia. Ed è proprio da noi che Guttmann verrà a insegnare un calcio nuovo e del tutto sconosciuto, quello della “scuola ungherese”, imbattibile negli anni 50. Béla parte per l’ennesima volta nella sua vita, ma per la prima volta in Italia. C'è qualcosa di più di un contatto con l'As Roma.
 

venerdì 29 aprile 2011

Inglourious Glories, Ch. VI, Aberdeen Football Club

Aberdeen. Costa est scozzese. Duecentomila anime. Granito e petrolio a far da contorno. Quell’estate del ’78, quando lui arrivò, il vento soffiava forte e vago sul bagnasciuga e i televisori nei pub del centro raccontavano le avventure di Mario Kempes. Alexander Chapman Ferguson veniva da una breve esperienza nella Scottish Premier League, al St. Mirren di Paisley, una piccola città del Renfrewshire. Con i Saints aveva ottenuto due anni prima la promozione ed evitato una temuta retrocessione la stagione successiva. Nonostante il buon risultato, però, la dirigenza aveva deciso di esonerarlo. Arrivava sulla costa con mille pensieri in testa. Pochi soldi in tasca, la malattia del padre e una carriera che seppur agli inizi aveva già subito un brutto colpo. L’esonero di qualche tempo prima, poi, non era stato digerito. Aveva, infatti, fatto ricorso alle competenti autorità (gli Industrial Tribunal) reputandolo del tutto ingiustificato. Qualche tempo dopo avrebbe però perso la causa. Un articolo pubblicato sul Sunday Herald nel 1999 a firma Billy Adams - “Saints still wear their shame over one of football's greatest” - proverà a fare un poco luce sulla vicenda, offuscata nelle carte processuali da accuse di scarsa diligenza e correttezza, vociferando incompatibilità e dissapori sulla gestione con la dirigenza di Love Street. Timido tentativo di portare chiarezza, nulla più. Ciò che rimane altro non è che l’incipit dell’articolo dedicato alla tifoseria della squadra scozzese: “Paisley that day came to a standstill, unable to take in the absurdity and cruelty of what had been done”. Quell’estate l’umore dei tifosi dell’Aberdeen era dunque torvo e disilluso. L’Aberdeen era tra i principali club della Lega scozzese ma non portava a casa il campionato dal 1955. Mentre Passarella alzava la Coppa più prestigiosa, si chiedevano come accogliere il nuovo manager. Se mai sperare di frapporsi tra Celtic e Rangers.
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L’Aberdeen F.C. nasce nel 1903 dalla fusione di tre club locali: Aberdeen, Victoria United ed Orion F.C.. Poca storia, nessun successo. Solo l’Orion F.C. regala un momento interessante. Il club ha infatti subito una delle peggiori sconfitte della storia della Scottish Cup, contro l’Arbroath, il 12 settembre del 1885. In verità, si tratta di uno spiacevole equivoco. Viene invitato a partecipare alla Coppa l’Orion Cricket Club, la sezione della società dedicata al cricket e anche conosciuta come “Bon Accord”, in onore della parola d’ordine utilizzata da Robert The Bruce per violare il Castello di Aberdeen - in mano inglese - durante le Guerre di Indipendenza Scozzesi. L’Orion Cricket Club fa il possibile, ma la sconfitta è rovinosa: 36 a 0. Si narra che il portiere dell’Arbroath non abbia mai toccato il pallone e abbia, invece, rubato un ombrello ad uno spettatore per trovare riparo dall’incessante pioggia. Lo stesso giorno, qualche chilometro più a sud, a Dundee, l’Aberdeen Rovers perde a sua volta 35 a 0.
Dopo la fusione, moltissimi anni segnati dalla mancanza di vittorie e dalle crisi finanziarie dovute agli eventi bellici. Poi un lampo. Nel 1939, Dave Halliday viene nominato manager dei Dandies e subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, guida la squadra ad una serie di successi in ambito nazionale. Prima la Southern League Cup nel ‘45/’46, poi due finali consecutive di Scottish Cup nel 1953 e nel 1954, entrambe perse. Infine, nel 1955, la prima Scottish League, vinta in volata sulle due squadre di Glasgow. Halliday lascia il club l’anno successivo, che vede i Rangers di nuovo campioni davanti ad Aberdeen ed Hearts. Per ripetere i trionfi degli anni precedenti i Dons cambiano vari allenatori (tra gli altri, Davie Shaw, Tommy Pearson e Eddie Turnbull). Ma i risultati sperati non arrivano. L’Aberdeen assapora pessime e confuse stagioni e solamente alla fine del valzer, con Turnbull alla guida, riesce a raggiungere due finali di Scottish Cup, entrambe contro gli Hoops di Glasgow. Turnbull perde la prima, nel 1967 (doppietta della punta del Celtic William Wallace), ma si rifà tre anni dopo grazie a due gol di Derek McKay e ad un penalty realizzato da Harper in un Hampden Park con 108.000 spettatori.
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La prima stagione di Alex Ferguson alla guida dell’Aberdeen non fu proprio un trionfo. Quarto posto e solamente 13 vittorie a fronte di 14 pareggi e 9 sconfitte. Cui si aggiunse una finale di League Cup malamente persa contro il Dundee United. Il gruppo però c’era. Alex poteva contare sui migliori giovani di Scozia. Occorreva solo ottenere la loro fiducia, portarli alla disciplina e plasmarli alla difesa a quattro ed al gioco sulle fasce.
Lui lo fece. E i risultati arrivarono in un attimo. La stagione successiva fu fragore biancorosso. All’ultima giornata il Celtic era avanti di un punto e giocava in trasferta a St. Mirren. L’Aberdeen faceva visita agli Hibs in quel di Easter Road. Il Celtic steccò, bloccato sullo 0 a 0 a Love Street. I Dons, invece, sommersero di gol gli avversari. Alex Ferguson era per la prima volta campione di Scozia. Grazie ai 12 gol di Jarvie ed Archibald ed ai 10 di Gordon Strachan il Celtic di McCluskey era in ginocchio. E di fatto, con quel pareggio all’ultima giornata, il St Mirren si condannò alla derisione eterna.
Nella stagione ‘80/’81 l’Aberdeen partì con il favore del pronostico, ma le 19 vittorie a nulla servirono contro le 26 di un Celtic con il miglior giovane del campionato, Charlie Nicholas, che dopo il debutto con il Celtic - e i 50 gol nella stagione ‘82/’83 - divenne anche bandiera dell’Arsenal. Stesso piazzamento nella stagione ‘81/’82: seconda posizione alle spalle sempre del Celtic, ma con soli due punti in meno. Il campionato perso per un soffio pesò tuttavia relativamente poco grazie alla vittoria in Scottish Cup. 4 le reti incassate dai Rangers ad Hampden Park. L’Aberdeen alzò la Coppa di Scozia e si qualificò così per la successiva Coppa delle Coppe: era il tassello decisivo per il ciclo di Alex Ferguson nella città del granito e del petrolio.
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L’avventura dei Dandies in Europa inizia con un preliminare contro il malcapitato Sion. Nel doppio scontro gli schemi di Ferguson mandano in gol ben 7 giocatori e gli svizzeri con 11 reti subite cedono il passo.
La griglia dei Sedicesimi è terrificante: oltre al Barcellona campione in carica anche, tra le altre, Tottenham, Bayern Monaco, Real Madrid, Internazionale, Stella Rossa e Paris Saint Germain. L’Aberdeen, però, pesca bene e affronta gli albanesi della Dinamo Tirana. La vittoria di misura al Pittodrie (rete di Hewitt) viene difesa dai biancorossi in Albania e l’Aberdeen accede agli Ottavi. Anche le grandi della competizione passano il turno, ma la fortuna strizza di nuovo l’occhio agli scozzesi: di fronte c’è il Lech Poznan. Non c’è gara. i polacchi vengono presi a pallonate. A testa alta i Dandies si presentano ai Quarti contro i tedeschi del Bayern Monaco. Un pessimo cliente.
L’andata si gioca in Baviera e gli uomini di Ferguson azzeccano la partita attenta, bloccando il risultato sullo 0 a 0. Nel finale McGhee si trova addirittura sui piedi l’occasione per ipotecare il doppio scontro, ma spreca malamente.

Al ritorno, Pittodrie è stracolmo, vestito a festa per quella che è la serata più importante nella storia dell’Aberdeen Football Club. Purtroppo per la curva scozzese, però, i bavaresi con a capo Breitner, in un elegantissimo completo bianco, non sono facilmente impressionabili e gelano subito gli animi: vantaggio firmato Augenthaler. Botta di destro dal limite dell’area, Leighton vola ma non può nulla.
L’Aberdeen accusa ma non si scompone e inizia a macinare gioco. Al 38’ gli scozzesi trovano il tocco giusto. Cross lungo dalla destra, Eric Black, un centravanti come non se ne vedono più, dalla linea di fondo rimette al centro di testa e Simpson pareggia in anticipo sull’uscita del portiere avversario. Ancora troppo poco, però. Perché il Bayern raddoppia - ancora una gran botta da fuori, questa volta di Pflugler - appena dopo l’inizio del primo tempo, deciso a spegnere la favola dei 24.000 cuori sugli spalti. Ai Dandies servono ora due reti e il cronometro scorre.
Quello che succede in seguito al Pittodrie Stadium tra il 76’ ed il 77’ non credo possa essere ridotto in parole. A noi interessa che in due minuti una banda di ragazzini piegò il Bayern di Hoeness e Rumenigge. Prima McLeish con un colpo di testa dal cielo pareggia i conti, poi un inverosimile tiro al volo di John Hewitt passa tra le gambe di Muller e gonfia la rete.
Sweet Dreams degli Eurythmics scala le classifiche di mezza Europa e l’Aberdeen vola in Semifinale.
Dove, tra l’altro, avrebbe incontrato una sorpresa: il Waterschei Thor di Genk, che nel 1988 sarebbe diventato il Koninklijke Racing Club Genk a seguito della fusione con l’altra squadra di Genk, il K.F.C. Winterslag. I belgi avevano prima ricoperto di reti i lussemburghesi del Red Boys Differdange, poi il B93 (Boldklubben af 1893) di Copenhagen e infine PSG di Mustapha Dahleb. Ad ogni modo, il doppio scontro si rivela affare da poco. I Dandies mettono in cassaforte il passaggio del turno già all’andata, grazie ad un sonoro 5 a 1: reti di McGhee, Blake, Simpson e Weir. Il ritorno diventa quindi un pretesto per visitare le miniere di Genk. Per la cronaca, vittoria del Waterschei per 1 a 0.
E’ Finale. Semplicemente, vertigini.
Le rive del Garda attendono la squadra con la maglia rossa a strisce bianche strette. Di fronte il club più forte di sempre, il club delle 5 Coppe dei Campioni consecutive. Per l’occasione, Alex Ferguson punta sullo stile. Completo ardesia e cravatta sociale blu con striscia sottile bianco-rossa. Bomber aderente Adidas a righe orizzontali rosse e blu. D’altronde, sulla panchina avversaria siede il più grande tra i grandi: “Don” Alfredo Di Stefano.
Il Real Madrid parte, ovviamente, favorito. Ai Quarti ha eliminato l’Internazionale e in Semifinale l’Austria Vienna, carnefice a sorpresa del Barcellona campione di Diego Armando Maradona (schierato, però, solamente al, ritorno essendosi appena ripreso dall’epatite). Una serie di fattori interviene, tuttavia, a Goteborg. In primo luogo, il pubblico. Solamente i tifosi scozzesi affrontano in massa la trasferta e ciò riempie lo stadio Nya Ullevi come fosse Pittodrie. Poi il clima. Tanta pioggia rende il campo quasi impraticabile, troppo pesante per i leggeri spagnoli.
L’Aberdeen ne approfitta subito. Al 7’ un colpo di testa sporco di McLeish viene intercettato da Black, che quasi per sbaglio batte Augustin. Come contro il Bayern, però, i Dandies vengono raggiunti in un batter d’occhio. Poca concentrazione, troppa confidenza, arriva il timido errore di McLeish, che spiana la porta a Capitan Santillana. Leighton taglia corto, commettendo fallo da rigore. Dal dischetto Juanito non perdona, come spesso quella stagione.
La partita si trascina stanca fino all’intervallo e per tutto il secondo tempo. Qualche occasione sprecata da Weir e McGhee consegna le squadre ai supplementari. L’Aberdeen d’un tratto ha fretta e timore dei rigoristi del Real Madrid. Ferguson in panchina si gioca l’ultima carta, l’uomo che uccise il Bayern.
E come se niente fosse, al minuto centoquattordici, una luce rischiara Goteborg.
Weir scarta un paio di giocatori sulla linea laterale e appoggia bene a McGhee, il cui cross inganna l’uscita di Augustin, che manca il pallone. John Hewitt, l’uomo dell’inverosimile gol al Bayern, è al posto giusto e insacca a porta sguarnita. Il bianco reale china il capo bagnato. Alex Ferguson si gode con viso da bambino il grido della curva rossa mentre Willie Miller alza la Coppa delle Coppe sotto gli occhi di Santillana.

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Le stagioni successive diedero ulteriore sfarzo al palmares dell’Aberdeen di Ferguson. Oltre alla Supercoppa Europea vinta contro l’Amburgo di Felix Magath, due campionati nazionali consecutivi (‘83/’84 ed ’84/’85) e due Coppe di Scozia (’83 e ‘84).
Fino al 1985, quando un malore colse John Stein, coach della Nazionale scozzese, e la Federazione compose il numero di telefono di Alex Ferguson. Lui accettò subito e ad Aberdeen si chiuse il ciclo più importante. Quello che spodestò le arroganti squadre di Glasgow e consacrò i biancorossi in Europa. Di quella banda di ragazzi scozzesi solo Willie Miller ed Alex McLeish rimasero a Pittodrie. Stracham firmò per il Manchester United, Black per il Metz e Rougvie per il Chelsea.
Ferguson allenerà la Nazionale per circa un anno. Rifiuterà Tottenham ed Arsenal prima di trasferirsi a Manchester, sponda United. Continuerà a vincere. Tantissimo. Continuerà ad allenare ragazzini terribili e a dominare in Europa.
Più a nord, tra granito e petrolio, il vento ha ripreso a soffiare e i televisori dei pub del centro sono ormai solo il rumore di sottofondo di dolci ricordi.