Firenze,
Parco delle Cascine
Primavera
2012
Un
gruppo di ragazzi sudamericani tra i venti e i trent’anni, si passano la palla
sul pratone. Fa caldo, e tra un passaggio e l’altro le
birre ghiacciate vanno via più veloci del solito. Una Moretti, due Moretti, tre
Moretti, tante Moretti da lastricarci col vetro delle bottiglie tutti i
chilometri che ci sono tra Firenze e Lima. A un certo punto la palla arriva
sobbalzando lentamente a uno dei meno atletici della compagnia. È bolso e
gonfio di birra, ma nonostante questo riesce a caracollare incontro al cuoio.
Come se fosse la cosa più naturale del mondo si coordina, si piega, tira
fortissimo. Mentre il pallone vola nell’aria verso l’Arno, che porta al mare,
all’Oceano, a Lima, vola nell’aria anche un rumore secco, un crac, che sale su da quel cuscinetto di
fibre che i dottori il giorno seguente chiameranno legamento collaterale
mediale. Quegli stessi dottori diranno anche: «stagione finita». Perché sì,
nonostante i chili di troppo, le birre, il pratone,
a squarciare con un tiro troppo forte l’aria ansiogena e appiccicosa della
primavera fiorentina è stato un calciatore professionista.
La squadra è
contestata, le ultime due partite casalinghe le ha perse per 5-0 con la
Juventus e per 2-1 col Chievo, lo spogliatoio è in frantumi, il capitano ha già
firmato per passare i prossimi anni a Milano, l’allenatore sembra non riuscire
a tenere in pugno le diverse anime dello spogliatoio, specialmente quella dei
ragazzini balcanici. Per questo si decide di raccontare di un infortunio in
allenamento, che ci manca soltanto che in giro si sappia che mentre siamo a
cinque punti dalla retrocessione questo passa il lunedì pomeriggio a lanciare
verso l’Oceano palloni, legamenti e vetri ambrati ancora sporchi di schiuma.
Ma
comunque la situazione disciplinare resta grave, tanto grave che nelle ore
seguenti abbandonando chissà quale consiglio d’amministrazione, che tanto
l’importante è che ci sia il fratello maggiore, arriva anche il Presidente,
anche se Presidente non lo è più. Lo convoca, lo guarda negli occhi, prova a
spiegargli che Juan, qui ti abbiamo sempre coccolato, pagato, difeso, ma queste
cose non le puoi più fare, che già rischiamo di andare in trasferta a Gubbio il
prossimo anno, e ne sono passati solo due, di anni, da quando vincevamo ad Anfield.
Juan, così si chiama il ragazzo sudamericano che tira fortissimo, alza gli
occhi verso l’interlocutore e capisce che la sua storia in quella città così
lontana, così diversa da Lima, è finita.
Si alza, e mentre gira le spalle al
Presidente, pensando di non dover mai più entrare in quell’ufficio, pronuncia,
scandendo bene ogni lettera, otto parole che sembrano proiettili.
«Yo no soy Juan, yo soy el Loco»
***
Firenze,
Stadio Artemio Franchi
Autunno
2013
Tra
la porta sbattuta nell’ufficio del Presidente e questa serata settembrina ne
sono successe di cose. L’allenatore che non riusciva a tenere in pugno i
ragazzini balcanici alla fine ha trovato una soluzione ma poi per questa è
stato costretto ad andarsene. La squadra ha evitato le trasferte a Gubbio, ma
solo perché in uno strano sabato pomeriggio a Lecce Cerci ha segnato il gol che
gli ha fatto perdonare quelle passeggiate col gatto al guinzaglio che proprio ai
fiorentini non andavano giù, per poi infine andare via anche lui, dopo aver
rubato il giorno del suo compleanno delle pernici imbalsamate in un ristorante
di Moena, insieme ad una compagnia composta anche, come se ci fosse bisogno di
dirlo, dal sudamericano che tira fortissimo. E anche lui se ne è andato, a
Genova, che non sarà Lima ma almeno c’è il mare, dopo aver cercato per tutta
l’estate un trasferimento in una grande squadra che non è mai arrivato, perché
già è difficile entrare nell’élite del calcio europeo se sei dieci chili in
sovrappeso, figuriamoci se questi li accompagni ad incidenti con Suv guidati da
cugini ubriachi, paparazzate con boccali di birra a notte fonda e tante,
troppe, malinconie. Arrivato a Genova dichiarazioni raggianti, il passato alle
spalle, i cattivi pensieri, causati dalla troppo lunga permanenza a Firenze, che
non ci sono più. Ma nei fatti niente cambia: restano i chili, resta il numero
zero, per la seconda stagione consecutiva, alla voce di gol segnati in
campionato, restano gli infortuni che gli fanno saltare in totale oltre tre
mesi e mezzo di calcio giocato.
Finisce la stagione, il riscatto ovviamente non
arriva, e così viene rispedito all’indietro per il tratto autostradale che
collega Genova e Firenze, e Lima, la pace, casa, diventano così lontani che non
basterebbero più nemmeno tutti quei vetri ambrati ancora sporchi di schiuma.
Quando arriva in ritiro è praticamente un imbucato alla festa di matrimonio di
due sconosciuti. A Firenze è cambiato tutto, e mentre gli infortuni e i piatti
di buridda riempivano il 2011-2012 di Juan, la squadra è tornata ad ottenere
risultati importanti e nell’aria si respira davvero
l’armonia cristallizzata di una festa di matrimonio. Considerando una minaccia
inserire un Loco in questo mondo viola confetto e in piena pax borjana la dirigenza fa di tutto, ma proprio di tutto, per
liberarsene. Ma nei giorni necessari per trovare qualcuno che finalmente
accetta (e questo qualcuno è il Livorno appena tornato in Serie A così
bisognoso di giocatori d’esperienza gratis che forse sarebbe pronto ad
accogliere a braccia aperte anche Fabrizio Cammarata, e infatti finisce a
prendere Leandro Rinaudo), l’incarico di gestire quello che ormai è soltanto un
problema, un investimento non poco costoso e ad alto tasso di rischio, accade
qualcosa.
Molti, rovinati dai cliché di certa narrativa, innamorati
dell’entrata in scena del deus-ex-machina,
dell’aiutante, del saggio che redime e illumina la via, diranno che il nuovo
allenatore è riuscito a convincerlo a mettere da parte, almeno per un po’, il
Loco, o almeno coprirne la confusione con il rumore secco che fanno i palloni quando
sono tirati fortissimo. Agli altri resta il vagheggiare di un percorso
psicologico e emotivo del tutto individuale, maturato nelle infinite sedute
d’allenamento trascorse a passarsi stancamente il pallone con l’altro
emarginato, ed altro ladro di pernici, Ruben Olivera (ma questa è un’altra
storia). Il fatto è che Juan a Livorno non ci vuole andare. Ok c’è il mare, ok a
dieci minuti di macchina dallo stadio c’è un ristorante peruviano che magari fa
un ottimo ceviche, ok è ancora Serie A. Non sarebbe un problema Livorno in sé:
il problema è andare via. Juan vuole restare, anche se questo significa dover
prolungare di un anno il contratto dimezzandosi di fatto lo stipendio, anche se
questo significa dover tornare in una forma presentabile, anche se questo
significa smettere con le Moretti e il pratone,
e il tutto senza aver nessuna garanzia di giocare. Firenze, ovviamente, non
capisce. Accusa il giocatore di essere un mercenario, di aver così poca voglia
di giocare da essersi accontentato di fare tribuna per altri due anni pur di
strappare ancora qualche soldo alla dirigenza. Le ultime due stagioni sono più
che sufficienti per sentenziare che quell’esterno sinistro dalle incredibili
doti atletiche e balistiche conteso per tutta l’estate 2010 da Real Madrid e Barcellona
ormai non esiste più, e che se ne è andato nel mondo onirico in cui ogni
giocatore ripete all’infinito la sua migliore stagione (e lì in eterno riceve
sulla fascia sinistra i passaggi filtranti del Gaetano D’Agostino 2008-2009)
lasciando il posto a un ex-giocatore forse buono per un ultimo campionato in
Qatar. A Firenze nessuno sembra ricordarsi che uno dei grandi classici della
letteratura di ogni tempo e di ogni qualità è la risalita del protagonista dopo
l’aver toccato il fondo, e soprattutto nessuno sembra accorgersi di quanto sia
letterario questo personaggio che, trovata occupata la sua maglia numero 6, opta per la numero 66, come i centilitri di
quelle Moretti stappate con la foga di chi forse in fondo ci crede che sia
possibile lastricare di vetri la strada che riporta a casa. Dopo un mese
dall’inizio della stagione gli zero minuti di presenza e l’esclusione dalla
rosa designata per le competizioni europee lasciano presupporre che in fondo i
tifosi avevano ragione, che ha rinnovato giusto per non sforzarsi e magari
creare pure un po’ di confusione nello spogliatoio, ché si sa che quello è
Loco.
È
un triste posticipo del lunedì sera quando, in una partita messasi malissimo
proprio allo scadere del primo tempo, dal tunnel non riesce il ragazzino
polacco che c’era entrato un quarto d’ora prima, ma uno sconosciuto. Prima che
lo speaker annunci il cambio in Curva sono già state formulate almeno
quattordici teorie sull’identità del neo entrato. Nessuno si accorge dei chili
persi, nessuno pensa che sia seriamente ancora in rosa. La seconda volta della
serata in cui lo speaker è chiamato a pronunciare il suo nome, quando ormai è
montata la consapevolezza che davvero si è appena completata una rimonta (che
poi sarà puntualmente vanificata dal gol di un ex a tempo scaduto) con un gol
di Juan, parte spontaneamente, a coprire tutto, anche la voce dello speaker
stesso, il coro dedicatogli negli anni passati, come se non fosse mai cambiato
niente, come se fosse passato un giorno, e non ottocentottantatrè, dall’ultima volta che ha segnato in questo stadio.
Un
qualsiasi giocatore in una situazione del genere sarebbe corso sotto quella
Curva per sanare una volta per tutte una situazione rimasta tesa troppo a lungo,
un bacio alla maglia valido come una versione condensata in due secondi dei
trecentosessantotto giorni della conferenza di Versailles. Ma Juan non è un
giocatore qualsiasi, ed ha qualcos’altro in sospeso da risolvere. Invece di
esultare alza gli occhi verso la tribuna, e, mentre corre con lo sguardo fisso
verso questa, bisbiglia visibilmente commosso alcune parole. Mi piace pensare
che non siano state parole d’amore, che il destinatario non sia stato un
familiare, che tanta fatica non sia stata fatta per finire con una battuta
presa in prestito a un romanzetto sentimentale. Juan non è un giocatore
qualsiasi. Juan non può che aver detto, scandendo bene ogni lettera, dieci
parole che sembrano proiettili.
«Vede
Presidente, yo soy Juan, pero también soy
el Loco»
***
Varsavia,
Stadion Narodowy
Estate
2014
Un
gruppo di ragazzi tra i venti e i trent’anni, di cui molti sudamericani, si
passano la palla sul pratone dello
Stadio Nazionale. Nonostante non faccia poi così caldo, tra un passaggio e un
altro sugli spalti le birre ghiacciate vanno via veloci, come al solito. Una
Tyskie, due Tyskie, tre Tyskie, tante Tyskie da lastricarci col vetro delle
bottiglie tutti i chilometri che ci sono tra Varsavia e Firenze, e poi tra
Firenze e Lima. A un certo punto la palla arriva sobbalzando lentamente a uno
dei più atletici della compagnia. È scattante e veloce, e si lancia incontro al
cuoio. Come se fosse la cosa più naturale del mondo si coordina, si piega, tira
fortissimo. L’impatto con le mani del portiere costaricense fa lo stesso rumore
secco di un legamento che si rompe.