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venerdì 22 novembre 2013

La cavalcata giallorossa nella Uefa 90-91



Per me era ancora estate: al 19 settembre 1990 la scuola non era ancora cominciata e mi godevo gli ultimi giorni al mare della Calabria. Spiagge deserte, e lì dove quasi tre mesi prima si accalcava la gente per seguire gli azzurri nel mondiale delle notte magiche non c’era più nessuno.
L’Argentina aveva spezzato il sogno di invincibilità della nazionale di calcio, al ragazzino di dieci anni rimaneva la squadra del cuore, l’unico affetto che con la madre non si cambia mai (lo dice anche un mio amico boliviano tifosissimo dell’Huracàn: in Bolivia vanno pazzi per il calcio argentino).
Le premesse non erano incoraggianti: una serie di campionati passati di basso profilo, senza alcuna possibilità di lasciare una qualche traccia, con il ricordo lontano di quel suicidio di massa in Roma Lecce 2-3…un ricordo vago, oscuro, doloroso.
Il campionato era appena iniziato e la domenica precedente ne avevamo presi 3 a Genova. Mercoledì cominciava una nuova esperienza per me: la coppa Uefa.
Finalmente si potevano vedere le partite in diretta, senza dover ascoltare le telecronache di Giulio Galasso e Lamberto Giorgi su Teleroma 56 - “In campo con Roma e Lazio” - che ogni cinque minuti interrompevano il racconto della partita per ricordarci quanto era bello l’orologio princeps giamaica o per gustarsi il caffè di cui non mi ricordo la marca (che poi è vero che il telecronista brasiliano Pato era il fratello di Falcao?).

E qui apriamo una piccola parentesi: negli anni 80-90 a Roma, ancora prima delle fantomatiche radio ascoltate da tassinari e baristi che chiamano in trasmissione dicendo “Bella Mario, innanzitutto complimenti pe’ la trasmissione….te chiamo da via de Boccea dove ‘sto a fa’ ‘na consegna ….er capitano è troppo forte e la Roma è maggica!”, radio che vengono invocate da stampa tv e giornali come seminatori di odio e disordine tra la tifoseria, insomma prima di queste radio c’era una produzione calcistica televisiva locale di grandissimo livello: il già citato “In campo con Roma e Lazio”, telecronache in diretta e collegamento col campo tre ore prima della partita. 
Impossibile non citare il Professor Claudio Moroni, conduttore in solitaria di “Io e Monna Lisa”: questo qui stava seduto su una poltrona in stile neoimpero (finto), con un ritratto della Gioconda, con la quale dialogava parlando di Roma e di Lazio. Insuperabile quando se la prese con Carlos Bianchi, che chiedeva sempre ai giornalisti dopo una delle tante sconfitte della Roma se avessero mai giocato a calcio in vita loro, dicendo “Ah Bianci, e poi che ti chiedi sempre se uno ha giocato o non ha giocato a calcio?! Fatte li cazzi tua!!”. 
Il top era “Gol di Notte”, condotto da Michele Plastino (si fecero le ossa lì Sandro Piccinini e Fabio Caressa), grande estimatore del Profeta Boemo, che in quella trasmissione lanciò i primi attacchi sul doping. Quando Zeman passò alla Roma invecchiò di dieci anni in un colpo solo. Un sabato sera ho anche chiamato per partecipare ad un gioco dove si vinceva un orologio…l’emozione era tale che non risposi nel modo giusto.
Comunque queste televisioni locali offrivano un prodotto popolare e onesto: non c’erano inutili fighe rifatte da cartellone pubblicitario, filosofi del pallone e calciatori in pensione che facevano i tristi opinionisti, non ti scassavano la minchia con la moviola e c’era una cortesia di fondo tra conduttori, ospiti e ascoltatori. Nel contesto romano, il degrado culturale e la corsa al ribasso derivante da oltre trent’anni di berlusconismo televisivo ha portato, a mio avviso, alla sostituzione di quei programmi televisivi con le radio di oggi in stile Marione. A Roma, la mia impressione è che i tre quarti delle persone con cui parli di calcio per strada ripetono meccanicamente quanto sentono alla radio, senza alcuno spirito critico. Ho visto sempre meno quella leggerezza che vivevo nei primi anni da tifoso, e ho notato sempre più aggressività senza senso.
 

Tornando alla UEFA, il primo scoglio da superare ai miei occhi era insuperabile: il Benfica di Sven Goran Eriksson, sempre rimpianto anche quando è andato alla Lazio, che aveva qualche mese prima perso di misura la finale di Coppa Campioni contro il Milan stellare di Sacchi, Gullit, Van Basten e tanti altri. Quali speranze per la mia Roma contro i vice-campioni d’Europa? Non ne vedevo alcuna.
Era una squadra tosta quella Roma, che giocava un buon calcio all’italiana, di sostanza, senza brillare: a giocatori di cuore e quantità (il caterpillar Berthold, Sebino Nela, Fabrizio Di Mauro, Ruggiero Rizzitelli) ne univa altri di più o meno raffinata tecnica (il principe Giannini, Ciccio Desideri, Andrea Carnevale) e qualche fuoriclasse: Rudy Voeller, un rapace d’area di rigore stile Inzaghi ma non antipatico come lui (tra l’altro era il numero 9 della Germania campione del Mondo). C’era poi un giovane centrale difensivo brasiliano che giungeva proprio dal Benfica, proprio su suggerimento di Eriksson al presidente Viola: Aldair.
Uno spettacolo da veder giocare: abituato agli arcigni difensori italiani, questo qui si vedeva che veniva da un altro mondo. Non un difensore roccioso, particolarmente difficile da superare, ma una tecnica sopraffina, grande capacità di impostazione, personalità in campo e fuori, piede destro e sinistro equivalenti e un’eleganza naturale ad ogni pallone toccato…insomma, uno di quei difensori che con la palla tra i piedi fa impazzire gli attaccanti: stoppava la palla di petto, la metteva a terra sotto la suola, alzava la testa e faceva lanci millimetrici di 30-40 metri.
C’era poi un giovane, promettente e fortissimo portiere: Angelo Peruzzi, ma sappiamo come è andata a finire.
In panchina Ottavio Bianchi, allenatore del primo scudetto del Napoli: classico allenatore italiano e che gioca all’italiana nel senso tradizionale: marcatura a uomo con libero mascherato, ci si adatta alla squadra avversaria e si cerca di non prendere gol. Se capita ne facciamo qualcuno.
Torniamo al fine estate calabrese. Quel mercoledì sera mi reco al bar sportivo del paese, praticamente vuoto e chiedo al barista (panzone e coi baffi) se si può vedere la partita. “Quale partita…??” mi dice. “E’ la partita della Roma, la coppa Uefa….”, rispondo. Gentilmente e silenziosamente accende la TV, io mi siedo aspettandomi in cuor mio 90 minuti di agonia, e invece dopo 30 secondi dal fischio di inizio il miracolo: Carnevale la butta dentro su assist fortunoso di Aldair. Olimpico in delirio. Il resto della partita è un sostanziale assedio del Benfica ben orchestrato da Valdo, brasiliano dal piede vellutato, che trova però un insuperabile ostacolo in Peruzzi.
Si porta così a casa il risultato, che mi appariva una fragile assicurazione. Al ritorno a scuola, tra noi romanisti (ovviamente eravamo la maggioranza) giravano voci incontrollate su uno stadio, il Da Luz di Lisbona, impossibile da espugnare e difficilmente da uscirci indenne: a ricreazione facevamo la colletta, mi sembra 800 lire, per incaricare il bidello Ireneo, grande tifoso giallorosso con il poster dell’83-84 dietro al banco, di andare a comprare il Corriere dello Sport (a patto di lascargli il giornale a fine giornata).
Credo tra l’altro che sia stato in quel periodo che mi sia reso conto di quante minchiate spara il Corriere dello Sport.
Comunque arriva il giorno del ritorno (nel quale indossiamo un’interessante maglietta bianca con le scaglie giallorosse sulle maniche) e accade quello che sembrava impossibile: al 27° su incursione del tedesco volante, Giannini la mette dentro di ribattuta, sotto la curva dei tifosi romanisti. Il resto della partita scivola via con i portoghesi incapaci di imporre il loro gioco e la Roma a controllare la situazione. Al termine non ho più paura, non ho più timore: tutto è possibile per questa squadra.
 
Il turno successivo è preceduto da un evento che sconquassa l’ambiente a Trigoria e lascerà il segno per molto tempo: Peruzzi, già una certezza nonostante la giovane età, e Carnevale, comunque distinto attaccante che assicurava gol e qualità, vengono squalificati per doping. L’impatto è devastante, c’è chi grida al complotto, chi allo scandalo: sicuramente la società fa una gran bella figura di merda, consigliando ai due di giustificarsi in maniera ridicola, prima invocando una pasticca dimagrante presa per errore dalla mamma di Peruzzi dopo una scorpacciata di cinghiale (perchè poi invocare la magnata di cinghiale? Forse il carattere ruspante della presunta abboffata avrebbe reso la menzogna maggiormente credibile…), poi lamentando uno sciroppo contro il mal di tosse.
Un anno di squalifica (una mazzata…manco fossero stati cocainomani recidivi) e tante grazie. Alcuni dicono che ci sia stata dietro una volontà politica per mettere in difficoltà il Presidente Viola, ma un dato è certo: qualcosa di oscuro c’è stato; il controllo venne dopo un Roma-Bari, e sempre dopo un Napoli-Bari venne squalificato Maradona, essendo il Bari guidato da Antonio Matarrese. Solo coincidenze? Inoltre pare che proprio Peruzzi (che poi fu gentilmente regalato alla Juve, dove è diventato uno dei più forti portieri degli anni 90) e Carnevale fossero in quell’inizio stagione spesso sorteggiati dall’antidoping, come a volerli prendere in flagrante (la prima legge antidoping è arrivata subito dopo, sul punto vi consiglio i libri di Sandro Donati, "Campioni senza Valore" e  "Lo sport de doping", dove c'è un passaggio alla vicenda).


Col morale a terra la Roma si presenta a Valencia dove riesce a strappare un pareggio con una partita giocata in affanno (e un arbitraggio benevolo che ci grazia negando un rigore e annullando un gol al Valencia), grazie al gol di Ruggiero Rizzitelli, attaccante dai piedi scarsi e dal cuore grande.
Al ritorno all’Olimpico la squadra sta più in palla e riesce a sconfiggere 2 a 1 un modesto Valencia, grazie a Giannini che prende per mano la squadra e la guida per farla uscire dalle secche in cui si era incagliata.

Agli ottavi di finale ci ritroviamo contro il Bordeaux, semi sconosciuta squadra francese che si rivela avere una difesa scandalosa dotata di portiere citofono: complice anche un terreno di gioco che sembra quello di un oratorio e una serata freddissima che ghiaccia le mani del povero Bell (per la cronaca in quel Bordeaux giocavano Lizarazu e quel gobbo di Deschamps), ne riusciamo a fare 5 con tripletta di Voeller e doppietta di Gerolin. E’ una Roma in ripresa e il ritorno è una passeggiata, anche grazie al portiere Bell che pensa bene di sublimare la bella prestazione dell’andata facendosi espellere già nel primo tempo: finisce 0-2 con doppietta di Voeller e tutti felici!


Ai quarti di finale ci aspetta l’Anderlecht: squadra forte, più forte di noi. L’anno prima si era arresa in finale di Coppa delle Coppe alla Sampdoria campione d’Italia solamente ai supplementari: e invece con una prova pazzesca di tattica e agonismo la Roma gliene rifila 3: di particolare il 2 a 0 di Voeller su punizione, credo uno dei pochi o forse l’unico della sua bella carriera (culminata con la Coppa Campioni vinta col Marsiglia in finale contro il Milan di Capello e in coppia com Alen Boksic).
Il ritorno è una festa soprattutto per i tifosi in trasferta, che illuminano il grigio stadio belga e si godono la tripletta di Voeller, scatenato come una bestia….praticamente come tocca palla la mette dentro: risultato finale 2-3.
Per la semifinale sfida con una squadra danese assolutamente sconosciuta: il Brøndby (piccola cittadina vicino Copenaghen). All’epoca non era affatto strano che una squadra non nota e neppure particolarmente forte arrivasse in fondo ad una competizione europea: l’eliminazione diretta, anche in coppa Campioni e nella Coppa delle Coppe, poteva favorire squadre senza blasone che davano tutto per dieci partite l’anno e si ritrovavano alle fasi finali a giocarsi un posto nella storia. Oggi sarebbe impossibile.
In Danimarca pare che ci siano problemi di ordine pubblico: lo stadio è una bagnarola e basterebbero i tifosi in trasferta per riempirlo tutto. Non ci sono neanche le recinzioni, e le autorità danesi, preoccupate dal vitalismo latino dei romanisti, pensano (bene) di mettere le barriere al settore ospiti, col risultato di creare una gabbia per polli.
La partita è difficile e il Brøndby (in cui gioca il portiere Schmeichel) cerca in tutti i modi di segnare, ma la diga eretta da Bianchi e le parate di Cervone preservano uno 0-0 da giocarsi tutto al ritorno.


Qualche giorno prima della partita di ritorno comincia lo psicodramma: ce la fa l’infortunato Voeller a giocare o non ce la fa? La sua presenza è fondamentale: capocannoniere del torneo, la Roma si aggrappa a lui per arrivare in finale. A scuola il solito giro tra i banchi del Corriere dello Sport, fino a quando leggo la scritta a titoli cubitali che mi rassicura: “segno anche con una gamba sola”. Il tedesco giocherà, e sarà fondamentale: dopo il vantaggio di Rizzitelli e l’autogol di Nela (per la verità nel tentativo di rimediare ad una bella cappellata difensiva di Comi), durante un assedio scomposto, davanti al fantasma dell’eliminazione, riesce non so come a buttarla dentro in una mischia a due minuti dal 90°.
L’Olimpico è di nuovo in delirio.
Siamo in finale: c’è un posto nella storia anche per me.
L’Inter è più forte di noi e alla fine il 2-0 dell’andata - con un rigore inventato dall’arbitro russo su cui giravano strane storie di soldi e intermediari - li garantisce dalla finale di ritorno. L’uno a zero con gol di Rizzitelli non basta, e sette anni dopo la finale di Coppa Campioni dobbiamo subire un’altra finale persa in casa. La settima Coppa Italia vinta contro la Sampdoria campione d’Italia non servirà ad asciugare le lacrime, siamo su due piani completamente diversi. Nel frattempo la società passa di mano: il presidente Viola è morto e gli eredi cedono il pacchetto azionario a Giuseppe Ciarrapico.
Quella finale persa contro l’Inter è stata una mazzata durissima: ero convinto che ce l’avremmo fatta, non era pensabile che un’altra squadra avrebbe potuto alzare la Coppa nel nostro stadio. E invece successe. A 10 anni avevo sperimentato una delusione così grande da essere vaccinato per tutte quelle che ho vissuto in seguito, e non sono state poche.


E’ come se quella fantastica cavalcata nella coppa Uefa 90-91 mi abbia catapultato all’improvviso da uno stadio in cui il tifo è un passatempo piacevole ad uno in cui il tifo è fonte di emozioni fortissime: per questo sento un’empatia verso uno sconosciuto coetaneo tifoso sampdoriano, che l’anno successivo in finale di Coppa Campioni contro il Barcellona vivrà un’amarezza ancora più grande. Non ho vissuto il tuo dolore, ma ti posso capire benissimo. 

giovedì 17 novembre 2011

Gente da stadio: i primi anni

breve elogio del ragazzo del Cucciolone
Il primo anno mi abbonai allo stadio con il mio compagno di classe Raimondo. Non l'ho mai più rivisto.

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Approfittare della riduzione under 16 non fu un grande vantaggio. Ci diedero dei posti osceni in Distinti sud, giusto a metà della gradinata, con la vista al campo tagliata in due dal vetro delle scale. Di fatto, durante la partita dovevo scegliere se ingobbirmi (e vedere la partita attraverso il vetro, che più o meno equivaleva ad andare allo stadio con una maschera da immersioni) o stare sulle punte (e vedere la partita sopra il vetro, al naturale, ma facendo incazzare quello dietro di me). Era il secondo anno di Zeman e la Roma andava a fasi alterne. Non so di cosa parlassimo con Raimondo, nè ricordo chi fosse con noi (forse Giorgio, che poi, nel corso degli anni, è comparso e scomparso al mio fianco con rassicurante continuità). Dubito avessimo alcun rapporto con i vicini. In quella stagione si consumò il dramma di Roma-Inter 4-5, una partita folle in cui l'idealismo zemaniano scolorò - come purtroppo accadeva spesso - nel masochismo, nel manierismo ottuso, nella stupidità insomma. Quella sera c'era anche mio padre a vedere la partita. Non sono mai più tornato allo stadio con lui.

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Era mio padre che mi aveva portato per la prima volta allo stadio. Coppa Uefa, al primo turno la Roma sfidava il Benfica di Eriksson e di un certo Aldair. Entrammo in ritardo perchè volevano farmi pagare nonostante io non superassi l'altezza minima richiesta per pagare (all'epoca funzionava così: ti facevano mettere spalle al muro per misurare quanto eri alto, lo stesso gesto - ma meno tenero - di mia madre, con i segni a matita sulla carta da parati ogni anno un po' più alti). Andrea Carnevale segnò al primo minuto. Io mi persi quel gol. Altri non ce ne furono. Poi tornammo spesso. Partite di secondo piano. Ricordo una goleada contro la Cremonese e una contro il Bologna. In quarto ginnasio iniziai ad andare anche da solo. Un rocambolesco Roma-Empoli 4-3 lo vidi in curva con Federico. Lo andai a prendere a casa della zia dietro la Farnesina portando in dote un buon numero di crocchette del bar Euclide e poi sciamammo a piedi fino allo stadio parlando dei Marlene Kuntz. Indossavamo entrambi lo stesso loden che, almeno io, indosso tutt'oggi, e che fa tanto governo tecnico. All'epoca il tecnico era Zeman ed infatti la partita fu al limite del ridicolo, tant'è che la dovette risolvere il russo Omari Tetradze con una improbabile discesa sulla fascia destra (dopo il gol, il mio amico urlò: "Omarì, ti amo e ti ho sempre amato sin da quando giocavi nel campionato russo"). Di quella squadra ricordo con piacere il centrocampo: Eusebio di Francesco, Ivan Helguera e Cristiano Scapolo. Soprattutto per il terzo stravedevo. Peccato che, neanche a dirlo, dopo un paio di apparizioni nel girone di andata, anche lui non l'ho mai più rivisto.

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Scottato dall'esperienza-vetro, il secondo anno decisi di cambiare posto. Cambiai anche compagno di abbonamento e mi ritrovai in fila a piazza Colonna insieme al caro Nesat, colui che, negli oscuri anni delle scuole elementari, lontano dagli occhi indiscreti di suor Maria Luisa, mi aveva introdotto al calcioscommesse ("Stasera c'è Cagliari-Mechelen: giochiamoci 500 lire su chi vince"). Per gustarci dall'alto i movimenti delle linee zemaniane, dolci come una coreografia del Teatro Mariinsky di San Pietroburgo, facemmo la scelta coraggiosa di abbonarci in ultima fila. Fila 80, per l'esattezza. Dietro di noi, il vuoto. Dopo 11 anni, siamo ancora lì.

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Peccato che il nostro piano venne frustrato dall'esonero del boemo. Arrivò Capello e stare così in alto non ci servì più a nulla (per anni non si è più visto un fuorigioco ben fatto all'Olimpico). Però rimanemmo e quei primi anni della mia vita allo stadio, una buona prima metà, sono stati segnati da una confortevole ripetitività di luoghi e persone. Mentre la Roma vinceva come mai nella sua storia, e allo stesso tempo sprecava occasioni per vincere di più come mai nella sua storia, io e Nesat riuscimmo tuttavia a non integrarci mai davvero con la gente intorno a noi, che pure era sempre la stessa. In particolare davanti a noi sedevano tre ragazzi di qualche anno più grandi di noi, di cui due erano fratelli e l'altro un amico del fratello minore. Questi tre - con cui, in tani anni, non familiarizzammo mai, probabilmente neanche scambiammo mai una parola - erano espressione di quell'inconfondibile ceto quasi-medio romano, di ex-borgata ormai urbanizzata, di emerita stirpe ministerial-catastale, che all'epoca si riconoscevano per il pizzetto e le Adidas scamosciate che portavano ai piedi, oltre che per una maniera di comportarsi che trasudava cd di Vasco Rossi in macchina, placide estati ad Anzio-Lavinio e certe minime aspirazioni di lasciare al loro destino gli amici del baretto per entrare, magari dopo aver impalmato la figlia del dirigente dell'Agenzia delle Entrate compagna di liceo, nella borghesia adagiata sulla direttrice Piazza Irnerio-Via Baldo degli Ubaldi-Via Candia. Il più grande dei tre - il fratello maggiore - era un tipo silenzioso, dall'aria introversa di quello che la sapeva lunga, che "aveva vissuto", che rasentava la sosiaggine con il cantante Daniele Silvestri. Non parlava molto ma quando lo faceva tutti lo ascoltavano con devozione, soprattutto quando tirava una bestemmia contro l'arbitro o un avversario falloso. Il fratello minore gli assomigliava solo fisicamente. Spesso colto da trance agonistica, poteva lanciare improperi anche per novanta minuti di fila. Erede della grande tradizione istrionica romana, si vedeva lontano un miglio che arrivava allo stadio con alcune battute di spirito già preparate a casa, e al momento giusto si alzava in piedi - sempre approfittando di un momento di silenziosa risacca del settore - e le declamava agli amici, facendo ben attenzione a farsi sentire anche dagli altri vicini (noi per primi). Peraltro, per rendere queste sue frasi ancora più ad effetto, calcava il più possibile la sua cadenza romanesca. Adesso non ne ricordo più molte, ma sì ricordo che una su tre aveva a che vedere con Marco "a' cammellò!" Delvecchio, il quale veniva di solito assimilato a Bocelli. Poi ci fu l'episodio di Mondragòn.

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Faryd Aly Camilo Mondragòn era il portiere colombiano del Galatasaray. Nel più bell'anno della Roma, quello in cui strapazzammo anche il Barcellona, la nostra corsa trionfale in Champions League venne frenata, prima del tracollo sotto la Kop, dal pareggio interno contro i turchi (una vittoria quel giorno avrebbe trasformato il viaggio inglese in una scampagnata sul Merseyside). Prima, durante e dopo la partita c'era quindi molta tensione, sia in campo (tutti si ricordano il parapiglia all'uscita di scena) che sugli spalti. Dopo il vantaggio ottomano ci fu, proprio all'inizio della ripresa, il pareggio di Cafu. Il secondo tempo si convertì così in un assedio giallorosso all'arma bianca, che non portò però al gol-qualificazione anche per colpa dei miracolosi interventi del folcloristico portiere ospite. Esasperato da tale performance, il nostro vicino di posto con l'improperio facile produsse quello che, a mio parere, rimane il suo capolavoro. Tiro dalla distanza; gran parata di Mondragòn; "uuuhhhh" dell'Olimpico seguito da silenzio tombale; il nostro amico si alza in piedi, si sistema il ciuffo, rotea l'occhio a destra e sinistra per palpare la tensione della gente, capisce che tutti aspettano la sua sentenza, e la spara:
A' Mondragò, tanto torni a casa e trovi tu fijo impiccato.
Così, totalmente gratuita. Io e Nesat ci guardiamo e pensiamo alla stessa scena: il pullman dei giocatori del Galatasaray che arriva al centro sportivo alle 3 di notte, Mondragòn che prende la macchina per tornare a casa, la parcheggia in garage, sale le scale, gira la chiave nella serratura, apre la porta, si toglie la giacca, appoggia la sacca all'ingresso, beve un bicchier d'acqua, apre la porta della sua camera da letto, la moglie dorme silenziosa, prosegue per il corridoio, sbircia dentro la stanza di suo figlio, non lo vede a letto, per un attimo si spaventa, accende la luce, e lo trova dondolante, appeso con una corda ad una trave del soffitto. Sulla scrivania, accanto al quaderno dei compiti di matematica, un foglio a quadretti, con una scritta: "Lo siento, papà".

***

A riportatre l'allegria ci pensava il terzo amico, che peraltro non veniva sempre. Era un ragazzo tarchiato e pelato che diventò presto il nostro mito per via del suo rapporto bizzarro con l'umorismo. Si capiva che soffriva la presenza dei due fratelli: il minore, che poi capimmo essere il suo amico, era troppo più brillante di lui; il maggiore, che poi capimmo non lo sopportava proprio, era troppo più saggio. Questo povero ragazzo era il classico romano che vuole sempre fare il brillante, quello che, per citare un noto film di Verdone, a a me 'a battuta me piace. Peccato che le sue battute facevano pena, non facevano ridere per niente. Quando poi provava a condirle con qualche improperio, per scimmiottare il suo amico, gli riuscivano ancora peggio (non era credibile il suo atteggiamento da duro). Per questo motivo noi l'avevamo ribattezzato "il ragazzo del Cucciolone". Ci eravamo cioè convinti che fosse lui il misterioso autore delle mirabolanti freddure che si trovano impresse sulla cialda del celebre gelato (del tipo "ho un gommone da otto metri" "e che ci devi cancellare?"). Il livello era quello. Ma la cosa più divertente fu un'altra. Il ragazzo del Cucciolone, per innalzare il livello della sua performance cabarettistica, e farsi così benvolere/accettare dai due fratelli, aveva trovato uno stratagemma. Fondamentalmente, quando ci sentiva ridere (e ridevamo, e ridiamo, molto spesso), si metteva ad ascoltarci, carpiva le battute che io e Nesat ci scambiavamo, le memorizzava, faceva passare dai trenta ai quaranta secondi (i quaranta secondi più lunghi della sua vita, perchè fremeva al pensiero della risata scrosciante che avrebbe provocato con quella battuta che stava per pronunciare, di solito anticipata da un concitato "a regà a regà sentite questa") e poi le sparava ai due fratelli, che alle volte gli facevano caso, altre meno. Ora, a parte il fatto che ci faceva ridere che ci copiasse le battute, sapendo peraltro che noi lo avremmo sentito, la cosa più spassosa era che, da sempre, l'umorismo che condivido con Nesat è molto personale, auto-referenziale, nonsense; cioè, il più delle volte ridiamo per cose che, tendenzialmente, possiamo capire solo noi e chi ci conosce. Il ragazzo del Cucciolone, accecato dal bisogno di ilarità, non aveva invece alcuno spirito critico, non filtrava le nostre freddure, e le ripeteva anche quando non le capiva, con la conseguenza che, appunto, i due fratelli non scoppiavano sempre - per sua grande delusione - in grosse risate. Con grande cinismo decidemmo allora con Nesat di escogitare un piano: praticamente, previo un cenno di intesa, uno dei due diceva ad alta voce, premettendo che sarebbe stata una battuta memorabile, una stronzata di dimensioni colossali, che non solo non faceva ridere, ma spesso non aveva neanche senso in italiano (esempio: "ahò, Paulo Sergio sembra che s'è magnato un frigorifero" "sì, cor cenone de capodanno dentro" "ahahahahah sei troppo forte" "questa è proprio buona"). Tempo trenta secondi, e la battuta veniva ripetuta dal ragazzo del Cucciolone ("a regà a regà sentite questa: ma che s'è magnato Paulo Sergio, er frigorifero cor cenone de capodanno dentro?!"). Ovviamente non rideva nessuno (alle volte succedeva che capiva male le battute e le ripeteva modalità telefono-senza-fili: "a regà a regà sentite questa: ma che er cenone de capodanno lo famo da Paulo Sergio?!"; oppure: "a regà a regà sentite questa: me so' comprato er frigorifero de Paulo Sergio"). A fine stagione Capello lasciò la Roma di nascosto, e io non ho mai più rivisto né i due fratelli né il ragazzo del Cucciolone.

(continua)

giovedì 7 ottobre 2010

Elegia del Difensore

Lacrime di Borghetti, per antonomasia, elogia gli eccessi, predilige ed adotta chiunque dilapidi il suo talento.
Non è un caso che, sulla falsa riga di questa sorta di inversione del sacro e profano, si sostanzia anche la mia personalissima visione del calcio.
Chiamiamola, per vanità, la Versione di Tato; ovvero, per competenza, l'Elegia del difensore.
E allora incominciamo.
Da parte mia, il calcio si guarda all'incontrario.
Escludo le iperboli offensive dei centravanti, le vanità fanciullesche dei bomber.
Con attenzione e bramosia studio esclusivamente i difensori, avido nel cercare nei loro gesti esitazioni e mancanze.
E così squadre eccelse, divengono ai miei occhi poco più che mediocri, ed allenatori alla ribalta scolaretti cui far vedere un paio di schizzi su una lavagna.
La difesa è l'anima del calcio e della sua estetica. Un difensore a volte non vede mai il pallone. Guarda i compagni. Scruta avversari. E poi arriva quella mezza palla proprio nella sua zona, dopo minuti di corsa e posizione, a seguire una linea, una posizione: la geometria.
Ecco, un difensore talvolta è un geometra.
A ben guardare, il panorama calcistico internazionale è costellato di difensori dotati di una tecnica poco più che sufficiente, che però fanno dell'interpretazione del ruolo il loro valore aggiunto.
Ed infatti, a differenza di qualsiasi altro ruolo, il difensore non deve essere "assolutamente" forte, quanto piuttosto deve saper interpretare un copione preciso e senza sbavature, fatto di concentrazione ed attenzione ai dettagli.
La giornata "no", per intenderci, non è consentita; chi è solito imbroccarne una ogni tanto, è inaffidabile, dunque oggettivamente scarso. Punto e basta.
Li ricordo tutti quelli forti davvero.
Tra i tanti, Aldair e il suo sguardo triste. Che poesia quando usciva palla al piede; la partita sembrava tirare fuori un bel sospiro, ingentilirsi.
Baresi. Tuttora il fuorigioco ha la sua faccia e rispetta il suo braccio alzato. E poi Maldini e la sua falcata, il Cannavaro mondiale - un'esplosione di energia e concentrazione - l'irruenza intimidatoria di Montero, il cervello di Ferrara.
Scuole e convinzioni diverse che interpretano un ruolo quasi come se si trattasse di una maschera teatrale, in attesa che la giostra abbia inizio.
Tutte le scuole hanno un loro contenuto, quella argentina, fatta di corsa e passione, quella inglese, muscolare e pesante, persino quella sibillina e spesso tentennante spagnola.
Ogni difensore e dicotomico rispetto ad ogni altro. Non esistono difensori simili né interpreti intercambiabili tra loro.
La tecnica fine a se stessa c'entra e non c'entra: in alcuni casi assurge a valore assoluto, sopra la media. Altre non entra proprio in ballo.
Fine psicologia si nasconde in alcuni interpreti, che miscelata alchemicamente con i compagni diviene ricerca della giusta misura.
Una delle (tante) cose del calcio moderno che proprio non mi va giù è la quasi completa scomparsa delle marcatura a uomo.
Non penso solo alla disastrosa conseguenza che tale impostazione ha generato nei giovani difensori, quanto piuttosto al bieco risultato che ne risulta: la quasi completa scomparsa degli epici duelli tra centrale e centravanti, fatti di corsa, astuzie, calci e provocazioni. Partita nella partita.
[una partita nella partita]
Anche la tattica trova il suo empirico compimento nella fase difensiva.
Anziché stropicciarsi gli occhi dinnanzi all'ennesimo apertura in controtempo del Pirlo di turno, provate a seguire la linea di una difesa a quattro per capirne la compattezza e l'educazione. Se poi si ha la fortuna di avere in campo grandi campioni (o attori?) anche lì dietro, allora potremmo apprezzare gesti tecnici fuori dal comune. Una diagonale di Panucci è stata per anni roba da spellarsi le mani, così come l'anticipo puntuale e disarmante di Nesta, il corpo a corpo di Samuel.
In sintesi, immaginate che le partite siano viste tramite uno specchio che riflette tutto riproducendolo ma, allo stesso tempo, invertendolo, senza che noi ci accorgiamo di nulla.
In tale riflesso Juan è il numero 10 del momento, Maicon il 7 talentuoso cui far pubblicizzare mutande imbottite, Puyol il centravanti britannico da copertina e Wag ben gonfiata sotto braccio.