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martedì 28 aprile 2015

Bala Roja



“Dottor Errasti?”.
Suor Isabel si avvicinò, un’espressione contrita sul volto.
“Sono appena arrivato, sorella. Non mi dia brutte notizie”. Abbozzò un sorriso, ma la suora non ricambiò.
“Stanotte, dottore”.
“Chi?”.
“Guillermo”.
Errasti sospirò. “Capisco”.
“Gli era già stata data quattro volte l’estrema unzione, dottore. Non c’era nulla che potessimo fare”.
“Già”. Per qualche secondo si accarezzò il mento, pensieroso. “Voglio vederlo”.
“È ancora giù, dottore. Lo passeranno a prendere in serata”.
“Mi accompagni, sorella”.
Suor Isabel annuì e si mise alla sua sinistra. Iniziarono a camminare in silenzio.
“Ah, dottore...”. La suora si frugò in tasca e ne trasse un portasigarette d’argento. “Gli abbiamo trovato solo questo. Possibile che non possedesse altro?”
Errasti prese il portasigarette, lo aprì, lo girò. Un sorriso amaro gli increspò le labbra. “Credo di sì, sorella. Aveva molti debiti”.
“È strano vedere un uomo tanto povero con una cosa così… preziosa. Chissà perché era finito qui, il nostro Guille”.
Il dottore si fermò di botto. La guardò stupito, come se non avesse capito bene.
“Davvero non sa chi era Guillermo, sorella?”
“Un pover’uomo solo e malato, dottore.”
“Non le hanno mai raccontato nulla di lui?”
Scosse la testa. “Non sono qui da molto, e faccio soprattutto i turni di notte. Parlo poco con i pazienti”.
Errasti ripresa a camminare, giocherellando a ogni passo con il portasigarette. “Vedendolo qui nessuno lo avrebbe detto, ma Guillermo trent’anni fa era famoso. Famosissimo. Probabilmente è stato uno dei calciatori più forti mai esistiti”.
“Un calciatore?” Suor Isabel sembrava sconvolta. “Un calciatore famoso? Qui?”.
Il dottore si fermò ancora. Guardò l’orologio: era ancora presto, e c’era tutto il tempo per iniziare il solito giro tra i vecchi tubercolotici senza speranza del Sanatorio. “Andiamo a prendere un caffè, sorella. Voglio raccontarle una storia”.

“Forse mi ha visto parlare con Guillermo, qualche volta. Lo facevamo spesso. Quasi non credetti ai miei occhi quando lessi il suo nome sulla cartella, la prima volta. Sa, mio padre mi ha trasmesso la sua immensa passione per l’Athletic, e Guillermo è stato uno dei miei idoli di gioventù. Lo chiamavano Bala Roja (il proiettile rosso). Era l’essere umano più veloce che si fosse mai visto su un campo di calcio, mi creda. Con la palla tra i piedi era due volte più rapido dei difensori che dovevano marcarlo. Poveretti, li faceva impazzire. Gli mostrava il pallone, tenendolo proprio lì, davanti a loro, ma quando facevano un passo... puf, il pallone era sparito e lui stava volando verso la porta. Gli avversari pensavano che ce ne fossero almeno un paio, di Guillermo. Uno che ti puntava a sinistra e un altro che ti passava da destra, e viceversa. Spesso non aveva neppure bisogno di fintare: si buttava in avanti caricando come un toro ed era così veloce da superare il difensore quasi senza toccare la palla. Ora dicono che Gento sia l’ala sinistra più forte e veloce di sempre, ma solo perché non si ricordano di Gorostiza. Guillermo Gorostiza. Bala Roja era così veloce da lasciare indietro anche i suoi compagni di squadra che correvano senza il pallone, allora decideva di buttarsi in mezzo e segnare lui, da solo. Gli ho visto fare così tanti gol da aver perso il conto, sorella. Giocava a sinistra, ma era destro: cosicché poteva rientrare al centro e calciare con la porta dal lato giusto. Vederlo in campo era uno spettacolo. Era fatto per il calcio, pensava solo al calcio e il calcio era l’unica cosa che gli riusciva bene. Una volta mi disse che avremmo potuto essere colleghi: il padre era medico, fu anche presidente del Colegio de Médicos de Vizcaya, e voleva che Guillermo seguisse le sue orme. Ma a lui non interessava curare la gente. Lui voleva divertirla allo stadio, con i suoi dribbling e i suoi gol... d’altra parte, meglio un bravo calciatore di un cattivo dottore. Il padre le provò tutte, ma lui tornò sempre al pallone. Smise si studiare e andò a lavorare in un cantiere navale a Sestao, un mestiere che gli permetteva di guadagnare qualcosa e di avere del tempo per giocare. Lo presero all’Arenas di Getxo, che allora era un gran club, ma poi il padre lo spedì da uno zio a Buenos Aires, per provare a raddrizzarlo. Non ci riuscì. Guillermo mi disse che frequentava i campi di calcio di giorno e le sale da ballo di notte, finché lo zio, disperato, decise di rispedirlo in Spagna. Si pagò il viaggio pulendo il ponte della nave, ma a lui non importò: voleva solo tornare per diventare un giocatore di calcio. E ci riuscì. Durante il servizio militare fu arruolato in marina e venne inviato di stanza a Ferrol, ma il mare lo vide poco. Quando si accorsero di cosa sapeva fare con la palla tra i piedi, lo fecero tesserare dal Racing. Alla prima partita, un’amichevole contro l’Espanyol di Zamora, scese come una furia sulla sinistra, si buttò al centro, tirò e segnò al portiere più grande del mondo, al Divino. Tutti parlarono di questo ragazzo di Santurtzi che aveva segnato un gol a Zamora, e anche a Bilbao arrivarono le voci. L’Athletic ci giocò contro in Coppa e decise subito di acquistarlo. Dovette pagare 20.000 pesetas all’Arenas, che ancora ne aveva i diritti. Sì, sorella, 20.000 pesetas… nel 1929. Adesso potremmo ristrutturare questo posto e aggiungerci anche un paio di ali nuove, con 20.000 pesetas di allora. Ed era quello che valeva Gorostiza. Con la zurigorri fu... tutto. Un genio. Un trascinatore. Un mito. I bambini che giocavano al parco volevano essere Gorostiza, le sue figurine erano le più popolari. Quattro campionati, sorella, quattro. E quattro Coppe. Questo ci ha fatto vincere Guillermo. A Bilbao, la linea della delantera era recitata come una preghiera: Lafuente, Iraragorri, Unamuno, Chirri e Gorostiza. Eravamo i più forti, allora. Un anno vincemmo 6-0 a Chamartín col Madrid e 12-1 in casa col Barça. Dodici, sorella! Dodici... che squadra! E Gorostiza era il migliore. I vecchi dicevano che, quando scendeva sulla fascia, l’erba del San Mamés non sapeva se fosse lui o il vento, tanto era leggero e impalpabile. Tutta la Spagna lo amava. Era il più forte anche in nazionale. Nel 1934 gli italiani dovettero azzopparlo per vincere il loro Mondiale. Le donne lo adoravano, e lui adorava loro... e la bottiglia. Fu quello a rovinarlo, anche se ci volle del tempo. Era tanto grande in campo quanto fragile fuori. Si faceva trascinare, lo sapevano tutti. Se incontrava qualcuno che gli diceva: Ehi Guille, andiamo a farci un bicchiere!, lui lo seguiva. Anche se doveva allenarsi. Era gentile e generoso, aveva tanti soldi e poca voglia di tenerseli. Ma finché era a Bilbao riusciva a non perdere del tutto il controllo. E poi... poi ci fu la guerra. Non ne ho mai parlato volentieri con lui, suor Isabel. Non perché lui non volesse, anzi. Ma il suo fu un tradimento. Prima decise di giocare con la squadra di Euskadi, quella che girò l’Europa raccogliendo fondi per la popolazione. Però, quando Bilbao cadde, lui scappò. Erano in Francia e Gorostiza disse agli altri che sarebbe andato a Parigi a trovare il padre... ma non era vero. Tornò in Spagna, chiese perdono e si arruolò volontario con i requetés carlisti, venendo usato per la propaganda dai franchisti. Luis Regueiro, che era il capitano di quella squadra, non lo perdonò mai. Quando la guerra finì, Gorostiza rientrò all’Athletic, ma le cose non furono più le stesse. L'anno dopo fu venduto al Valencia per 50.000 pesetas. Una cifra insensata per un 31enne, pensarono in molti. Guillermo dimostrò a tutti che non era finito. E anche se era più lento, più pesante e non volava più come una libellula, giocò 6 anni con loro e vinse due campionati e una Coppa. Ma a Valencia smarrì la strada, sorella. A volte spariva senza dire niente, altre ancora si presentava ubriaco agli allenamenti... talvolta anche alle partite. Eppure, nonostante tutto, era ancora il più forte, quando aveva voglia. Una volta, a Siviglia, scese in campo completamente ubriaco. L’arbitro fischiò un rigore al Valencia, lui lo tirò e mandò il pallone lontanissimo dalla porta, quasi contro la bandierina del calcio d’angolo. I tifosi del Sevilla cominciarono a irriderlo, a chiamarlo borracho, a fischiarlo quando toccava la palla. Allora lui si ricordò di essere Gorostiza, e iniziò a giocare. La partita finì 4-0 per la sua squadra e lui segnò 4 gol. Quando uscì, tutto il pubblico si alzò in piedi e lo applaudì. Questo era Guillermo Gorostiza, sorella”.
Suor Isabel rimase in silenzio. Sembrava riflettere. Forse confrontava l’immagine del Guillermo calciatore, che il dottore le aveva mostrato, con l’uomo invecchiato precocemente che ora stava sopra un tavolo dell’obitorio. “Non avevo mai sentito parlare di questo... Gorostiza” gli disse infine. “Mai, in tutta la mia vita. Eppure vengo da una famiglia dove vivono sei uomini, e tutti seguono il calcio”.

Errasti allargò le braccia. “A volte capita, sorella. Capita di essere un dio e di non riuscire a reggerne il peso. Guillermo dava la colpa a tante cose - all’irriconoscenza, a chi gli aveva voltato le spalle, a chi si era fatto nemico durante la Guerra. Ma la realtà era un'altra, e lui lo sapeva. Sa, sei mesi fa venne a trovarlo un uomo. Una cosa strana, nessuno passava mai per lui - e sì che aveva una moglie e due figli. Era un regista e stava girando un documentario su personaggi un tempo famosi e ora dimenticati. Anche lui aveva avuto Gorostiza come idolo, da ragazzo. Guillermo fu molto gentile e acconsentì a farsi riprendere per un giorno intero. Tirò anche un rigore, alla fine... il suo ultimo gol. Comunque, a un certo punto il regista, Manuel Summers, gli chiese cosa facesse tutto il giorno. El ridiculo, rispose lui. Mi sono bevuto e fumato tutto, e ora faccio el ridiculo. Era consapevole di essersi distrutto da solo. Per questo è venuto a morire qui, senza soldi, lontano da tutti. Sapeva di aver buttato via ogni cosa e non riusciva a perdonarsi. Ma, in fondo, credo che non avesse nulla per cui chiedere perdono”.
La suora lo guardò in tralice. “Bere, fumare, andare a donne, sperperare i propri soldi, allontanare la propria famiglia… sono peccati mortali, dottore”.
“Forse”. Errasti si alzò. “Ma la gioia che lui ha donato a migliaia di persone, sorella, quella non ha prezzo”.
Suor Isabel scosse la testa. “No, dottore, non basta”.
“Probabilmente è così. Ma provi a pensare a quale sofferenza ha dovuto provare un uomo che aveva tutto e che si era ridotto a vivere qui. Anni di fama e una fine lunga, lunghissima, a parlare della gloria passata in un posto che odora di alcool etilico, di malattia, di morte. Credo che lei dovrebbe avere compassione di lui, sorella”.
Suor Isabel arrossì. Il dottore si diresse alla porta, ma lei lo chiamò. “E questo?” gli chiese, mostrandogli il portasigarette che lui aveva lasciato sul tavolo.
“Lo riporti lei a Guillermo, sorella”. Si voltò e fece per uscire, poi ci ripensò. “Lo osservi bene prima di restituirglielo... forse capirà”.

La suora prese in mano il portasigarette e lo guardò per un attimo, poi se lo mise in tasca e tornò ai suoi compiti. Per qualche ora non ci pensò più, ma quando le cadde, dopo aver tirato fuori un mazzo di chiavi, si ricordò. Scese da basso, dove venivano tenuti i morti, e vide subito Guillermo, solo nella stanzetta vuota. Qualcuno gli aveva posato dei fiori vicino alla testa. Colui che era stato Gorostiza, la Bala Roja, era steso davanti a lei, troppe rughe a coprirgli il viso ormai rilassate dalla morte. Aveva 57 anni, ma vedendolo così chiunque gliene avrebbe dati almeno 70. Suor Isabel prese in mano il portasigarette e fece per appoggiarlo sul corpo del defunto, quando ripensò alle parole del dottor Errasti. Sul davanti era scritto “Gorostiza”, nient’altro. Lo aprì e ne osservò l’interno: c’erano un paio di sigarette, trucioli di tabacco, una trapuntina in seta bianca ingiallita dagli anni. Lo richiuse, quindi lo girò. Fu allora che scorse l’incisione sull’argento, annerita dal tempo ma ancora visibile. La lesse, poi posò il portasigarette sul petto di Guillermo. Per un attimo incontrò il suo volto, e fu allora che iniziò a piangere.

Guillermo Gorostiza Paredes (Santurtzi, 15 febbraio 1909 - Bilbao, 23 agosto 1966) è stato una delle più grandi ali sinistre della storia del calcio spagnolo. In carriera giocò 257 partite e segnò 185 gol nella massima divisione, vincendo 6 campionati (4 con l’Athletic e 2 con il Valencia) e 2 titoli di capocannoniere, ai quali vanno aggiunti 5 Coppe del Re (4 con l’Athletic, 1 col Valencia) e 7 campionati regionali baschi. Con la maglia della nazionale spagnola giocò 19 volte (2 gol) e partecipò ai Mondiali italiani del 1934. Fu tra i primi calciatori iberici ad acquisire lo status di stella mediatica e girò anche un film, ¡¡Campeones!!, nel 1943. La passione per gli alcolici, manifestata fin da giovane, negli ultimi anni di carriera degenerò in alcolismo vero e proprio. Dopo aver dissipato tutti i suoi guadagni morì povero, solo e dimenticato al "Sanatorio de Tuberculosos de Santa Marina" di Bilbao.

Il portasigarette d’argento gli fu regalato dal presidente del Valencia Luis Casanova dopo l’ultima partita con la maglia “ché”, ma Gorostiza lo impegnò dopo il ritiro dal calcio per pagare alcuni dei suoi numerosissimi debiti. Qualcuno lo trovò in un Monte di Pietà e avvertì il presidente dell’Athletic Enrique Guzmán, che lo riscattò e lo spedì a Casanova. Questi riuscì a rintracciare Gorostiza, già nell’ospizio di Santa Marina, e glielo inviò insieme a una somma di denaro, pregandolo di conservarlo. Cosa che lui fece fino alla morte. Sul retro del portasigarette erano incise queste parole: “Al mejor extremo izquierdo del mundo de todos los tiempos”.

mercoledì 28 agosto 2013

Tony Adams, l'asino. Un ritratto di Andrea Romano (Manicomio Football Club)


Sembra incredibile ma in quasi quattro anni non abbiamo mai parlato di Tony Adams, l'indimenticato capitano dei Gunners della nostra adolescenza. Rimediamo oggi, e alla grande, ospitando il lungo e affettuoso ritratto che il nostro amico e collaboratore Andrea Romano gli ha dedicato nel suo "Manicomio Football Club. Storie di campioni e colpi di testa", ormai un piccolo classico di letteratura calcistica, di cui abbiamo già parlato qualche mese fa. Per la gentile concessione dell'estratto ringraziamo, oltre l'autore, la casa editrice Zero 91.

***


TONY ADAMS
L’Asino

La matita nera scorre veloce sul foglio bianco. Tratti nervosi, rapidi, confusi. Tratti che sono un grido d’aiuto muto in un mondo blindato nel silenzio. Tony Adams passa ore intere a disegnare su quel pezzo di carta. Tratteggia quello che gli passa per la testa: qualche caricatura delle Tartarughe Ninja, una manciata di ritratti dell’Orso Baloo, una lunga sfilza di caricature di principi e principesse presi in prestito dalle favole della Disney. Centinaia di figure che lo tengono occupato e che gli impediscono di pensare, ritratti che spera di regalare il prima possibile ai suoi bambini. Perché è questo l’unico modo in cui ti puoi prendere cura dei tuoi figli quando sei chiuso a triplice mandata in una cella. Un buco di quattro metri per tre con le pareti di mattoni sudici e con l’umidità che penetra a fondo nelle ossa. Un buco tetro che devi imparare a chiamare casa. Anche se è arredato con due brande e un secchio. Un secchio che va riempito con i propri escrementi e che va svuotato prima fuori dalla finestra, poi giù nel cortile. Due, tre, quattro volte al giorno. Rituali che ti spogliano della tua umanità, cerimonie che trasformano l’umiliazione in routine.
Quando non disegna, Tony Adams chiude gli occhi e cerca di fuggire lontano. Via da quella prigione dove il tempo gli scivola lentamente di mano. Via da quel buio perenne che sbriciola il suo autocontrollo. Via da quei pensieri con la punta aguzza come frecce che bersagliano il suo cervello.
Tony farebbe di tutto pur di non rimanere solo con se stesso, pur di non essere costretto a regolare i conti con i suoi dèmoni. Un’impresa disperata quando hai una colpa da espiare. I pensieri bussano alla sua porta senza preavviso. E Tony è costretto a farli accomodare. Nel cuore della notte o lì nel cortile, sotto la pioggerellina fina d’Inghilterra. Affanni che lo abbracciano all’improvviso, quando è sdraiato da solo sul letto avvolto da coperte ruvide o quando gioca a carte con gli altri detenuti. Paure che riescono a farlo sentire sempre più solo e vulnerabile. Tormenti che scavano un fossato fra lui e le persone che ama. Chiuso in quella scatola di angoscia, Tony Adams pensa al suo matrimonio, alla sua
carriera, al suo futuro. E tutto gli sembra impalpabile e lontano, indefinito e sconnesso. L’unica cosa che non riesce a togliersi dalla testa è quel pomeriggio. Un anonimo pomeriggio dell’estate del 1990. Il pomeriggio in cui la sua vita ha cominciato a correre veloce. Nel verso sbagliato.
Tony si ricorda del suo piede destro che pigia forte sul pedale del gas mentre il motore comincia a scalpitare sotto la lamiera. Ricorda di aver visto la lancetta che s’impennava sul tachimetro e di non aver battuto ciglio.
Su fino a ottanta chilometri orari. E le auto intorno a lui diventano delle piccole chiazze di colore. Su fino a cento. E l’asfalto di un quartiere residenziale di Londra si traveste da superstrada. Su fino a centoventi. E tutto diventa sfumato e lontano come un acquerello.
Tony non si accorge di niente. Neanche del volante che si imbizzarrisce e che gli scivola via di mano. Non ha nessuna idea di dove stia andando. Ma sa che ci sta andando velocemente. Un proiettile su quattro ruote motrici che schizza lungo le vie della City.
L’unica cosa che gli rimbalza nel cervello, durante quella corsa sull’orlo dell’autodistruzione, è la certezza di non voler guidare fino all’aeroporto per salire su quell’aereo. Un aereo che è pronto per portare lui e l’Arsenal a Singapore per un’odiosa tournée estiva.
Il viaggio di Adams dura molto di meno. Appena 500 metri o giù di lì. Solo sessanta yard prima che la sua Ford Sierra si ciancichi contro un palo del telefono e venga sputata contro il muretto di mattoni rossi di una villetta. Un boato che fa ghiacciare il sangue nelle vene seguito da un silenzio che strozza il respiro. Tony non sa dire per quanto è rimasto fermo immobile a bordo dell’auto che gli era stata affidata dallo sponsor. Sa solo che in quegli istanti ha smesso di essere il capitano dei Gunners. Lui, un corpo ancorato al sedile dalla cintura di sicurezza con la testa che viene risucchiata in un vortice di paura.
Osserva l’acciaio della vettura trasformarsi in un cumulo cubista dalle forme sgraziate, guarda la ruota che continua a girare come in una di quelle gag che si vedono al cinema, intravede il parabrezza che esplode inondandolo di vetri aguzzi.
Tony ci mette un poco per trovare la forza di aprire lo sportello e scendere dall’auto. Un piede dietro l’altro per battere la gravità. Un passo alla volta per vincere quella sensazione di essere sul punto di cadere. Un respiro profondo per smettere di tremare.
Qualche secondo più tardi una coppia di anziani si precipita nel giardino di casa. Lo stesso giardino nel quale una Ford Sierra 4x4 si era appena schiantata.
«Oddio, stai bene? Vuoi un drink per i tuoi nervi?» domanda la coppia pensando a una tazza di tè.
«Grazie, ma credo di averne presi a sufficienza» risponde Adams pensando che gli volessero offrire un bicchiere di brandy.
Tony si siede e aspetta. Aspetta che la sua testa smetta di fluttuare. Aspetta che le gambe acquistino di nuovo un minimo di sensibilità. Aspetta di spiegare quello che è successo alla polizia. E sa perfettamente che non sarà così facile.
Gli agenti ci mettono pochi minuti per arrivare. La prima cosa che fanno, una volta capita la situazione, è chiedere al difensore dell’Arsenal di soffiare in un tubo di plastica. Tony obbedisce e svuota i polmoni nel cilindro. Dopo qualche secondo sul display appare un numero. Un numero che indica il tasso di alcol che fermenta nel suo sangue. Il numero 134. Gli agenti sgranano gli occhi e lo invitano a salire in macchina. Nella loro macchina. Già, perché la legge non gradisce che su quel display compaia un numero superiore al 35.
Per Adams comincia un viaggio con una destinazione tutta nuova. Una destinazione che è il commissariato di polizia più vicino. Una destinazione dove tutto ricomincia daccapo.
Tony è ancora sotto shock ma cerca di farsi capire ugualmente. Prova a spiegare che quando era al volante aveva visto una macchina muoversi e venirgli addosso. Per questo aveva sterzato ed era finito in testa coda. E poco importa se, in verità, quella macchina non si era mai mossa, il suo era stato il gesto istintivo di chi guarda il mondo con gli occhi dell’alcol. Gli agenti annuiscono e gli chiedono di rimanere seduto ancora per qualche minuto. Devono ripetere il test, i primi risultati potrebbero essere imprecisi. Tony sbuffa, pensa a quell’aereo pronto al decollo, soffia di nuovo nel cilindro. 
E poi pazienta. Secondi interminabili. Secondi in cui non teme tanto quello che potrà succedere all’interno del commissariato, quanto l’ira di George Graham, il suo allenatore. Secondi in cui la lampadina che si accende nel centro del suo cranio gli suggerisce che niente sarà più come prima.
Dopo qualche istante i poliziotti tornano stringendo in mano i nuovi risultati del test. Avevano ragione, i primi erano sbagliati. Stavolta sul display lampeggia il numero 137. Gli agenti gli sfilano la patente e gli consegnano le imputazioni per guida pericolosa e in stato di ebbrezza. Tony annuisce e si alza, stringe mani e si fa accompagnare da un amico all’aeroporto.


Quando arriva a destinazione i suoi compagni sono già tutti sull’aereo. Qualcuno prova a chiedergli come si sente. Domande distratte, lontane, fumose. Parole pronunciate da chi non sa bene cosa dire. Adams si siede al suo posto e allaccia stretta la cintura. Solo allora si accorge di avere ancora dei pezzetti di parabrezza fra i capelli. Prova a farli cadere passando una mano sulla testa, poi chiude gli occhi e si concede qualche ora di riposo. Un riposo minato dal rimorso, dai sensi di colpa e dalla vergogna.
Appena sbarcati a Singapore i giornalisti cominciano a braccarlo. «Ehi, Tony Adams, è vero che hai distrutto una macchina?» gli urlano da lontano. È solo l’inizio del suo incubo. Un incubo che si trasforma in realtà il 19 dicembre del 1990, un mercoledì. È in quel giorno che la Southend Crown Court è chiamata a pronunciarsi sulle accuse di guida pericolosa e in stato di ebbrezza. Prima di entrare in aula, Tony prova a infondersi una briciola di coraggio. «Non sono un criminale. Sono una brava persona che ha fatto qualcosa di sbagliato» ripete fra sé. Un pensiero che il giudice Frank Lockhart non deve aver condiviso fino in fondo. No, il giudice Frank Lockhart si limita a scandire le parole “Nove mesi”, prima di battere forte sulla scrivania con il suo martello di legno.
Adams rimane impalato per qualche secondo. Lo sguardo nel vuoto, la testa che si fa leggera, il sangue che sfreccia nelle vene. La sua lingua non riesce ad articolare nessun fonema. Nemmeno un misero monosillabo mentre le parole “nove mesi” ronzano e sbattono contro la sua calotta cranica. Tony sente il braccio della guardia che lo afferra e lo trascina giù verso le celle del tribunale. Il suo era il primo caso della giornata. Deve aspettare che altre persone vengano processate. Deve aspettare che altre persone vengano condannate e si mettano a sedere vicino a lui. Mentre mangia il sandwich che il secondino gli ha gentilmente offerto, Tony ascolta in silenzio il destino degli altri ragazzi. Un destino simile al suo. Un destino d’isolamento e inquietudine. In poche ore lo raggiungono in tre. Un totale di quattro criminali che vengono fatti salire sul mini-van bianco diretto verso la prigione. Prima di lasciare il tribunale, il capitano dell’Arsenal viene ammanettato insieme a un ragazzo che si era appena beccato 18 mesi per aver provocato una rissa e aver pestato un poliziotto. «Ecco, questo ha veramente rovinato la mia giornata - esordisce il suo nuovo compagno - io sono un tifoso del Tottenham e sono stato ammanettato con te. È un vero incubo».
Appena arrivati al penitenziario di Chelmsford, Tony viene accompagnato all’area di “accoglienza”. Chiude i suoi oggetti in una scatola e scarta la sua divisa: jeans blu scuri, t-shirt celeste, un maglione di lana troppo stretto, calzini blu e scarpe da ginnastica. E nel momento esatto in cui s’infila quei vestiti che erano stati indossati da chissà chi, capisce che tutto sta cambiando. Capisce di non essere più Tony Adams. Capisce di essere solo il prigioniero LE1561. Un numero che viene marchiato sopra la sua vita. Un numero che fagocita il suo passato e che rende nebuloso il suo futuro.
Tony cammina lentamente verso la sua nuova cella. Una cella ripugnante con due letti a castello. «Io prendo quello di sotto, okay amico?» urla al suo nuovo compagno, un uomo di passaggio. Uno che doveva passare in carcere solo due notti per aver guidato senza assicurazione. Uno che appena uscito penserà bene di mettersi in tasca qualche bigliettone extra raccontando ai tabloid di Sua Maestà le sue notti in carcere con Tony Adams. Notti passate a ridere e a giocare a carte. Notti senza lacrime che porteranno i giornali a titolare: “La prigione è uno scherzo per Adams”. Uno scherzo che dura poco.
Il giorno di Natale Tony lo passa ad ascoltare la radio e a scrivere lettere. Chiuso dietro le sbarre per 23 ore. Non ci sono abbastanza secondini per passare più tempo in cortile, sono tutti in permesso per sentire il calore delle loro famiglie. Non c’è neanche un rancio speciale per la festa. Solo la solita, oscena, sbobba. Qualche tempo dopo Adams conosce il suo primo, vero, compagno di cella. Tale Rob da Colchester. Uno che da ragazzino era stato un discreto pugile, ma che in seguito aveva cominciato un pellegrinaggio fra diverse prigioni del Regno. Uno che aveva il vizio di rubare. E di farsi beccare troppo spesso. Rob gli insegna a dipingere con il dentifricio sui muri e a ricaricare le pile della radio sbattendole contro il termosifone. Un bagaglio di conoscenze che in quelle situazioni vale più di una laurea. Quasi tutte le notti un topolino entra nella loro cella. Un topolino che ribattezzano Mickey. Un topolino che diventa parte di un trio. Qualche volta Rob e Tony mettono Mickey in una scatola e lo liberano sotto le docce. Un modo creativo per riuscire a strappare una risata.
Per il resto Adams parla solo quando viene interrogato e cerca di non incrociare lo sguardo di nessuno. Ogni giorno. Tutto quello che gli interessa è tenersi il più lontano possibile dai guai. Niente di più e niente di meno. Come se la sua esistenza fosse stata messa in pausa. Un cammino forzato verso l’atarassia dove la sua unica speranza è di non incontrare qualche tifoso del Tottenham. Qualcuno mette in giro la voce che il barbiere sia un tifoso degli Spurs. Nel dubbio, Tony preferisce scontare la sua pena con i capelli che si allungano poco a poco. Nel tempo libero Adams prova a leggere le decine di lettere che gli vengono recapitate. E a qualcuna decide anche di rispondere. Lettere firmate dagli amici, da tutti gli uomini più famosi della Premier League, dai suoi compagni dell’Arsenal. Ma anche lettere firmate da tifosi delle squadre rivali. Lettere piene d’odio, d’insulti e minacce. Una di queste Tony non se la dimenticherà mai. Sulla copertina c’è la foto di un asino mentre sul retro una mano incerta ha tratteggiato: «Sto trascorrendo una splendida vacanza in Spagna, spero che tu stia passando giornate difficili in carcere».
A gennaio Adams comincia a lavorare nella palestra della prigione. Deve premurarsi personalmente che tutti gli attrezzi siano in ordine e al loro posto. Non esattamente il lavoro dei suoi sogni. Un lavoro che gli frutta poco più di tre sterline. Una miseria che a Tony basta per comprare barrette Mars e batterie per la sua radio.
A inizio febbraio, il difensore riceve un’altra lettera. Una lettera diversa da tutte le altre. Tony la apre e per la prima volta, dopo tanto tempo, torna a sorridere. La sua buona condotta era stata premiata. Il suo voler stare lontano dai guai aveva trasformato quei nove mesi in cinquantotto giorni di prigione. Adams esce dal carcere il 15 febbraio 1991. Alle 7,30 del mattino. Finalmente torna a essere libero. Finalmente torna a non essere solo il prigioniero LE1561.


Pochi giorni dopo le riserve dell’Arsenal affrontano quelle del Reading. In settemila riempiono Highbury per assistere al ritorno di Adams fra la sua gente. La partita finisce 2-2, ma al fischio finale Tony stringe forte i pugni e urla verso il cielo. Un colpo di teatro per sputare fuori quel pastone di emozione e rabbia che aveva ingoiato nelle ultime settimane. Un colpo di teatro che rappresenta la sua rinascita. Tre mesi più tardi Tony alzerà al cielo il secondo scudetto della sua carriera. Per vincere la sfida con l’alcol, invece, servirà ancora tempo.
Adams non si ricorda quando è diventato un alcolizzato cronico, ma si ricorda perché lo è diventato. «Questo è stato il percorso della mia vita e della mia carriera: ubriacarsi per riuscire ad affrontare le grandi delusioni, ubriacarsi per riuscire ad affrontare i momenti felici - dirà nella sua autobiografia - l’alcol agiva per me come un anestetico per sfuggire dai sentimenti intensi».
Tony aveva imboccato il percorso dell’autodemolizione già da bambino. Allora birre e liquori non c’entravano niente. Allora era solo un ragazzino che si sentiva diverso dagli altri e inadeguato, uno che poteva sentirsi solo anche in mezzo a una marea di persone. Un semplice pre-adolescente che alle quattro del pomeriggio guardava il sole tramontare e si sentiva misteriosamente perso. A scuola non brillava particolarmente e bastava che un insegnante gli chiedesse di leggere a voce alta per farlo arrossire. Le ragazze per lui erano delle creature che mettevano i brividi, perché non sapevi mai dove
potevi arrivare. Per questo si teneva a debita distanza. Poi era arrivato il calcio, e tutto aveva cominciato a cambiare. Suo padre Alex, un ex giocatore che aveva dovuto smettere per un problema ai reni, aveva fondato una squadra per ragazzi, il “Dagenham United”. Una squadra capace di vincere l’Essex Cup per cinque anni di seguito. Una squadra capace di tritare gli avversari e segnare ben 151 gol in una stagione senza subirne neanche uno. Tony, ovviamente, è il difensore centrale e il capitano di quella squadra. Ben presto tutti i più grandi club d’Inghilterra sono sulle sue tracce. Il giorno del suo quattordicesimo compleanno, Adams dice di sì all’Arsenal. L’allora capo scout Steve Burtenshaw fa fare un giro a Tony e al padre per il centro sportivo. Cerca un luogo tranquillo dove firmare il contratto. Poi, visto che lo spogliatoio è pieno, Tony appone la sigla più importante della sua carriera nel bagno.
L’apprendistato nelle giovanili dura poco. Il 5 novembre del 1983 l’Arsenal riceve in casa il Sunderland. E lo fa senza David O’Leary, vittima di un infortunio al ginocchio. Quando Tony non legge il suo nome sulla lista dei convocati per le giovanili per poco non si sente male. Pensa di essere stato escluso, di essere stato messo da parte e degradato. Poi realizza e per poco non si sente male. Di nuovo. Terry Neill, all’epoca allenatore dell’Arsenal, annuncia alla stampa che sarà il giovane Adams a sostituire l’infortunato O’Leary. Poi aggiunge che, quella mattina, lo stesso giovane Adams era stato incaricato di pulire i bagni della società. Una manna dal cielo per i tabloid che per tutto il giorno non fanno altro che chiedere ai Gunners una foto di Tony con in mano lo spazzolone.
In campo l’avvio non è dei migliori. Al secondo minuto Tony si fa rubare palla da Colin West e regala al Sunderland la rete del vantaggio. Un inizio disastroso. Un inizio che avrebbe stroncato chiunque. Un inizio da incubo che, alla fine del primo tempo, Kenny Sanson cercherà di rendere meno pesante. «Forza, hai i calzoncini al contrario, con il numero dietro. Se riesci a sistemarli, vedrai che migliorerai». Un incidente di percorso che sarà solo l’inizio di una carriera sfavillante. Una carriera che lo vedrà indossare la fascia di capitano dell’Arsenal e dell’Inghilterra. Una carriera costellata da tanti successi e qualche figuraccia. Come quella del 2 aprile 1989, quando in un pesce d’aprile differito Tony segnò entrambe le reti nell’1-1 contro il Manchester United. Il giorno seguente il Daily Mirror pubblicò una sua foto con le orecchie d’asino. Uno scatto che lo marchierà a fuoco per tutto il resto della sua carriera.
 

Ma oltre ai trofei, Tony comincia a collezionare pinte di birra. Sempre più spesso si trova a svegliarsi la mattina nel suo letto con vestiti e maglie sparse da ogni parte. Le prime domande che gli passano per la testa sono “Che ho fatto? Cosa ho detto? Mi sono reso ridicolo? Come sono tornato a casa?”. Poi i suoi pensieri tornano inevitabilmente all’alcol. Nei giorni più caldi la sua giornata inizia con un paio di pinte ghiacciate di Guinness. Abitudini che cominciano a sfuggire al suo controllo e che lo portano a un passo dall’umiliazione. Come quel lunedì mattina, quando aveva bussato alla porta di un bar cinque minuti prima dell’apertura solo per buttare qualche drink nello stomaco. Bill, il proprietario di uno dei sui locali preferiti, gli aveva detto che era il “miglior” bevitore di Guinness del suo locale. Una medaglia che Tony si era appuntato al petto con un certo orgoglio. Anche perché per arrivare a quel livello aveva dovuto lavorare sodo. Tony riusciva a tracannare quattro pinte in un’ora. Una media di venti pinte per ogni sessione di bevute. Un record al quale il suo corpo inizia a ribellarsi. Tony comincia a svegliarsi sempre più spesso con il letto bagnato. Una mattina, durante gli Europei in Germania del 1988, il difensore apre gli occhi su un materasso completamente fradicio mentre una cameriera alle sue spalle gli ripeteva «Pìpì, pipì» turandosi il naso. La voce ci mette poco a diffondersi e quando scende al piano di sotto per la colazione, Adams trova alcuni ragazzi che lo additano urlando «Pipì, pipì». Tony sorride e passa oltre, sorride e maschera la voglia di piangere, di condividere con qualcuno quel fardello che gli pesa sulle spalle e che rischia di schiacciarlo da un momento all’altro.
Nella settimana delle nozze, nel luglio del 1992, Tony beve senza sosta per cinque giorni di seguito. Al momento di infilare la fede al dito della sua Jane in pochi riescono a capire le sue parole. A ottobre, prima di un match di qualificazione contro la Norvegia a Wembley, il difensore decide di fare
uno scherzo a David Seaman insieme al suo compagno Paul Merson. I due provano a ostruire lo scarico del suo bagno con la carta igienica. L’estremo difensore della nazionale li guarda appoggiato allo stipite della porta e non riesce a trattenere le risate. Poi la memoria di Tony si annerisce. Tutto quello che si ricorda è di essersi svegliato la mattina successiva con il letto bagnato e con la porta della camera divelta. E presume di essere stato lui a combinare quel disastro. Niente in confronto alla performance durante la vacanza a Rodi del 1990. Allora Tony si era abbassato i pantaloni e le mutande fino alle caviglie ed era pronto a orinare nel foyer di un albergo a cinque stelle. Un’eventualità che solo l’intervento tempestivo di un suo amico era riuscito a scongiurare. Umiliazioni pubbliche che lo feriscono nel profondo ma che non riescono a fargli perdere il vizio. Tre anni più tardi, in Jamaica, Adams era così ubriaco che il barista se l’era dovuto caricare in spalla per portarlo in camera e metterlo a letto.
È nel 1996, però, che Tony Adams tocca il fondo. Si ricorda anche il giorno preciso. È il 26 giugno e, a Londra, Germania e Inghilterra si giocano l’accesso alla finale di un Europeo importantissimo, un europeo al quale i britannici tengono in modo particolare. Questioni di storia. Ma soprattutto di piaggeria. “Il calcio è tornato a casa” recita lo slogan di presentazione della competizione. Uno slogan dal quale uscirà anche un motivetto neanche troppo accattivante.
 

Quel giorno i gol di Shearer e Kuntz inchiodano prima i tempi regolamentari e poi supplementari sull’1-1. Una parità che deve essere interrotta dai rigori. Dal dischetto segnano tutti. Così, tocca a Gareth Southgate tirare il penalty decisivo. Mentre aspetta il fischio dell’arbitro, Tony Adams sa già tutto. Sa già che si sarebbe ubriacato come non aveva mai fatto prima. Sia che quella maledetta palla fosse entrata in rete, sia che avesse centrato un tifoso sugli spalti. Adams, il capitano, se ne sta sul cerchio del centrocampo congratulandosi con i compagni che avevano realizzato il loro rigore: Shearer, Platt, Pearce, Gascoigne e Sheringham. Tutti. Avevano segnato tutti. Tutti tranne Gareth Southgate. Così quando il difensore dell’Aston Villa spara il suo rigore addosso a Andreas Köpke, Tony sa perfettamente che nelle successive sette settimane non avrebbe fatto altro che bere. Non avrebbe fatto altro che bere fino a quando il dolore non fosse affogato e non fosse defluito via dal suo corpo. Ma allo stesso tempo sente che c’è qualcosa che non va. D’un tratto si rende conto di essere stanco di sentirsi inadeguato, di sentirsi solo, di essere costretto a sostenere lo sguardo critico dei suoi amici e dei suoi tifosi. È stufo dell’alcol. Per la prima volta nella sua vita, Tony capisce di avere la forza per spezzare questo incantesimo, per riprendere in mano la sua esistenza. E non ha intenzione di lasciarsi sfuggire questa opportunità.
Venerdì 16 agosto 1996 Adams beve il suo ultimo goccio d’alcol. Per due giorni se ne sta rannicchiato a letto in posizione fetale ad aspettare che il suo corpo espella le ultime gocce etiliche. In quelle quarantotto ore capisce che non ce la può fare da solo, che si trova ad affrontare l’avversario più difficile della sua vita. Un avversario che può essere battuto solo con il gioco di squadra. Il lunedì incontra per caso Steve Jacobs, un amico di Paul Merson che l’aveva aiutato a uscire dai suoi problemi di dipendenza. Non servono molte parole, Tony decide di entrare a far parte degli alcolisti anonimi.
Dopo quattro settimane passate da sobrio il capitano dell’Arsenal annuncia la sua decisione ai compagni. Li riunisce tutti nello spogliatoio e gli spiega la situazione. Gli racconta del suo disagio, di tutti quei giorni in cui si era sentito inutile e piccolo, di quelle volte in cui era arrivato a un passo dal baratro. In un mondo imbevuto di cinismo, Tony decide di non bluffare e di mettersi a nudo. E i suoi compagni sembrano apprezzare. «Io ho sempre pensato che avessi una bottiglia da qualche parte - gli dice Ian Wright nel tentativo di rompere quella cappa di tensione - ora, finalmente, lo so per certo». I ragazzi dell’Arsenal si stringono intorno a lui, ma il giorno dopo la notizia è su tutti i giornali. “Il capitano dell’Inghilterra è un alcolizzato”, titola il Daily Express. Adams fa spallucce e, grazie anche all’infortunio al ginocchio, nei primi novanta giorni da sobrio si presenta a cento incontri degli alcolisti anonimi. Ogni ora che passa sente il suo corpo che si asciuga e che si rimette in forma. E il suo ritorno al calcio giocato avviene prima del previsto. Tony viene convocato per una partita delle riserve dell’Arsenal contro i corrispettivi del Chelsea. Sugli spalti ci sono circa duecento persone. Duecento persone che urlano e sbraitano macinando decibel. In novanta minuti gli rovesciano addosso di tutto. Insulti, sfottò, minacce e cattiverie assortite. “Vuoi un drink Tony?” grida qualcuno. “Ma che per caso hai perso la tua bottiglia oggi?” aggiunge qualcun altro. Fino a quando Tony non vede un bambino camminare vicino alla linea di fondo. In mano ha una bottiglia di birra e sulla faccia un sorriso tagliente. «Gradisci una Bud?» gli domanda allungando la sua manina.
Adams resta impassibile anche se dentro si sente morire. Come in una partita contro il Coventry giocata qualche mese dopo. Allora Gordon Strachan, allenatore-giocatore degli avversari, aveva provato a fargli perdere la bussola mimando il gesto di bere una pinta di birra. Un colpo basso al quale Tony non aveva replicato nemmeno. Per lui ci sono nuovi traguardi da raggiungere. E una battaglia personale da portare a termine.
Adams alzerà al cielo ancora sei trofei prima di ritirarsi da capitano dell’Arsenal, un ruolo che ha ricoperto per quattordici stagioni. Ma, soprattutto, non si accontenterà di vincere la sua sfida con l’alcol. Sì perché dopo aver sconfitto il suo mostro, Tony decide di aiutare gli altri a uscire dal proprio tunnel fondando una clinica per la riabilitazione, la Sporting Chance. La stessa clinica dove Adrian Mutu andrà a risolvere i suoi problemi di dipendenza da cocaina.
Tony, però, ancora non è pronto a passare la sua vita con addosso il camice bianco o seduto dietro una scrivania. Sente di avere ancora qualcosa da poter dare al calcio. Così nel 2004 accetta di sedersi sulla scottante panchina del Wycombe, ultimo in Second Division a un paio di galassie di distanza dalla lotta per non retrocedere. Adams si era presentato dicendo che gli era stata affidata una squadra scarsa, che Arsene Wenger non gli aveva insegnato nulla che potesse essere utilizzato in Second Division e che, al di là di come sarebbe finita, non avrebbe mai perso la certezza di essere un buon tecnico. Nonostante il suo arrivo, però, la situazione non era cambiata granché. Ad aprile, dopo aver perso per 1-2 contro il Tranmere Rovers, il Wycombe era già aritmeticamente retrocesso. Non per Tony che, nel dopopartita, aveva deciso di mostrare il suo solito carattere: «Finché i numeri non ci condanneranno, noi continueremo a lottare e a credere nella salvezza». Una delle poche entrate a vuoto della sua vita.


mercoledì 6 febbraio 2013

Un gol almeno a partita


Adriano Leite Ribeiro
La Serie A stagione 2004/2005 ha visto la Juventus di Fabio Capello Campione d'Italia e, dopo una lotta protrattasi per varie giornate, registrato la retrocessione del Bologna, del Brescia e dell'Atalanta.
Capocannoniere del torneo Cristiano Lucarelli. Il Lecce della coppia delle meraviglie Vucinic-Bojinov ha inspiegabilmente chiuso all'undicesimo posto nonostante i 73 gol subiti, appena dietro la Roma e le sorprendenti neopromosse Livorno e Messina.
Lo Scudetto della stagione 2004/2005 è lo Scudetto che a seguito della vicenda Calciopoli è stato revocato e mai assegnato.
Nonostante l'Inter di Roberto Mancini avesse a lungo stentato in avvio di stagione (una serie interminabile di pareggi), ricordo di aver avuto ad un certo momento precisa sensazione: era impossibile che Adriano Leite Ribeiro non segnasse almeno un gol a partita. Nella mia mente "un gol almeno a partita" era una formula matematica, un algoritmo preciso.
Un fisico impressionante, una corsa inarrestabile, piedi gentili e potenti. Colpo di testa e calci piazzati.
Il centravanti perfetto. Le chiacchiere stavano a zero. 

Vila Cruzeiro, Rio de Janeiro
Arrivato la stagione precedente nella sessione invernale del mercato dal Parma, dove aveva fatto coppia fissa - e che coppia - con Adrian Mutu, per formare, assieme a Vieri, Recoba - il miglior mancino di quella generazione - e Oba Oba Martins, l'attacco dell'Inter che voleva riconquistare lo Scudetto, Adriano era partito fortissimo, segnando a raffica contro chiunque si trovasse di fronte in Campionato e Champions League.
La stagione 2004/2005 rimane forse il picco più alto di una carriera che prometteva tantissimo e che ha, invece, lasciato poche briciole.

Nato a Vila Cruzeiro, Rio de Janeiro, e cresciuto nelle file del Flamengo Adriano viene acquistato dall'Inter nel 2001 da quasi sconosciuto e fatto debuttare nel pre-stagione al Trofeo Santiago Bernabeu (dove, peraltro, segna un gol magico su punizione allo scadere dei tempi regolamentari). Poi tanta panchina, complice la presenza in attacco di Vieri e Ronaldo. Quindi il prestito alla Fiorentina, a dicembre. A Firenze segna tanto e, al termine della stagione, viene ceduto in comproprietà al Parma, che dopo un anno ne rivenderà la metà appena acquistata ai nerazzurri a peso d'oro.

Anche nella stagione 2005/2006 Adriano fa bene, bloccandosi però nel girone di ritorno e portando l'Inter a proporgli un trasferimento in Brasile nella stagione successiva. Adriano rifiuterà e rimanendo all'Inter segnerà solamente 5 reti nel corso dell'intero campionato. A metà della stagione successiva (2006/2007), Roberto Mancini lo spingerà nuovamente verso il San Paolo, per ritrovare continuità e feeling con la porta. Lui parte e fa il suo dovere, marcando diversi gol e guadagnadosi la possibilità di ritornare a Milano.

Con la maglia dell'Inter
L'ultima stagione in nerazzurro si rivela però disastrosa.
Adriano è sregolato, fragile e perennemente fuori condizione. Il rapporto con Jose Mourinho per forza di cose non è dei migliori e le presenze da titolare diventano sempre più intermittenti.
La nostalgia del Brasile, la mancanza del papà, morto nel 2004, le feste (con tanto di foto mentre balla con ragazze quantomai allegre e dorme accanto ad un pacco di sale grosso) e soprattutto l'alcool logorano la punta di Rio. E l'esperienza italiana volge al termine, nonostante il tecnico di Setubal non abbia mai accarezzato con piacere l'idea di vederselo sfuggire.
Ad aprile la definitiva rottura con l'Internazionale: "Per ora smetto, ho perso la felicità di giocare. Non so ancora se starò per uno, due o tre mesi senza giocare. Ho intenzione di ripensare alla mia carriera".

Qualche mese dopo Adriano - nel frattempo diventato un giocatore del Flamengo - racconterà a r7 i retroscena della sua esperienza all'Inter:
All'Inter ero solo, triste e depresso. Ero felice solo quando bevevo: vino, whisky, vodka e birra, tanta birra. Mi svegliavo e non sapevo dove mi trovavo. O non dormivo, per paura di arrivare tardi ad Appiano Gentile. Ma non potevo allenarmi, così mi facevano andare a dormire in infermeria: ai giornalisti la dirigenza diceva che avevo dei problemi muscolari.
E ancora; 
Mi hanno messo a disposizione uno psicologo, mi seguivano 24 ore su 24. Facevo dei colloqui, parlavo dei miei problemi. Mi sono accorto che tanti degli amici che avevo attorno in realtà mi sfruttavano. Mourinho? Mi ha voluto fortemente, ma io ho ripreso a bere. Ero solo, senza il sostegno di cui avevo bisogno. La droga? Nella mia comunità ho tanti amici, alcuni sono spacciatori, altri sono poliziotti. Sono i miei amici, quelli con cui parlo, con cui gioco. Ma il mio problema era solo con l’alcol. Adesso riesco a bere una sola birra e il giorno dopo vado ad allenarmi tranquillamente. Corro ancora più forte.

Al Flamengo
Il 2009 è l'anno del riscatto. In Brasile Adriano è di nuovo sereno e riesce ad allontanarsi dai troppi eccessi.
Gioca da fenomeno (con 19 reti in 30 partite è capocannoniere del campionato) nelle file del Mengão che porta a casa uno storico Brasileirao a spese dell'Internacional di Alecsandro e del San Paolo di Washington.
La stagione successiva lo riporta in Italia. A giugno firma un triennale con la Roma.
Una scarsa condizione fisica e diversi acciacchi compromettono però tutto. In inverno arriva un infortunio alla spalla e qualche guaio in Brasile (rifiuta l'etilometro e gli viene ritirata la patente).
La Roma esce dal contratto nel mese di marzo. Bilancio in negativo: 8 presenze, 0 gol e la leggenda di una clausola anti-birra nel contratto.

Al Corinthians
Di nuovo Brasile. Questa volta al Corinthians dell'amico Ronaldo. Alla presentazione nessun tifoso ad accoglierlo e dopo appena un mese un infortunio al tendine di Achille che lo allontana dai campi per 5 mesi. Il riposo forzato però non fa per lui. Una sera si toglie il tutore impostogli dai medici e fa serata in discoteca. Beccato e paparazzato. Torna ai campi da gioco ma pesa uno sproposito: più di 100 chili. Le immagini degli allenamenti fanno il giro del mondo. Risate e malinconia.
Da ultimo, una nuova esperienza con il Flamengo e un nuovo addio al calcio.
Il ritorno a Milano e l'avvio di un programma di recupero psicofisico l'ultimo capitolo di una carriera stramba.

Nonostante eccessi e stravaganze, Adriano Leite Ribeiro ha vinto tantissimo. 4 Scudetti, 2 Coppe Italia, 2 Campionati brasiliani e, tra l'altro, una Coppa America (da grande protagonista).
Il campione fragile che per scelta o per necessità ha deciso di non essere campione. Mai bidone e sempre rammarico.
Un fisico che gli ha sempre permesso tutto e di più, in campo e fuori. Bolidi e tocchi sotto. Progressione e stacco. Rimango dell'idea che Adriano, durante l'intero corso della sua carriera, avrebbe potuto segnare un gol almeno a partita.