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giovedì 4 giugno 2015

Il fenicottero e la canna da zucchero [Scusa se lo chiamo futebòl #1]

Una storia così merita una deviazione. In viaggio per Fortaleza, la mente rivolta a una settimana di mare sulle spiagge di Cumbuco, Canoa Quebrada e Iguape, Sergio e Lucio decidono di fare una sosta di un giorno a Recife. Hanno sentito parlare di un ragazzo che si chiama Jeferson Lima e gioca con una gamba sola. Non perché si ritenga superiore agli altri, ma proprio perché la destra non ce l’ha. Gliel’hanno amputata nel 1997, quando aveva quattro anni. In un modo o nell’altro è riuscito a completare la scuola dell’obbligo, appena portato a casa il diploma si è messo a lavorare come aiuto muratore: a 21 anni continua a fare lo stesso mestiere per un pugno di reais. Però non si è mai arreso, non ha mai accettato la sua invalidità. Ha una passione assurda per il calcio e riesce a giocare con dei normodotati senza soffrire di complessi di inferiorità.

Da Recife a Ribeirão, la piccola città dove abita Jeferson, non è proprio una gita di piacere. Sono 82 chilometri di strade in stile groviera, che Sergio e Lucio percorrono con il taxi di un conoscente della cognata di Lucio. Le portiere si chiudono con il fil di ferro, le sospensioni sono un lontano ricordo, ma raccontare la storia di Jeferson non ha prezzo. Attraversato un pezzo della regione che viene denominata Mata Pernambucana, Sergio e Lucio con il loro autista entrano finalmente nell’area comunale di Ribeirão, città che viene chiamata anche Princesa dos Canaviais, la principessa dei campi di canna da zucchero, elemento principale dell’economia locale.
 


Meglio arrivare in punta di piedi per non condizionare Jeferson. I due giornalisti italiani vanno direttamente al campo di calcio, che non è uno stadio ma un’area di terra battuta con le porte senza reti e le righe tracciate a mano. Dal gabbiotto che viene utilizzato come spogliatoio fino al campo sono una cinquantina di passi. Jeferson percorre quel tragitto con le stampelle, poi le butta per terra, varca la linea laterale e va a posizionarsi in mezzo al campo,
come volante, centrocampista davanti alla difesa. Si muove con un’agilità sorprendente, con l’eleganza di un fenicottero. Gli altri 21 giocatori sono tutti giovani come lui, intorno ai vent’anni, e ovviamente hanno due gambe a testa. Non passa molto tempo e capita qualcosa di magico e straordinario. Arriva un cross abbastanza alto, Jeferson salta facendo forza sulla sua gamba sinistra (del resto non potrebbe fare altrimenti), stoppa di petto e tira al volo con la sua scarpa sinistra numero 43. Gol.

Anzi, non è un gol. E’ un gooooool come dicono i telecronisti brasiliani. “Il più bel gol che si sia mai visto su questo campo”, dice un signore che guarda la partita a pochi metri da Sergio e Lucio. Mentre la partita va avanti, i due italiani cominciano a parlare con la gente per ricostruire la vicenda umana di quel ragazzo che è riuscito a emozionarli così tanto, che usa il pallone come strumento di emancipazione da una disabilità capace di scoraggiare chiunque. Si scopre così che il giorno del dramma Jeferson stava attraversando la strada per andare proprio a giocare in quel campetto. Ma a quattro anni è difficile ricordarsi che bisogna stare attenti a tutto. Voleva correre a giocare, ha attraversato senza guardare ed è stato centrato in pieno da uno dei mille camion che passano da quelle parti carichi di canna da zucchero. La gamba è rimasta incastrata tra la ruota e la lamiera del camion, completamente maciullata. Il medico non ha potuto far altro che amputare. Il camionista è stato processato e condannato a pagare un indennizzo di 3000 reais (circa 1000 euro) con cui la mamma Adriana da Silva, che ha altri tre figli, è riuscita a comprarsi una casetta per farci vivere tutta la famiglia.



Tagliata la gamba destra, il recupero è stato complicato anche per problemi psicologici. Jeferson faceva fatica a mantenere l’equilibrio con una gamba sola, aveva bisogno d’aiuto da parte dei genitori. A scuola lo prendevano in giro, con quella mancanza di sensibilità propria dei bambini in gruppo. Però a sette anni ha cominciato a ritrovare l’equilibrio, ha ricominciato tutto da zero ed è tornato in campo. Ovviamente meno rapido di prima, ha deciso di cambiare posizione, non più attaccante ma centrocampista e qualche volta anche portiere, sempre con buoni risultati. Quella è stata la svolta della vita, perché Jeferson ha preso sempre più coraggio, imparando anche a nuotare come un pesce. Ha mollato la scuola che lo faceva solo piangere e dopo un breve periodo passato lavorando in un autolavaggio, ha trovato la sua strada definitiva nell’edilizia.
 
Certo che è un peccato sprecare un talento così. Sul campetto di Ribeirão il ragazzo riesce a dare spettacolo ma non può disputare partite ufficiali. E allora può solamente sognare. Non le Paralimpiadi di Rio, perché non è prevista la categoria degli amputati, ma almeno gli piacerebbe trovare qualcuno in grado di aiutarlo a comprarsi una protesi e chissà, un domani giocare con la maglia del Brasile un Mondiale per ragazzi che abbiano il suo stesso problema. Le protesi di costruzione canadese che vengono utilizzate nelle manifestazioni internazionali per amputati però costano tantissimo e nessun comitato ha denaro da investire per una specialità non paralimpica.
 
Sergio e Lucio sono sempre più commossi dalla storia che stanno ascoltando. Aspettano che la partita finisca e abbracciano Jeferson, che li invita a bere un cafezinho a casa sua. Mamma Adriana tira fuori dei biscottini buonissimi che ha appena preparato e fa bollire l’acqua. Il ragazzo va di là. Apre un cofanetto che sembra una reliquia. Tira fuori qualcosa che per lui, tifoso accesissimo del San Paolo, è oggetto di culto. C’è una t-shirt firmata dal suo idolo Rogerio Ceni, portiere-goleador. Poi ci sono le foto di Pato e Ganso con i rispettivi autografi, più altri gadget della squadra tricolor. Dice che è il miglior regalo ricevuto in tutta la vita. Ma quando gira per le strade della sua cittadina il vero dono è l’affetto delle persone che gli chiedono di fare una foto con lui perché non si capacitano di come riesca a giocare così bene e a segnare certi gol.

***
Questa storia è tratta da "Scusa se lo chiamo futebòl", il libro di Enzo Palladini (giornalista storico del Corriere dello Sport e oggi di Premium Sport, già Sport Mediaset) appena pubblicato dai nostri amici di edizioni In Contropiede, che ringraziamo (avvisandoli che in questa calda stagione amazzonica pubblicheremo altri estratti del libro, perchè è pieno di storie fresche ed esotiche come batida de maracuja).

giovedì 12 febbraio 2015

Nostalgia di Funchal. Un'introduzione a "Memorie dell'Europa calcistica" (ed. In Contropiede, 2015)




I cannot come back to this neighbourhood
without feeling my own age
I walk past these houses where we once stood
I see past lives but somehow you're still here

Qualcuno ricorderà una serie di memorie ossidate, scolorite che, un po' di tempo fa, dedicai alla Spagna calcistica, nel tentativo di raccontare - attraverso esperienze reali o che nel momento in cui le scrivevo mi sembravano tali - in che modo quei luoghi, e il ritorno (reale o immaginato) in quei luoghi a cui sono così legato, hanno influito sulla mia formazione, sulla mia maniera di intendere il calcio, sul mio rapporto con gli abitanti di un altro paese (#1, #2, #3, #4). Credo sia la mia "serie" più longeva, considerando anche le tante altre occasioni in cui ho provato a parlare di calcio muovendomi sul crinale (della camera da letto) della nostalgia, del viaggio e dell'autobiografia.

Quando Alberto Facchinetti mi ha chiesto, ormai un anno fa, di dirigere una collana della sua neonata e felice iniziativa editoriale In Contropiede, è stato dunque naturale, per me, proporgli, come prima uscita della collana, un libro che riprendesse, espandendolo (nel senso letterale, e quindi geografico, del termine), questo approccio - esistenziale più che estetico - alla scrittura calcistica. Ho dunque chiesto a una serie di autori più o meno coetanei di raccontare - sulla falsariga di quanto avevo provato a fare con la Spagna - ciascuno un paese europeo, filtrando soltanto i ricordi - nel senso molto vasto che ho ricordato prima - legati al calcio. Ne é uscito un libro che, la prima volta che l'ho letto tutto di fila, mi ha fatto emozionare. Un libro che, evidentemente, non poteva che chiamarsi "Memorie dell'Europa calcistica".

Non mi dilungo a presentare il libro, perchè di seguito, d'accordo con Alberto, ho pensato di pubblicarne la prefazione, sperando che serva a illustrare ancora meglio - quanto basta a far incuriosire senza appagare la curiosità - il senso, lo spirito, il contenuto di "Memorie dell'Europa calcistica". Voglio invece ricordare chi sono gli autori (mi viene da dire "gli amici": le due categorie su questo blog sono sempre sovrapponibili) che sono stati così gentili a seguirmi, e con entusiasmo, in questo progetto. Molti di loro non sono nuovi in questo bar: c'è Lorenzo Toppini, che Lacrime di Borghetti l'ha fondato; c'è Tommaso Giancarli, che praticamente è con noi sin dall'inizio; ci sono Gian Mario Bachetti e Andrea Romano, che qui hanno versato delle gran lacrime (e Andrea ha scritto anche un libro molto bello); c'è l'autore del - per me - più bel libro di calcio pubblicato in Italia negli ultimi anni, Fabrizio Gabrielli. E poi ci sono dei volti nuovi, nuovi su LB dico, ma non in assoluto: due giornalisti - e due miei miti personali - come Luigi De Biase e Francesco Olivo, rispettivamente il mio russologo e il mio romanistologo (e qua dovrei linkare tutte le chiacchiere sotto la Curva Sud) di riferimento, che hanno una prosa travolgente; e una ragazza inclassificabile, sorprendente come Marica Benini, pura Wunderkammer, forse la ragione per cui mi sono iscritto su twitter (per seguirla, dico). A completare la squadra, il mio amico Raymond Antonin (di più non posso svelare) e, vanitas vanitatum, il sottoscritto.

Li ringrazio tutti, questi santi, uno per uno, così come ringrazio quel fratello che per me è diventato Ricardo Cavolo, che - dopo quella di Mourinho - mi ha regalato un'altra copertina meravigliosa, così come ringrazio Alberto e Nicola della casa editrice, con la speranza che il vento (delle vendite; a proposito, il libro si può comprare sul sito di In Contropiede, nonché su Amazon, e poi alle presentazioni che organizzeremo in tutta l'Italia, almeno quella già Stato Pontificio) ci assista e ci permetta di immaginare e realizzare altri libri, così come ringrazio tutti i lettori, commentatori, futuri autori e in definitiva amici - di questo si tratta - del blog, che in qualsiasi modo leggeranno questo libro, perchè, è quasi superfluo ricordarlo, questo libro non è una monade, ma si inserisce - come risata in una conversazione, come break in un set - in questa scena amatoriale e disincantata, nostalgica e velleitaria, spesso controcorrente ma mai elitaria, di amanti del calcio e della letteratura che, tutti insieme, stiamo costruendo, con tanto amore, una riga alla volta.

*       *       * 



PREFAZIONE (NOSTALGIA DI FUNCHAL)

Mi capita spesso, negli ultimi tempi, di svegliarmi la mattina provando una forte nostalgia di Funchal. Delle crepe sulla parete della mia stanza a due passi dal mare. Dei giorni trascorsi perdendomi nei vicoli della città vecchia. Della vegetazione rigogliosa dell’isola. Degli anziani che mi raccontano con accento inglese delle gesta del Nacional de Madeira. Dei ragazzini che giocano a calcio nei campi improvvisati tra le case coloniali.

Partendo da questa nostalgia, da questa Fernweh, che, tante mattine, mi spinge a non alzarmi dal letto, ho invitato gli autori di questo libro - tra cui me stesso - a ripercorrere, senza avere paura del dolore che genera l’incontro con la perdita, le tracce d’acquarello lasciate dai ricordi di un’esperienza vissuta in un paese europeo.

Come fil rouge, però, non ho chiesto agli autori di condividere una forma, né di rispettare i confini tra diaristica e finzione, ma ho soltanto suggerito una prospettiva, quella di filtrare tra i propri ricordi solo quelli intrisi di calcio, sul presupposto che il calcio non è un aspetto isolato della vita, ma la vita stessa, osservata da una posizione privilegiata. 

Ecco allora che, nelle pagine che seguono, il pallone rotola su volti evaporati, luoghi difficili da pronunciare, incontri consumati, seguendo cammini reali e letterari nei quali non conta la meta, ma solo quello che si vede durante il tragitto: bistrot di periferia, gonne color pastello, spogliatoi per bambini, piazze innevate, friggitorie, toppe sulle giacche jeans, argentini che non passano mai il pallone, musei degli arazzi, copriscarpe in polietilene, cappellini da baseball.

Ogni viaggio ci lascia una storia, figuriamoci i paesi in cui abbiamo abitato. Eppure, a guardar bene, dire di aver abitato in un paese straniero è solo un’illusione. I paesi stranieri non si lasciano abitare. I paesi stranieri, passati al setaccio dei ricordi, sono solo un inventario sconnesso di nomi segnati a penna su un tovagliolo, facce incrociate sul metrò, storie ascoltate al bancone del pub, insegne luminose, strade notturne, parchi silenziosi. I paesi stranieri sono luci di flash che svaniscono all’istante, polaroid sbiadite, occasioni mancate per un soffio, pali-gol. Tra noi e loro c’è una distanza che non potremo mai colmare, e non importa quanti giorni, quanti mesi, quanti anni ci hanno ospitato. Questa distanza è la nostalgia non per quello che abbiamo vissuto, ma per quello che non abbiamo vissuto.

La nostalgia del futuro.

Altra cosa è dire che da ogni paese straniero si riportano a casa due cose: vestiti sporchi e regali. Passati gli anni, lavati i vestiti, scartati i regali, di quei giorni ci rimangono solo abbandoni, perdite, reminiscenze, fantasmi. La fortuna è che possiamo scriverne.

L’eco del pallone che rimbalza tra le storie raccontate in questo libro segue una melodia comune, a metà tra l’euforia e la malinconia, e spesso tutte e due le cose insieme, come nelle canzoni dei Daft Punk che vedevamo passare in televisione in sottofondo alla versione di latino. Non deve sorprendere. Tutti gli autori sono nati - molti all’inizio, qualcuno in mezzo, pochi (beati loro) alla fine - nella decade dorata degli anni Ottanta. Siamo una generazione che ha condiviso l’apertura a una serie di mondi (per quanto qui interessa, mi limito a pensare alle televisioni commerciali per il calcio, agli Erasmus e ai voli low-cost per l’Europa) che - senza andare troppo indietro - i nostri fratelli più grandi hanno fatto in tempo solo a rimpiangere. Svanita l’euforia adolescente, ci addentriamo ora in un’età malinconica, quella di mezzo, in cui non è più lecito, ma anzi è addirittura truculento, provare euforia per il futuro, perché i nostri futuri sono già arrivati e non assomigliano a quelli che immaginavamo. Per consolarci, possiamo solo guardare indietro, aggrappandoci alle esperienze passate.

Questo non è un male. Anzi.

Il protagonista di uno dei racconti di questa raccolta, a un certo punto, citando Fontanarrosa, afferma che “l’unico calcio che vale è quello che uno conserva nei ricordi”.

Anche io ho sempre pensato che l’essenza del calcio sia fondamentalmente nostalgica, nella sua declinazione fantasmatica - pura football hauntology - di nostalgia del futuro. Sono passati più di vent’anni da quando Paulo Sergio faceva entrare nel nostro immaginario collettivo un controllo di palla, un campionato straniero, una maniera di pronunciare il nome del marcatore, eppure quel goal è qui con noi, come il pigiama che indossavamo cenando davanti al televisore il venerdì sera. Viviamo il paradosso e la contraddizione che il calcio che abbiamo vissuto non esiste più, eppure persiste nella nostra memoria come se fosse reale, e spesso anticipa - mischiandosi con episodi che non abbiamo vissuto, o che abbiamo deformato, o che non sono mai avvenuti - il calcio che vivremo. La vita che vivremo.

Ecco perché mi capita spesso, negli ultimi tempi, di svegliarmi la mattina provando una forte nostalgia di Funchal.

Perchè io, a Funchal, non ci sono (ancora) mai stato.

lunedì 15 dicembre 2014

Tutto merito di Mussi

La mattina andavamo in spiaggia a Grottammare. Protetti dalla consolante ombra proiettata dal monumentale Hotel Sylvia, esempio tra i migliori di tutta la costa adriatica di grattacielismo abitativo costiero, organizzavamo con Giorgio e i suoi amici estenuanti partite di pallone con un Super Santos di proprietà del figlio di Zenga. Era l’unico motivo per cui consentivamo che quel bambinetto con la zeppola giocasse con noi. I più grandi, e quelli che si davano più arie, erano i cugini Alan e Jean-Marc, che, nonostante i nomi francesi, erano di Colli del Tronto. Io avevo dieci anni e tanta voglia di impormi come il romano che aveva fatto la scuola calcio del CONI, pur occultando che non ero mai stato convocato per le partite ufficiali (ma non per limiti tecnici, che il pallone lo sapevo calciare con plastica coordinazione, quanto caratteriali, perché ero troppo sensibile). Dopo numerosi svarioni difensivi e palle recuperate tra le ultime file degli ombrelloni ci veniva a chiamare Edoardo, il fratello di Giorgio, che non giocava mai a calcio, per dirci che se volevamo potevamo andare a mangiare la pizza dalle nostre madri. Ogni tanto, ma proprio ogni tanto, ci scappava anche il fritto di calamari dello stabilimento Stella Marina, uno dei migliori cartocci di anellini fritti di tutta - di nuovo - la costa adriatica, ma quel giorno ci dovemmo accontentare della pizza comprata al forno di Borgo Miriam. Dopo pranzo i fratelli si godevano la siesta sul bagnasciuga e io sfogliavo il Corriere dello Sport che il vicino di ombrellone mi lasciava in eredità. Si parlava della partita che la nazionale italiana avrebbe giocato la sera (per noi, ma in realtà era l’ora di pranzo a Boston) contro la Nigeria. Era il 5 luglio del 1994, giorno degli ottavi di finale del campionato del mondo americano.

Tornati a Castorano, preso atto che il televisore a casa dei miei ospiti non funzionava perché non c’era l’antenna, rimanevano due opzioni per vedere la partita: il bar dei giovani e il bar dei vecchi. Erano questi i due unici bar del paese, da noi etichettati in tal modo perché in uno, quello che stava sotto, si riunivano - appunto - gli sparuti giovani del paese, ed era per questo motivo (e anche perché c’erano due videogiochi) il nostro favorito, mentre l’altro - che noi odiavamo - era il ritrovo dei vecchietti, una schiacciante maggioranza della popolazione locale che trascorreva le torride giornate estive giocando a biliardo e fumando sigari, lasciando i mozziconi nei posacenere della Algida. Dopo la doccia e il petto di pollo panato con le patate ci infilammo un maglione di cotone e, con Giorgio (Edoardo non era interessato), ci recammo al bar dei giovani. Con nostra immensa sorpresa, e delusione, lo trovammo chiuso. Tutto il paese era sciamato verso il bar dei vecchi. Ci andammo anche noi, ma la situazione era improponibile. C’era un solo televisore e lo schermo era coperto dalle nuche dei signori avanti a noi; inoltre c’era un’insopportabile puzza di sigaro. Tornammo di corsa a casa per chiedere alle nostre madri di trovare una soluzione. Fu allora che, dal nulla, alla mia venne l’idea di chiamare lo zio Diego.

Lo zio Diego era un mio zio, e non uno zio di Edoardo e Giorgio. Situazione paradossale, considerando che villeggiavamo a Castorano perché era la terra dei loro parenti, non dei miei (tanto che lo zio Diego è di Salerno). Eppure, a Castorano, un paese sperduto nell’entroterra piceno, il 5 luglio del 1994, si trovava anche mio zio Diego. Il destino l’aveva portato a conoscere e sposare una donna del posto, una donna - posso dirlo col senno di poi - orribile, nevrastenica, una pazza, e non lo dico per misoginia, ma perché questa donna è così instabile che anche la figlia, quando Diego e la moglie si sono separati, ha espressamente chiesto al giudice di abitare con il padre. Lo zio Diego ha sempre avuto un cuore e una pancia molto grandi e, per far felice la moglie, lui che è farmacista, aveva rilevato la farmacia di Castorano, e passava lì varie settimane d’estate. Era la prima volta che lo vedevo a Castorano, e comunque in vita mia non l’avevo visto più di quattro o cinque volte. Ci accolse davanti alla farmacia e ci portò in una stanza sul retro, una specie di magazzino adattato a ufficio, dove diede a me e a Giorgio una sedia e un bicchiere di Coca-Cola ciascuno, mentre lui rimase in piedi fumando nervosamente. Sopra un tavolo di plastica bianca era appoggiata una televisione non più grande di quindici pollici dove risuonavano gli inni nazionali. Sullo schermo scorrevano le immagini lontane - gli oceani sembrano distanze siderali quando si hanno dieci anni - e granulose di caldo soffocante del Foxboro Stadium, dei volti dipinti col tricolore dei nostri tifosi, degli sguardi seri dei giocatori nigeriani, con i loro nomi bizzarri e la loro fama di campioni esotici (c’erano, tra gli altri, Finidi George, Jay-Jay Okocha, Daniel Amokachi, Sunday Oliseh, Victor Ikpeba, Rashini Yekini, Efan Ekoku), delle facce dei nostri calciatori, che conoscevo alla perfezione per averle viste sull’album delle figurine del Mondiale (c’erano, tra gli altri, Mussi e Benarrivo, Donadoni e Signori, Albertini e Massaro). L’arbitro fischiò l’inizio della partita e nel retro della farmacia di zio Diego calò il silenzio.


All’epoca non avevo gli strumenti teorici, né l’esperienza, per capire se una partita fosse bella oppure no. Quindi non so dire se fu una bella partita; posso dire, però, di aver provato, per la prima volta con la nazionale, un’enorme sofferenza. Quando l’Italia aveva perso ai rigori con l’Argentina ero troppo piccolo per capirci qualcosa, e quella serie di rigori mi era scivolata sulla pelle come un foulard che si adagia sulla neve, senza rumore. Quella sera, invece, Amunike metteva in porta un pallone carambolatogli chissà come sul piede e portava in vantaggio la sua squadra. L’Italia non sembrava in grado di reagire, e, tra una recriminazione e l’altra di mio zio, che ce l’aveva con quel nostro buffo allenatore con gli occhialetti, soprattutto perché - così imprecava - faceva giocare Signori a cinquanta metri dalla porta avversaria (difesa da un omone chiamato Rufai che mi incuteva, allo stesso tempo, paura e ammirazione), finì il primo tempo. Con Giorgio ci guardavamo e non eravamo così tanto sicuri che saremmo riusciti a vincere. Poi il secondo tempo cominciò e successe una cosa terribile, un episodio che non cancellerò mai dalla mia memoria. Pochi minuti dopo essere entrato, Gianfranco Zola, talentuoso attaccante nel quale sia io, che Giorgio, che lo zio Diego avevamo riposto le sempre più tenui speranze di pareggio, venne espulso dall’arbitro messicano per motivi ancora oggi incomprensibili. Non aveva neanche commesso fallo. L’ingiustizia mi fu subito evidente e, in sincrono con Zola, ruppi in un pianto senza precedenti. Non piangevo, ma singhiozzavo, gemevo, tutta la mia sensibilità - che già mi aveva privato di un ruolo se non da protagonista quanto meno da comprimario nella squadra del CONI - venne sferzata come un albero esposto alla furia del vento. Zola era a terra, con le braccia conserte, la zazzera sugli occhi incapace di assorbire le sue lacrime, e anche io mi lasciai andare alla pazzia, persi la testa, tanto che sia Giorgio che lo zio Diego mi dicevano di stare calmo, che ce l’avremmo comunque fatta, ma io sapevo che lo dicevano solo per farmi felice, e invece ero toccato nel profondo da quella decisione, l’arbitro messicano non aveva espulso solo Zola, ma anche me e tutti i bambini di dieci anni che in quel momento stavano guardando la partita nel retro di una farmacia.

Mancavano ormai pochi minuti alla fine e io ero sempre più disperato. Era chiaro che non saremmo più riusciti a pareggiare. Guardavo Giorgio che era muto e anche io non sapevo cosa dirgli. Zio Diego aveva ripreso a fumare nervosamente, o forse non aveva mai smesso. La cosa che mi faceva più infuriare era l’atteggiamento dei giocatori nigeriani, che, approfittando della loro tecnica sopraffina (non l’ho detto, ma quella è stata sicuramente la più forte generazione di giocatori di quel paese), facevano scorrere quei minuti pigramente, dedicandosi a colpi di tacco, tunnel, fraseggi ravvicinati, virtuosismi, sombreri, con la calma - e l’inesperienza (ma all’epoca non lo sapevo) - di chi crede di avere già vinto. Bruno Pizzul in televisione parlava di “irridente melina” e io mi feci spiegare da mio zio cosa significasse. La loro melina e la nostra agonia, a questo pensavo, ed era proprio questo che non riuscivo ad afferrare: l’enorme, assoluta sproporzione tra la facilità con cui si può vincere una partita e la grande fatica che si deve fare per perderla. Per loro, quei minuti erano solo un girar di lancette verso un’altra partita; per noi, la fine di tutto.

Fu a quel punto che a cambiare le sorti del mondiale ci pensò Roberto Baggio, il nostro giocatore più forte, il più famoso almeno, l’ultimo dei nostri campioni dotato di quell’alone di magia che rende agli occhi del tifoso sempre possibile l’impossibile. Al minuto 43 del secondo tempo Mussi, simpatico terzino del Parma di Nevio Scala (la squadra per cui tutti tifavamo da ragazzini), quando ormai anche la panchina azzurra aveva capito che non saremmo mai saliti su un podio, ma solo sulla scaletta di un aereo, Mussi, dicevo, vinse un rimpallo al limite destro dell’area di rigore nigeriana, si ritrovò il pallone sul piede, alzò la testa e la passò all’indietro, poco oltre il dischetto del rigore, dove arrivava scodinzolando Roberto Baggio, colpevolmente lasciato libero dall’allegra difesa avversaria. Baggio colpì quel pallone senza stopparlo, di interno collo quasi piatto, come amavo colpirli anche io, privilegiando la precisione alla forza, e lo indirizzò verso il secondo palo. La palla rotolò beffarda in diagonale, infilandosi tra i piedi di un difensore e di un attaccante; Rufai si tuffò forse un po’ tardivamente, tanto che, allungando la mano, non riuscì nemmeno a sfiorarla. La rete della porta si gonfiò, Baggio corse verso la linea laterale del campo abbracciando Tassotti e Maldini, mio Zio Diego si lasciò andare a un urlo liberatorio, Giorgio scattò in piedi gridando e vai!, Castorano rimbombò per l’esultanza del bar dei vecchi e io sentii una scossa che mi svuotò la testa come un cucchiaio che raschia l’interno di un uovo alla coque.

La partita, per me, finì lì. Certo, poi ci furono i supplementari, il fallo su Benarrivo, il rigore (palo-gol) trasformato ancora da Baggio, la festa in campo, il ritorno a casa, la notte piena di sogni di gloria. Più avanti, ci fu la vittoria con la Spagna, vista - questa volta - nella casa di Castorano, perché i nostri padri avevano aggiustato l’antenna, con un altro gol di Baggio dopo che Tassotti aveva spaccato il naso a Luis Enrique; la doppietta sempre di Baggio contro la Bulgaria, vista in una televisioncina caprese odorosa di gerani e acquesantiere; e così via. Ma quel Mondiale era finito lì, con quel pareggio di Baggio, quel tiro furbo, disinvolto, bello, quel momento di sollievo dopo una corsa a perdifiato. Giustizia era fatta: per me, per lo zio Diego, per Giorgio, per Zola, per l’Italia tutta. Quello rimane il mio gol mondiale preferito, perché è quello che ho più desiderato che venisse segnato. Non per vincere qualcosa, ma perché sapevo che dopo sarebbe valsa la pena vivere, e non solo per la curiosità, ma anche per il piacere.

*           *         *
 
 
 
Questo mio racconto è tratto da Gol Mondiali, un bellissimo libro appena pubblicato dagli amici di IN CONTROPIEDE, che hanno chiesto a diciotto autori (tutti appartenente al collettivo Scrittori di sport) di raccontare il gol della storia dei Mondiali a cui sono più legati. La prefazione è di Picchio De Sisti. Il libro si può acquistare sul sito dell'editore oppure durante una delle presentazioni che verranno organizzate.  

venerdì 19 settembre 2014

“Nessuno vuole essere il calciatore di Sacchi”. Estratti dal romanzo "Arrigo" di Jvan Sica (edizioni INCONTROPIEDE, 2014)

Nell'ottica dell'amicizia e della collaborazione con le edizioni inCONTROPIEDE siamo felici di pubblicare alcuni estratti di "Arrigo. La storia, l'idea, il consenso, la fiamma", l'ultimo volume pubblicato dai tipi di Alberto Facchinetti, vale a dire un bizzarro, ispirato, originalissimo libro di Jvan Sica - al crocevia tra la biografia, il romanzo e la sceneggiatura - dedicato al più amato degli allenatori italiani della nostra infanzia, e non solo dai tifosi milanisti: Arrigo Sacchi. La penna di Jvan Sica, non nuova a queste imprese, ha seguito cammini nascosti anche ai protagonisti di questo libro per ricostruire a modo suo - ma sempre con umilté - l'immaginario personale e collettivo dell'allenatore di Fusignano, sullo sfondo di un'Italia che ormai, probabilmente, non esiste più. Come quel calcio, d'altronde.

***

21 ottobre 1987
In albergo dopo la partita di Coppa Uefa Milan-Espanyol 0-2
Lecce (Italia)

“Cos’è successo Arrigo?”.
“Non mi seguono, non mi vogliono”.
“Ma chi?”.
“Tutti, nessuno escluso. Nessuno vuole essere il calciatore di Sacchi”.
“Ma c’è qualcuno che te l’ha detto in faccia, qualcuno che rema contro?”.
“Non è un problema di remare contro. Sento che stanno iniziando ad odiare il mio essere in primo piano rispetto a loro”.
“I calciatori li conosci…”.
“Sì, li conosco, loro pensano che basti l’esperienza. Sono come quei vecchi falegnami che ormai pensano di non dover imparare più niente. Sono delle merde, guarda”.
“Dai Arrigo calmati, lo sai che ti stimano”.
“Non più ormai, non più. Lo sai cosa mi ha detto uno l’altro giorno: ‘Mister, qua ci facciamo il culo e sembra che in campo ci vai tu, non è mica giusto’”.
“La società?”.
“Una parte è con me”.
“E l’altra?”.
“L’altra sta già aizzando i tifosi. Vogliono Trapattoni, pensa un po’”.
“Davvero?”.
“Sì”.
“E Berlusconi?”.
“Berlusconi è incasinato. L’ho sentito due ore fa, mi ha parlato dell’importanza di mostrare sempre una faccia sorridente. Vincere le guerre, a noi le battaglie non interessano”.
“Ha ragione”.
“Ha ragione ma io non vado da nessuna parte se non prende posizione nei confronti della squadra”.
“E diglielo chiaro e tondo”.
“Non è facile, non si vuole esporre”.
“Perché?”.
“Perché cazziare uno dei vecchi in pubblico vuol dire mettersi contro una parte dei tifosi e a lui serve il consenso pieno, vuole che tutti lo adorino, lo sai com’è fatto, no?”.
“Ma perché oggi avete giocato così male?”.
“Non lo so, non riesco a capire. Siamo in forma, in allenamento siamo perfetti. Oggi in partita invece continuavo a chiamare Tassotti, Donadoni, tutti quanti ai loro compiti ma loro se ne fregavano, tutti facevano il cazzo che volevano in campo”.
“Gli olandesi?”.
“Ah quelli poi. Gullit pensa col cazzo, è troppo istintivo. Van Basten mi sta sui coglioni, con quell’aria da Cristo sceso in terra. Quando gli faccio vedere i tagli ad uscire in allenamento mi ride in faccia, come per dire: ‘E io, Marco Van Basten, mi metto a fare ste stronzate’”.
“Mi hanno detto che è mezzo infortunato”.
“È tutto infortunato. Ha caviglia e ginocchio fuori uso, ma deve giocare per forza. Lo abbiamo esaltato come il nostro Maradona e adesso, che faccio, lo metto in panchina? Ma è rotto, gli dico. E tu fallo giocare rotto. Io che punto tutto sull’efficienza fisica devo far giocare un giocatore rotto”.
“Senti Arrigo, tu al Milan non sei andato a campare di rendita. Tu stai là per un motivo ben preciso”.
“Una missione”.
“Ecco, una missione, bravo. Tu non puoi far decidere agli altri il tuo destino. Se Van Basten è rotto e decidi di metterlo fuori, deve stare fuori. Se Tassotti non ti ascolta, lo sostituisci con uno della Primavera. Se Gullit è fuori forma, lo sbatti fuori”.
“Sono in forma, non mi ascoltano”.
“Appunto, chi non ti ascolta si accomoda alla porta”.
“Non è facile”.
“Devi decidere tu, sei tu a comandare”.
“Siamo in tanti a comandare”.
“Così finisce tutto Arrigo, se non comandi tu finisce tutto. Parlane con Berlusconi, lui ti segue”.
“Ok, ma non è facile”.
“Fallo”.
“Adesso vedo”.
“Fallo”.




4 gennaio 1988
Incontro con Silvio Berlusconi
Arcore (Italia)

La stanza è angusta, ma l’amaranto alle pareti dà una piacevole tranquillità. Le librerie tutte intorno sono zeppe di libri, oggetti, fotografie, fogli. Non c’è uno spazio libero, tutto è ricolmo fino all’eccesso. La scrivania invece è vuota: un recipiente dorato contiene tre penne, un portadocumenti in pelle. Il Presidente accoglie Arrigo Sacchi con un gran sorriso.
Di fronte alla scrivania, affianco alla porta d’ingresso, la televisione è sintonizzata su una delle reti del Presidente. In quel momento c’è un break pubblicitario.
“Dove va il piccolo mugnaio bianco?
Clementinaaaaaaaaa”.
Il Presidente accoglie Arrigo Sacchi con il suo solito buonumore. Si complimenta per la partita di ieri. L’aggettivo che ama usare è quello con cui ha descritto la partita del suo Milan ai giornalisti: straripante.
“Il merito”, dice il Presidente, “è anche suo, Signor Sacchi, bravo nel far giocare alla squadra un calcio spettacolare e redditizio insieme”.
“Ragazzi sono arrivati i nuovi Mostruovi
I Mostruovi son tremendi, una vera novità…”.
Arrigo Sacchi si distrae, la tv è a volume alto. Il Presidente la indica e dice che è stato lui la fortuna di quella marca. Senza la sua capacità visionaria di dare spazio nelle sue tv a marchi anche piccoli oggi molte di queste aziende non esisterebbero e non ci sarebbero tanti occupati nelle fabbriche che producono i giocattoli, i mobili, le pentole.
“Ehi Paolo.
Buongiorno Signor Parroco.
Non hai ancora aperto il bar? Senza il tuo espresso chi mi dà la forza per suonare le campane?”.
Il Presidente guarda incantato. Ha aperto soltanto la porta, la gente non aspettava altro. Colori, musica, persone che finalmente ti sorridono e ti dicono quanto è bello il mondo, quanta è bella la vita. Alcune volte quello che fa gli sembra una missione per far stare meglio tutti. Un po’ quello che vuole fare anche con il suo Milan, una squadra che incanti e per cui tutti prima o poi facciano il tifo. Una squadra da guardare ed ammirare. Il Presidente sarà contento quando gli avversari uscendo dal campo diranno ai giornalisti: “È stato meraviglioso guardare questa squadra dal vivo”.
“Zigulì è una pallina che mi fa sentire più carina
Zigulì è una pallina che la fa sentire più carina”.
Il Presidente parla del futuro. Il domani non è dei vecchi bacucchi della politica, del giornalismo, del calcio, se vogliamo restare al mondo di Arrigo Sacchi. Il futuro è delle persone che vogliono dire cose nuove. Il Presidente risottolinea la parola “dire”, perché oggi se non riesci a comunicare alla maggior parte delle persone puoi inventarti tutto quello che vuoi, ma resti comunque un signor nessuno.
“Novità?
C’è un bel regalo, mamma.
Un altro forno, ma se c’è l’ho già?
Ma non lo usi mai…”.
E Sacchi lui lo ha notato e voluto proprio per la sua capacità di parlare del calcio in maniera nuova, lontana dalle piccole beghe di cui ogni giorno i quotidiani sportivi si occupano. Il Presidente ha bisogno di guardare dall’alto accompagnato da persone che insieme a lui si spingono un passo più in là.
Il Presidente dice che non è un fatto di supremazia, voglia di essere il numero 1, qui si parla di valori, di una nuova società, di una nuova Italia, finalmente. L’italiano nascosto dietro le tonache della mamma o del parroco deve scomparire, lui vuole un nuovo italiano che guarda in faccia l’America e le dice quello che non va.
“Oh fermamose n’attimo, io gnela faccio più.
Dai, non fare lo stupido, domani c’è la gara
Ma che gara e gara, so’ cinquanta chilometri che stiamo camminando…”.
Il Presidente è certo, lui ci riuscirà. Con uomini come Arrigo Sacchi che ci credono, perché la fede è la forza che ti fa andare avanti nelle difficoltà.
Il Presidente lo congeda mentre il canale ricomincia il flusso normale delle trasmissioni. Il sorriso del Presidente è sincero, largo, contagioso.
Arrigo Sacchi non ha più voglia di pensare o solo di fermarsi un attimo per riflettere. Ha solo un desiderio: ricominciare a fare il prima possibile.



27 novembre 1988
Negli spogliatoi dopo la partita Napoli-Milan 4-1
Napoli (Italia)

“Ci hai fatto impazzire oggi”.
“Ero in forma, è andato tutto bene”.
“Questa volta è toccata a voi”.
“Fortuna, Mister”.
“No, Diego la fortuna non esiste. Tu sei il migliore”.
“Grazie Mister, tu sei sempre gentile con me”.
“Te lo meriti”.
“Anche tu sei il migliore”.
“Con te succede una cosa che non succede con nessun altro calciatore. Non riesco a tagliarti fuori dal gioco, ho provato diverse soluzioni in questi due anni ma quasi mai sono riuscito a non farti giocare”.
“Giocare è la mia vita, se mi togli il pallone Mister mi fai diventare triste”.
Sorridono.
“Peccato che non potremo mai incontrarci”.
“Perché?”.
“Perché non potrei mai allenarti”.
“Non sono così cattivo come dicono”.
“No, anzi, tu sei il giocatore perfetto, ma io e te non andremmo d’accordo”.
“A me piace come giocano le tue squadre, sai attaccare, non giochi come facciamo noi. Hai visto anche tu, difendiamo sempre in tanti e quando attacchiamo tutti aspettano me. Quando vedo il Milan giocare mi piace”.
“Grazie Diego ma tu non puoi giocare nelle mie squadre, intendiamo il calcio con la stessa intensità ma da due prospettive totalmente diverse. Quando scendi in campo tu sei il calcio, per novanta minuti non esistono avversari, compagni, arbitri, pubblico, per te esiste solo il pallone e quello che tu con il pallone puoi fare. La partita diventa una tua invenzione, una tua creazione”.
“Mi piacerebbe fare parte di una tua squadra, capire come alleni tutti questi campioni”.
“Sai come faccio? Gullit sa che è importante quanto Colombo e Maldini sa che senza Massaro non potrebbe giocare come fa. Come farei a farlo con te? Come farei a convincerti che sei uguale agli altri?”.
“Sono un uomo curioso, potrei seguire quello che dici”.
“No Diego, sarebbe una bestemmia per te e un disastro per me. Vincere con te non ha senso, tutto sfuma, l’allenatore non ha alcun valore quando giochi. La partita è di Maradona e di nessun’altro, io non ci riuscirei a stare in silenzio”.
“Saremo sempre avversari?”.
“Sempre Diego, i migliori non possono stare insieme”.

giovedì 24 luglio 2014

Benvenuta inCONTROPIEDE. Un estratto in anteprima da "Il calciatore stanco", di Gino Franchetti


Lo dico subito: Alberto Facchinetti è un grande. Ha fatto quello che tutti noi avremmo voluto fare - e gli siamo grati per averlo fatto: no, non ha lasciato l'umida Venezia per aprire un bar nell'ancor più umida Panama City, ma ha aperto una casa editrice di letteratura sportiva, particolarmente attenta alle scritture calcistiche, che si chiama inCONTROPIEDE. Mi auguro che questo nome diventi familiare agli appassionati di pallone, come lo è stato Limina per dire (e auguro a inCONTROPIEDE la stessa lunga vita e lo stesso impatto culturale).
Ma chi è Alberto Facchinetti? Detta alla Troy McClure, forse vi ricorderete di lui come scrittore del nostalgico Doriani d'Argentina (edizioni Cinquemarzo, 2011) e dello storico La battaglia di Santiago (Urbone, 2012).  Il suo ultimo libro, pubblicato proprio dalla sua nuova creatura editoriale, è Il romanzo di Julio Libonatti (inCONTROPIEDE, 2014), sul mitico oriundo veneto-argentino che giocò nel Torino a inizio Novecento. 
Alberto Facchinetti è anche un amico, guadagnato sul campo - si può dire - del pallone che si scrive. Mi ha fatto molto piacere quando, qualche mese fa, mi ha chiesto se me la sentivo di dirigere una collana della casa editrice. Ovviamente ho detto sì, e ovviamente la collana si chiama Lacrime di Borghetti. In autunno uscirà il primo libro, un'antologia che coinvolge molti di noi (noi intesi come amici che scrivono, commentano, leggono questo blog). Ne riparleremo.
Intanto, oltre a segnalarvi pure la prima bellissima pubblicazione di inCONTROPIEDE, vale a dire Campo per destinazione. 70 storie dell'altro campo, una raccolta di storie calcistiche marginali, di bozzetti e ritratti, del giornalista e scrittore trentino Carlo Martinelli, pubblichiamo oggi, in anteprima, un estratto del terzo libro della casa editrice, che poi è il primo romanzo vero e proprio su cui Alberto ha investito - a ragione secondo me, perchè sono troppo pochi i romanzi a sfondo calcistico scritti in Italia (il mio preferito rimane Fuori rosa di Gianni Clerici, peccato sia introvabile dagli anni Sessanta - quest'inciso valga come un consiglio per Alberto...) -, vale a dire Il calciatore stanco di Gino Franchetti, anche lui giornalista e scrittore di sport di lungo corso e di penna piacevole, pubblicato proprio in questi giorni. Buona lettura, e auguri ad Alberto e a inCONTROPIEDE, che facciano sentire la loro voce in questa sempre più accattivante conversazione calcistica che sta aumentando di livello e di partecipanti mese dopo mese.

 * * *



"Il calciatore stanco", di Gino Franchetti (estratto)

Quando gli toccò il colpo di fortuna, verso la fine di un tormentato cammino, tutti furono concordi nel dire che si trattava di “un grosso traguardo, indubbiamente non meritato”. Ne avevano tanti, in società, che avevano lavorato sodo e in umiltà, mostrando di avere qualità umane che li avrebbero portati più lontano, nel mestiere di calciatore, di dove potesse mai arrivare quel sedicenne svogliato e lunatico con la puzza sotto il naso. Del resto lui il traguardo, a quanto pareva, nemmeno se l’era mai posto. Vivacchiava senza impegno, si lasciava scorrere addosso elogi e reprimende senza l’ombra di un’emozione, come se fosse la stessa cosa, per lui, ciondolare per il campo del tutto inutile o risolvere una partita con uno dei suoi colpi di genio.

Davvero non si sapeva bene come prenderlo. Avevano provato a lusingarlo, a prospettargli premi e promozioni, a fargli intravvedere la possibilità di essere chiamato nel settore giovanile di questa o quella grande società. Lui aveva dato il meglio di sé per un paio di settimane al massimo, senza affaticarsi troppo, beninteso, perché quello, lo avevano capito tutti, era un limite che non avrebbe mai potuto cancellare. Quando gli veniva l’ispirazione, certo, era bello vederlo giocare: faceva cose che nessun altro nella sua squadra si sarebbe mai sognato di tentare e invece a lui quasi sempre riuscivano. Non è che giocasse molto per la squadra: la sua tendenza era di dare la palla agli altri solo quando proprio non poteva farne a meno. Però che giocate, gente! A vederlo in una di quelle sue giornate di grazia, non si poteva non riconoscere che averlo nei ranghi era una benedizione del Cielo.

Ma dopo, quando il momento favorevole era passato, averlo o non averlo era esattamente la stessa cosa. Anzi, con lui in squadra si giocava dieci contro undici, ed erano pochi, nell’ambiente, quelli che seriamente erano disposti ad avallare la famosa battuta di almeno due grandi maestri (Gipo Viani? Nils Liedholm?), secondo cui “in dieci si gioca meglio”, senza considerarla per quello che probabilmente era, niente di più cioè di una battuta, appunto. Insomma, in tempi oltretutto di tatticismo imperante, nei sogni di ogni allenatore c’era piuttosto la possibilità di schierare un uomo in più, perché a centrocampo soprattutto mancava sempre un puntello indispensabile. Ed è per questo che alla seconda delusione il genio del pallone finiva fuori squadra a meditare un po’ sul peso della propria incostanza.

Non era stato così il giorno del suo arrivo. Quel bambinetto dal fisico ancora incompleto aveva dato spettacolo al primo contatto con la nuova squadra e non era stato difficile credere in tutto e per tutto a quello che raccontava suo padre, il signor Elmo. Di come, dov’era prima, la dirigenza lasciasse a desiderare, a tal punto da permettere che alla guida di una squadra di valore si installasse per dare sfogo ai propri vizi un noto pederasta; cosicché a lui, padre attento, e a tanti altri come lui non era rimasto altro da fare che prendere il suo ragazzo e portarlo altrove, con tutti i problemi connessi al cambio di società nel bel mezzo della stagione agonistica.

Lo avevano tesserato, dunque, facendo capire a entrambi, padre e figlio, che per il momento il ragazzo sarebbe stato considerato alla stregua di un allievo, uno cioè che era lì per imparare e al quale si poteva concedere al massimo di non pagare una quota, ma più avanti, dopo un anno o due, magari gli avrebbero dato qualcosa, se non proprio una paga almeno dei premi partita. Sempre che, naturalmente, avesse continuato a comportarsi bene.

Ecco, il punto era quello, purtroppo: che nemmeno il signor Elmo, con tutta la sua fede incrollabile, sarebbe stato in grado di garantire onestamente che quel suo figlio talentuoso sarebbe stato sempre all’altezza delle proprie possibilità. Chi poteva dirlo? Lo aveva visto altre volte che, all’improvviso spegnersi dello stato di grazia, il presunto fuoriclasse diventava un altro, del tutto irriconoscibile. Fatto sta che, se anno dopo anno la nuova società aveva deciso di rinnovargli la tessera, era solo per quel che si era visto, di tanto in tanto, e per la passione, oltre che per l’infinita pazienza, di un sant’uomo che aveva il ruolo di direttore tecnico e di coordinatore di tutti gli allenatori.

Per lui, Giacomo Conti, quella era una missione vera: prendere dei piccoli calciatori e farli crescere bene, senza troppo preoccuparsi se un giorno, alla fine della scuola, sarebbero diventati operai o bancari o negozianti invece che calciatori professionisti; o se un bambinetto robusto e un poco obeso, piazzato per quello tra i pali della porta con l’incarico di fermare la palla possibilmente con le mani, nel suo sviluppo sarebbe rimasto tale e quale anziché trasformarsi in un gigante capace di parare davvero. Più il signor Conti si mostrava paziente e comprensivo, più Giorgio l’indecifrabile pareva divertirsi a deluderlo e a provocarlo. Quanto più quello gli lanciava occhiatacce fiammeggianti di sdegno, tanto più Giorgio si lasciava nascere sulle labbra un sorrisetto beffardo, come a dire: Io sono questo che vedi, cambiami tu se puoi.

Finché il presidente non gli fece l’alto onore di convocarlo nel proprio ufficio. “Buon giorno, dottor Franchi”, disse lui con l’aria più serena e innocente possibile; ma una sbirciatina allo sguardo truce del disperato Conti che sedeva accanto alla scrivania del gran capo gli fece capire che c’era poco da stare allegri. Il presidente aveva lo stesso cognome del presidentissimo Artemio Franchi, potente in Italia e in Europa, seppure non ancora numero uno al mondo. “Ma non abbiamo legami di parentela”, si affrettava a precisare con finta modestia.

“Vorrei poterti augurare anch’io una buona giornata, ragazzo - gli rispose -, ma mi piacerebbe sapere che cosa speri di ottenere tu dalla vita. Perché non puoi certo pensare, alla tua età, che tutto ti sia dovuto. Tu devi sudare e faticare come gli altri, devi dare qualcosa ogni volta che tocca a te giocare, perché il campionato non si risolve in una sola partita e la tua vita non durerà, mi auguro, un solo campionato. O credi di poter fare la professione del bel giovane?”.

Questa storia del “bel giovane” non l’aveva capita, a dire il vero. Sì, riteneva di essere piacente: bruno, riccioluto, fisico agile ma possente, un atteggiamento da scettico navigato che con le ragazzine cominciava a giovargli. Ma che cosa aveva a che fare questo col calcio? Glielo avrebbero spiegato poi, in società. C’era un allenatore famoso, Nereo Rocco, triestino, che definiva “de profesiòn bel zòvene” chi fra i suoi giocatori dava l’idea di specchiarsi troppo in se stesso dimenticando che il successo non poteva che venire dal sacrificio, spesso anzi dalla sofferenza.

Diceva questo, per esempio, di Nello Santin, giovane difensore milanista, specie dopo che in Germania, sul campo del Monaco 1860, gli aveva fatto perdere una partita secondo lui per eccesso di supponenza. A quanto pare il Santin era già in grado di controllare il pallone, ma il centravanti bavarese, un bestione tutto muscoli, glielo aveva tolto arrivandogli addosso con la leggerezza di un bisonte e l’aveva infilato in rete. Commettendo un fallo, probabilmente, che però l’arbitro non aveva rilevato. E alla fine si sentiva Rocco detto ”el paròn” urlare come all’ortomercato: “El fazèva anca l’offeso, lù. Come? Te me gà spinto a mi, zogadòr del Milan? E intanto quello andava a far gol, mòna d’un mòna!”.

Insomma, per quanto lo riguardava il paragone era anche appropriato, ma la cosa non l’avrebbe scosso più di tanto. Riuscì a smuoverlo, il presidente, toccando un altro tasto. Lo vedeva anche lui, infatti, che certe domeniche il loro centro sportivo sembrava un porto di mare. Lo frequentavano, per assistere all’una o all’altra partita, certi ex giocatori anche molto noti, che si mischiavano con altri che noti non lo erano per niente e pure li conoscevano. Ed era tutto un parlare fra loro durante le partite, prima che la giornata si concludesse con strette di mano, abbracci e pacche sulle spalle. Alcuni dei poco noti poi si rivedevano nel corso della settimana, ed era a quelli che si doveva dunque prestare attenzione, perché attraverso le loro conoscenze altolocate, vere o millantate, un ragazzo poteva sperare di trovarsi prima o poi in una grande squadra davvero.

“Questi vengono magari per vedere te - diceva il “dottor Franchi” -, mettiamo che sia così anche se non è vero. Perché qualcuno che ti ha visto in un giorno buono ha detto loro che valeva la pena seguirti. Vengono e cosa vedono? Un lavativo che si trascina per il campo o sta a guardare la palla che va da una parte all’altra come se la faccenda non lo riguardasse, come se fosse capitato lì per caso. Che cosa può accadere, allora? Intanto che l’osservatore venuto per te se ne va convinto che la segnalazione fosse sbagliata. Poi che ci fa una figuraccia quello che ti aveva segnalato e perciò la volta dopo non ci casca più, anche se per miracolo ti sei rimesso a far faville; e anche se ci ricasca, se prova a segnalarti un’altra volta, magari cambiando giro, ormai non gli credono più, perché le voci corrono, e finisce che a te non ti vuole più nessuno”.

Lui allora aveva visto il buon Conti che quasi si metteva a piangere e un po’ si era pure commosso. E aveva pensato a suo padre, che in fondo era come il Conti, uno che era entusiasta di lui e gli voleva bene e non voleva che mostrasse il peggio di sé ma sempre il meglio. Al presidente aveva detto che si sarebbe sforzato e che quello doveva bastargli perché è vero o no che quel che conta è la buona volontà? E il presidente aveva sospirato, poco convinto, e il buongiorno comunque glielo aveva restituito.

Poi aveva fatto quel che c’era da aspettarsi. Aveva preso in mano la squadra per un paio di partite, giocando a tutto campo, col piglio del vero leader, trasmettendo a tutti la propria ispirazione e la propria fantasia, chiamandoli a partecipare ad azioni perentorie, spesso inarrestabili, portando con i suoi assist e i suoi gol un gruppo di ragazzi già buono a guadagnarsi il primo posto in classifica. Ovvio che poi tornava a rilassarsi, com’era nella sua natura, per la disperazione di tutti, compagni, allenatori, dirigenti e anche del signor Elmo, che pure a quel susseguirsi di docce scozzesi doveva aver fatto l’abitudine da tempo.

Per fortuna nelle grandi occasioni riappariva in tutto il proprio fulgore tecnico-agonistico, facendo nascere in molti il dubbio che ci fosse in tutto questo qualcosa di studiato: il lazzarone sapeva bene quando era opportuno far bella figura e quando invece contava poco o niente. Insomma, arrivarono alla semifinale nazionale della categoria in una situazione di totale incertezza, perché nessuno sarebbe stato in grado di prevedere se il “fenomeno”, una volta messo in campo, sarebbe stato la carta vincente o la causa di una disfatta. Del resto nemmeno lui, se gli avessero affidato la scelta, avrebbe saputo se puntare su se stesso oppure no. Un rebus.

L’ispirazione l’aveva avuta Conti: il ragazzo i mezzi li ha, se riusciamo a fargli avvertire l’importanza dell’occasione può darsi che ci stupisca tutti, come d’altra parte pare abbia sempre fatto nei provini. E così l’avevano schierato dall’inizio, ed era stata un’apoteosi. In certi momenti della partita sembrava quasi un altro, tanto pareva in possesso di una forza atletica che non gli era mai appartenuta. Aveva sempre saputo che cosa significava quella maglia numero 10 che gli davano di solito: lui era un fantasista, più simile a un uomo di punta che a un centrocampista, uno che doveva preoccuparsi quasi esclusivamente dell’attacco. Ma quel giorno era stato tutto diverso.

Guarda che non c’è alcun particolare accorgimento tattico - gli avevano detto -, quindi se non arretri anche tu a centrocampo siamo con un uomo in meno e rischiamo grosso. E lui non aveva avuto nulla da eccepire: aveva svolto il proprio compito. Anzi, aveva fatto di più. A palla conquistata, ogni volta aveva rovesciato l’azione in avanti non rinunciando a parteciparvi di persona. Si era fatto vedere sempre smarcato al momento giusto. Aveva ricevuto spesso il pallone da compagni che finalmente potevano fidarsi di lui e ne aveva tratto il massimo vantaggio: cinque gol personali, una prestazione splendida, una finale ottenuta con un clamore mai visto.

Ecco perché alla fine si era trovato ben oltre quel traguardo “non meritato”. Molti osservatori erano presenti allo stadio, molti altri avevano poi letto della sua impresa e non avevano potuto fare a meno di chiedere informazioni; qualche grossa società aveva chiesto e ottenuto il filmato della partita. Insomma, lui non aveva barato e come logica conseguenza si era scatenata l’asta che lo aveva infine avviato, con piena soddisfazione anche del club del “dottor Franchi”, verso il mondo del calcio professionistico.

Edizioni inCONTROPIEDE © 2014