“Dottor Errasti?”.
Suor Isabel si avvicinò, un’espressione contrita sul volto.
“Sono appena arrivato, sorella. Non mi dia brutte notizie”. Abbozzò un sorriso, ma la suora non ricambiò.
“Stanotte, dottore”.
“Chi?”.
“Guillermo”.
Errasti sospirò. “Capisco”.
“Gli era già stata data quattro volte l’estrema unzione, dottore. Non c’era nulla che potessimo fare”.
“Già”. Per qualche secondo si accarezzò il mento, pensieroso. “Voglio vederlo”.
“È ancora giù, dottore. Lo passeranno a prendere in serata”.
“Mi accompagni, sorella”.
Suor Isabel annuì e si mise alla sua sinistra. Iniziarono a camminare in silenzio.
“Ah, dottore...”. La suora si frugò in tasca e ne trasse un portasigarette d’argento. “Gli abbiamo trovato solo questo. Possibile che non possedesse altro?”
Errasti prese il portasigarette, lo aprì, lo girò. Un sorriso amaro gli increspò le labbra. “Credo di sì, sorella. Aveva molti debiti”.
“È strano vedere un uomo tanto povero con una cosa così… preziosa. Chissà perché era finito qui, il nostro Guille”.
Il dottore si fermò di botto. La guardò stupito, come se non avesse capito bene.
“Davvero non sa chi era Guillermo, sorella?”
“Un pover’uomo solo e malato, dottore.”
“Non le hanno mai raccontato nulla di lui?”
Scosse la testa. “Non sono qui da molto, e faccio soprattutto i turni di notte. Parlo poco con i pazienti”.
Errasti ripresa a camminare, giocherellando a ogni passo con il portasigarette. “Vedendolo qui nessuno lo avrebbe detto, ma Guillermo trent’anni fa era famoso. Famosissimo. Probabilmente è stato uno dei calciatori più forti mai esistiti”.
“Un calciatore?” Suor Isabel sembrava sconvolta. “Un calciatore famoso? Qui?”.
Il dottore si fermò ancora. Guardò l’orologio: era ancora presto, e c’era tutto il tempo per iniziare il solito giro tra i vecchi tubercolotici senza speranza del Sanatorio. “Andiamo a prendere un caffè, sorella. Voglio raccontarle una storia”.
“Forse mi ha visto parlare con Guillermo, qualche volta. Lo facevamo spesso. Quasi non credetti ai miei occhi quando lessi il suo nome sulla cartella, la prima volta. Sa, mio padre mi ha trasmesso la sua immensa passione per l’Athletic, e Guillermo è stato uno dei miei idoli di gioventù. Lo chiamavano Bala Roja (il proiettile rosso). Era l’essere umano più veloce che si fosse mai visto su un campo di calcio, mi creda. Con la palla tra i piedi era due volte più rapido dei difensori che dovevano marcarlo. Poveretti, li faceva impazzire. Gli mostrava il pallone, tenendolo proprio lì, davanti a loro, ma quando facevano un passo... puf, il pallone era sparito e lui stava volando verso la porta. Gli avversari pensavano che ce ne fossero almeno un paio, di Guillermo. Uno che ti puntava a sinistra e un altro che ti passava da destra, e viceversa. Spesso non aveva neppure bisogno di fintare: si buttava in avanti caricando come un toro ed era così veloce da superare il difensore quasi senza toccare la palla. Ora dicono che Gento sia l’ala sinistra più forte e veloce di sempre, ma solo perché non si ricordano di Gorostiza. Guillermo Gorostiza. Bala Roja era così veloce da lasciare indietro anche i suoi compagni di squadra che correvano senza il pallone, allora decideva di buttarsi in mezzo e segnare lui, da solo. Gli ho visto fare così tanti gol da aver perso il conto, sorella. Giocava a sinistra, ma era destro: cosicché poteva rientrare al centro e calciare con la porta dal lato giusto. Vederlo in campo era uno spettacolo. Era fatto per il calcio, pensava solo al calcio e il calcio era l’unica cosa che gli riusciva bene. Una volta mi disse che avremmo potuto essere colleghi: il padre era medico, fu anche presidente del Colegio de Médicos de Vizcaya, e voleva che Guillermo seguisse le sue orme. Ma a lui non interessava curare la gente. Lui voleva divertirla allo stadio, con i suoi dribbling e i suoi gol... d’altra parte, meglio un bravo calciatore di un cattivo dottore. Il padre le provò tutte, ma lui tornò sempre al pallone. Smise si studiare e andò a lavorare in un cantiere navale a Sestao, un mestiere che gli permetteva di guadagnare qualcosa e di avere del tempo per giocare. Lo presero all’Arenas di Getxo, che allora era un gran club, ma poi il padre lo spedì da uno zio a Buenos Aires, per provare a raddrizzarlo. Non ci riuscì. Guillermo mi disse che frequentava i campi di calcio di giorno e le sale da ballo di notte, finché lo zio, disperato, decise di rispedirlo in Spagna. Si pagò il viaggio pulendo il ponte della nave, ma a lui non importò: voleva solo tornare per diventare un giocatore di calcio. E ci riuscì. Durante il servizio militare fu arruolato in marina e venne inviato di stanza a Ferrol, ma il mare lo vide poco. Quando si accorsero di cosa sapeva fare con la palla tra i piedi, lo fecero tesserare dal Racing. Alla prima partita, un’amichevole contro l’Espanyol di Zamora, scese come una furia sulla sinistra, si buttò al centro, tirò e segnò al portiere più grande del mondo, al Divino. Tutti parlarono di questo ragazzo di Santurtzi che aveva segnato un gol a Zamora, e anche a Bilbao arrivarono le voci. L’Athletic ci giocò contro in Coppa e decise subito di acquistarlo. Dovette pagare 20.000 pesetas all’Arenas, che ancora ne aveva i diritti. Sì, sorella, 20.000 pesetas… nel 1929. Adesso potremmo ristrutturare questo posto e aggiungerci anche un paio di ali nuove, con 20.000 pesetas di allora. Ed era quello che valeva Gorostiza. Con la zurigorri fu... tutto. Un genio. Un trascinatore. Un mito. I bambini che giocavano al parco volevano essere Gorostiza, le sue figurine erano le più popolari. Quattro campionati, sorella, quattro. E quattro Coppe. Questo ci ha fatto vincere Guillermo. A Bilbao, la linea della delantera era recitata come una preghiera: Lafuente, Iraragorri, Unamuno, Chirri e Gorostiza. Eravamo i più forti, allora. Un anno vincemmo 6-0 a Chamartín col Madrid e 12-1 in casa col Barça. Dodici, sorella! Dodici... che squadra! E Gorostiza era il migliore. I vecchi dicevano che, quando scendeva sulla fascia, l’erba del San Mamés non sapeva se fosse lui o il vento, tanto era leggero e impalpabile. Tutta la Spagna lo amava. Era il più forte anche in nazionale. Nel 1934 gli italiani dovettero azzopparlo per vincere il loro Mondiale. Le donne lo adoravano, e lui adorava loro... e la bottiglia. Fu quello a rovinarlo, anche se ci volle del tempo. Era tanto grande in campo quanto fragile fuori. Si faceva trascinare, lo sapevano tutti. Se incontrava qualcuno che gli diceva: Ehi Guille, andiamo a farci un bicchiere!, lui lo seguiva. Anche se doveva allenarsi. Era gentile e generoso, aveva tanti soldi e poca voglia di tenerseli. Ma finché era a Bilbao riusciva a non perdere del tutto il controllo. E poi... poi ci fu la guerra. Non ne ho mai parlato volentieri con lui, suor Isabel. Non perché lui non volesse, anzi. Ma il suo fu un tradimento. Prima decise di giocare con la squadra di Euskadi, quella che girò l’Europa raccogliendo fondi per la popolazione. Però, quando Bilbao cadde, lui scappò. Erano in Francia e Gorostiza disse agli altri che sarebbe andato a Parigi a trovare il padre... ma non era vero. Tornò in Spagna, chiese perdono e si arruolò volontario con i requetés carlisti, venendo usato per la propaganda dai franchisti. Luis Regueiro, che era il capitano di quella squadra, non lo perdonò mai. Quando la guerra finì, Gorostiza rientrò all’Athletic, ma le cose non furono più le stesse. L'anno dopo fu venduto al Valencia per 50.000 pesetas. Una cifra insensata per un 31enne, pensarono in molti. Guillermo dimostrò a tutti che non era finito. E anche se era più lento, più pesante e non volava più come una libellula, giocò 6 anni con loro e vinse due campionati e una Coppa. Ma a Valencia smarrì la strada, sorella. A volte spariva senza dire niente, altre ancora si presentava ubriaco agli allenamenti... talvolta anche alle partite. Eppure, nonostante tutto, era ancora il più forte, quando aveva voglia. Una volta, a Siviglia, scese in campo completamente ubriaco. L’arbitro fischiò un rigore al Valencia, lui lo tirò e mandò il pallone lontanissimo dalla porta, quasi contro la bandierina del calcio d’angolo. I tifosi del Sevilla cominciarono a irriderlo, a chiamarlo borracho, a fischiarlo quando toccava la palla. Allora lui si ricordò di essere Gorostiza, e iniziò a giocare. La partita finì 4-0 per la sua squadra e lui segnò 4 gol. Quando uscì, tutto il pubblico si alzò in piedi e lo applaudì. Questo era Guillermo Gorostiza, sorella”.
Suor Isabel rimase in silenzio. Sembrava riflettere. Forse confrontava l’immagine del Guillermo calciatore, che il dottore le aveva mostrato, con l’uomo invecchiato precocemente che ora stava sopra un tavolo dell’obitorio. “Non avevo mai sentito parlare di questo... Gorostiza” gli disse infine. “Mai, in tutta la mia vita. Eppure vengo da una famiglia dove vivono sei uomini, e tutti seguono il calcio”.
Errasti allargò le braccia. “A volte capita, sorella. Capita di essere un dio e di non riuscire a reggerne il peso. Guillermo dava la colpa a tante cose - all’irriconoscenza, a chi gli aveva voltato le spalle, a chi si era fatto nemico durante la Guerra. Ma la realtà era un'altra, e lui lo sapeva. Sa, sei mesi fa venne a trovarlo un uomo. Una cosa strana, nessuno passava mai per lui - e sì che aveva una moglie e due figli. Era un regista e stava girando un documentario su personaggi un tempo famosi e ora dimenticati. Anche lui aveva avuto Gorostiza come idolo, da ragazzo. Guillermo fu molto gentile e acconsentì a farsi riprendere per un giorno intero. Tirò anche un rigore, alla fine... il suo ultimo gol. Comunque, a un certo punto il regista, Manuel Summers, gli chiese cosa facesse tutto il giorno. El ridiculo, rispose lui. Mi sono bevuto e fumato tutto, e ora faccio el ridiculo. Era consapevole di essersi distrutto da solo. Per questo è venuto a morire qui, senza soldi, lontano da tutti. Sapeva di aver buttato via ogni cosa e non riusciva a perdonarsi. Ma, in fondo, credo che non avesse nulla per cui chiedere perdono”.
La suora lo guardò in tralice. “Bere, fumare, andare a donne, sperperare i propri soldi, allontanare la propria famiglia… sono peccati mortali, dottore”.
“Forse”. Errasti si alzò. “Ma la gioia che lui ha donato a migliaia di persone, sorella, quella non ha prezzo”.
Suor Isabel scosse la testa. “No, dottore, non basta”.
“Probabilmente è così. Ma provi a pensare a quale sofferenza ha dovuto provare un uomo che aveva tutto e che si era ridotto a vivere qui. Anni di fama e una fine lunga, lunghissima, a parlare della gloria passata in un posto che odora di alcool etilico, di malattia, di morte. Credo che lei dovrebbe avere compassione di lui, sorella”.
Suor Isabel arrossì. Il dottore si diresse alla porta, ma lei lo chiamò. “E questo?” gli chiese, mostrandogli il portasigarette che lui aveva lasciato sul tavolo.
“Lo riporti lei a Guillermo, sorella”. Si voltò e fece per uscire, poi ci ripensò. “Lo osservi bene prima di restituirglielo... forse capirà”.
La suora prese in mano il portasigarette e lo guardò per un attimo, poi se lo mise in tasca e tornò ai suoi compiti. Per qualche ora non ci pensò più, ma quando le cadde, dopo aver tirato fuori un mazzo di chiavi, si ricordò. Scese da basso, dove venivano tenuti i morti, e vide subito Guillermo, solo nella stanzetta vuota. Qualcuno gli aveva posato dei fiori vicino alla testa. Colui che era stato Gorostiza, la Bala Roja, era steso davanti a lei, troppe rughe a coprirgli il viso ormai rilassate dalla morte. Aveva 57 anni, ma vedendolo così chiunque gliene avrebbe dati almeno 70. Suor Isabel prese in mano il portasigarette e fece per appoggiarlo sul corpo del defunto, quando ripensò alle parole del dottor Errasti. Sul davanti era scritto “Gorostiza”, nient’altro. Lo aprì e ne osservò l’interno: c’erano un paio di sigarette, trucioli di tabacco, una trapuntina in seta bianca ingiallita dagli anni. Lo richiuse, quindi lo girò. Fu allora che scorse l’incisione sull’argento, annerita dal tempo ma ancora visibile. La lesse, poi posò il portasigarette sul petto di Guillermo. Per un attimo incontrò il suo volto, e fu allora che iniziò a piangere.
Guillermo Gorostiza Paredes (Santurtzi, 15 febbraio 1909 - Bilbao, 23 agosto 1966) è stato una delle più grandi ali sinistre della storia del calcio spagnolo. In carriera giocò 257 partite e segnò 185 gol nella massima divisione, vincendo 6 campionati (4 con l’Athletic e 2 con il Valencia) e 2 titoli di capocannoniere, ai quali vanno aggiunti 5 Coppe del Re (4 con l’Athletic, 1 col Valencia) e 7 campionati regionali baschi. Con la maglia della nazionale spagnola giocò 19 volte (2 gol) e partecipò ai Mondiali italiani del 1934. Fu tra i primi calciatori iberici ad acquisire lo status di stella mediatica e girò anche un film, ¡¡Campeones!!, nel 1943. La passione per gli alcolici, manifestata fin da giovane, negli ultimi anni di carriera degenerò in alcolismo vero e proprio. Dopo aver dissipato tutti i suoi guadagni morì povero, solo e dimenticato al "Sanatorio de Tuberculosos de Santa Marina" di Bilbao.
Il portasigarette d’argento gli fu regalato dal presidente del Valencia Luis Casanova dopo l’ultima partita con la maglia “ché”, ma Gorostiza lo impegnò dopo il ritiro dal calcio per pagare alcuni dei suoi numerosissimi debiti. Qualcuno lo trovò in un Monte di Pietà e avvertì il presidente dell’Athletic Enrique Guzmán, che lo riscattò e lo spedì a Casanova. Questi riuscì a rintracciare Gorostiza, già nell’ospizio di Santa Marina, e glielo inviò insieme a una somma di denaro, pregandolo di conservarlo. Cosa che lui fece fino alla morte. Sul retro del portasigarette erano incise queste parole: “Al mejor extremo izquierdo del mundo de todos los tiempos”.