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lunedì 12 gennaio 2015

Di un puma al rovescio e di un allontanamento volontario

Mia madre un giorno sparì, approfittando di un istante in cui mi ero distratto. 
L’abbiamo cercata a lungo; la trovò mio fratello, appena in tempo, impiccata in solaio. 
Comunque ritornò in vita. 
Scomparve una seconda volta: dovetti cercarla senza fine lungo il ruscello in cui avrebbe potuto annegarsi. Attraversai di corsa terreni paludosi. 
Alla fine mi trovai davanti a lei, su un sentiero: era bagnata fino alla cintola e la sua gonna grondava l’acqua del ruscello. 
Era uscita da sola dall’acqua gelida del ruscello (si era in pieno inverno), che in quel punto era troppo poco profonda per annegarsi.
(Georges Bataille - Storia dell’occhio)

Il Fato mi importunava. Intralciava la mia strada verso la Quiete, mi chiedeva di seminare odio e violenza, ma non sotto le forme becere di queste ultime ore, bensì nella loro versione più intima e privata: l’ossessione. Questa mia dea privata che ogni tanto mi occupa come un tarlo e non mi lascia più. Fino allo sfogo, fino al bisogno di una purificazione, fino alla catarsi.

* * *
La passione per la fotografia calcistica vintage mi stava letteralmente consumando, trascinandomi con violenza alla tastiera per spingermi a battere un assurdo post sul potere della simmetria nel calcio e quindi nella vita.
Nelle quotidiane scorribande sui tumblr altrui iniziavo ad imbattermi con una certa frequenza in vecchie fotografie futbolistiche in cui fasi di gioco, schieramenti ed esultanze mi parevano spesso contraddistinti da una simmetria totalizzante ed estrema, talmente estrema da apparire, in particolari circostanze, addirittura bizzarra: esultanze piramidali, sovrapposizioni involontarie tra corpi, busti che si fondevano l’un l’altro nel tentativo di colpire il pallone di testa, perfettamente collocati nello spazio, assemblati in coreografie da nuoto sincronizzato.

"Origin of Symmetry"
Fuggito nell’imago avevo trovato la necessaria lucidità per elaborare un piano di lavoro, una sinossi: sarei partito da un’analisi della fotografia aerea del rigore calciato da Albertini nella canicola di Pasadena. Avrei messo in evidenza la perfezione della traiettoria e la potenza del tiro del milanista. Avrei sottolineato il contrasto tra il bianco delle linee ed il verde del terreno. Mi sarei quindi soffermato sul dettaglio delle squadre in attesa del Verdetto all’interno del cerchio di centrocampo. In apparenza ciascuna occupava rispettosamente il proprio semicerchio. Ad uno sguardo più attento, tuttavia, il trauma. L’ordine e la simmetria brasiliana. I verdeoro allineati come e forse meglio che durante l'esecuzione dell'Ouviram do Ipiranga
Sul versante italiano, invece, un trionfo di disordine e sciatteria. Gli Azzurri stravaccati per terra o ciondolanti all’impiedi, chi in preda ai crampi, chi con le dita nel naso.

Altro che il rigore di Baggio e il menisco di Baresi, altro che il soffio di Ayrton Senna sulla selezione parreiriana. La simmetria. L’ordine. L’organizzazione. Nessuna rilevanza della grinta né della sorte, nessun impatto del pubblico sulla prestazione della squadra. Il trionfo dell'eleganza sulla trasandatezza. Solo la simmetria. La differenza tra la vittoria e la sconfitta. La simmetria


Mi sarei poi spinto sino a percorrere a ritroso la storia della simmetria attraverso le immagini per raggiungere progressivamente il mio ambizioso obiettivo: trovare il fondamento, il colore primario, la pietra filosofale, la cosmogonia presocratica del calcio. Dimostrare l’esistenza di una legge estetica da cui scaturisce il nesso tra la perfezione del gesto tecnico e la sublimazione coreografica (pur se involontaria) di corpi sul rettangolo di gioco con il successo finale, con la pace, con la Giustizia, sportiva e non. Un’atarassia calcistica. Una nemesi. Il punto di frattura tra il dionisiaco della partita e l’apollineo del gesto tecnico, dello sforzo fisico.

Come tutti i programmi ambiziosi che nascono nella fantasia dei mortali anche questo impone la sua maturazione e, dunque, non escludo di poter riprendere il discorso in un’altra fase della mia esistenza. Stavolta la preparazione del pezzo, e lo sviluppo delle idee, si sono bruscamente interrotti il 19 novembre del 2014.

* * *

Gone Girl”, appena uscito nei cinema, non è altro che la cronaca delle giornate successive alla misteriosa sparizione della moglie di un certo Nick Dunne (Ben Affleck). L’inizio di ogni nuovo giorno di assenza della moglie viene scandito dalla comparsa, in sovrimpressione, di un emblematico “1 day gone”, “2 days gone”, e così via. Per la mia vicenda potrebbe tranquillamente utilizzarsi lo stesso accorgimento, in quanto molte delle giornate trascorse in preda a questo assillo sono state le giornate della mia sparizione, della mia assenza, giornate di mistero e di raccoglimento.

* * *
Cazzeggiavo senza meta e senza ispirazione su Twitter, quando mi imbattevo nel seguente tweet abbinato ad una vecchia foto della Stella Rossa Campione d’Europa di Pancev e Savicevic.



Rivoluzione dassleriana. Cataclisma estetico.
Ogni mia velleità artistica veniva brutalmente spazzata via da questa immagine sbiadita in cui riuscivo a scorgere, in 3 differenti gradi di obliquità e nitidezza, il vecchio puma della casa tedesca intento ad avventarsi, del tutto inspiegabilmente, su una preda posta a destra secondo il punto di vista di chi osserva, a sinistra secondo il punto di vista di Prosinecki e soci, con enorme e sconvolgente dissomiglianza rispetto al logo tradizionale al quale eravamo tutti necessariamente abituati. Lo sponsor “Casucci Jeans”, frattanto, mi commuoveva, ricollocando davanti ai miei occhi vecchi pantaloni sbiaditi custoditi in chissà quale ripostiglio, compagni di chissà quale campo-scuola.
Come nei casi in cui si viene messi al corrente del proprio imminente ed inaspettato decesso, la prima reazione è stata il rifiuto: un grossolano errore di una stamperia tessile serba, un gigantesco e madornale typo tipografico, un volgare bug organizzativo inaccettabile a quei livelli. ll puma che conoscevo era sempre stato, sin dalle sue prime apparizioni nel pianeta calcio, tradizionalmente impresso sulle casacche e sui calzoncini dei giocatori con il muso rivolto verso la destra dell'atleta e la sinistra dell’osservatore, verso le regioni ad ovest dello spazio iconico, verso la genialità, verso il talento maradoniano, verso la perdizione, in barba alla teoria prospettica panofskiana del quantum continuum. A destra solo la coda all’insù e le zampe posteriori ad esercitare una enorme pressione sul terreno. Credevo me l’avessero insegnato, nel tempo e con pazienza, proprio i Diego, i Cruijff, i Pelè, i Beccalossi, chi mancino di piede, chi di cervello. Zoologia calcistica.

Il logo "tradizionale", quello col puma orientato a sinistra di chi guarda

Superato a fatica lo shock visivo, improvvisavo qualche goffo ragionamento tentando di organizzare logicamente le scarne informazioni che mi giungevano dal web. In sostanza, secondo l’autore del tweet, si trattava di una sottile mossa di marketing della maison tedesca volta a far breccia nei paesi comunisti. Ad incrementare il proprio fatturato. Un messaggio subliminale. Verificavo all’istante. Niente, a Cuba e in Nicaragua la Puma di inizio ’80 non tirava, non mi pareva ci fosse arrivata, e comunque, se c’era arrivata, non tirava verso la destra dell’osservatore. In Ucraina idem con patate, era proprio il caso di dirlo. Per placare sul nascere le mie montanti sofferenze, decidevo quindi di rivolgermi direttamente all’autore del tweet, a Sergio, collaboratore galiziano di un famosissimo periodico futbolistico iberico e grande appassionato di calcio vintage. Il suo ragionamento, in effetti, non stava in piedi.



La risposta che più di tutte temevo, la mera congettura di un utopista visionario non supportata da alcun dato, da alcuna statistica, da alcun business plan, da alcun aneddoto.
Dovevo cercare altrove, mettere a soqquadro il web, trovare dentro di me spunti di riflessione nuovi, scenari imprevisti ed imprevedibili, aggrapparmi a visioni, sogni e meditazioni  notturne. È la mia natura, del resto, quella che mi porta ai piedi di madonna ossessione. Spesso il buon Gegen tenta di sottopormi ad improvvisate sedute di psicanalisi, riscontrando in me la meticolosità da botanico girovago, condita da una vena idiosincratica e vagamente folle. Poteva dunque saziarmi una risposta così superficiale, così legata ad una banale contingenza storica, ad una nauseabonda strategia commerciale assolutamente scissa dalle leggi del cosmo e dell’arte da cui la mia riflessione era partita?
Cosa fare, quindi?
Inspiegabilmente, iniziavo ad avvertire un totale disinteresse verso la risoluzione del problema, o meglio, un enorme timore legato ad un raggiungimento troppo rapido della soluzione, il terrore di una eiaculatio precox. Mi stavo lentamente affezionando a questo limbo, a questa quotidianità in bilico tra mistero e rivelazione, tra subliminale e reale, avrei voluto prolungare la permanenza in quella placenta limacciosa per mesi, per una vita.
Non riuscendo a capire se - per porla in termini cobainiani - fosse meglio burn out o fade away, decidevo di cercare la soluzione nelle profondità dell’encefalo. Se la risposta fosse arrivata improvvisamente almeno non mi sarebbe stata somministrata da qualche sconosciuto in chissà quale paese, sarei rimasto l’unico artefice del mio ritrovato stato di quiete e avrei dovuto ringraziare, o forse maledire, soltanto le mie facoltà intellettive.
Iniziavo a pensare con insistenza ad un’attenta, ragionata e teutonica regia della multinazionale di Herzogenaurach che, in vista della finale di Bari, poteva aver ideato una maglia celebrativa “da collezione”, con un “puma rovesciato” che, in caso di vittoria, sarebbe entrato di prepotenza nei salotti degli appassionati in questa nuova veste grafica, in barba a concetti oggi di grande attualità come brand identity e brand image, alimentando leggende e congetture per secoli, permettendo a Puma di entrare finalmente nel salotto buono delle Grandi dell’abbigliamento.
Ero fuori strada, questo rudimentale ragionamento non garantiva alcuno sbocco. Le prime verifiche effettuate a malincuore, poi, mi conducevano nella direzione opposta. Non si trattava infatti di un’eccezione, bensì di una ponderata strategia di marketing che negli anni aveva mostrato una certa continuità: la Stella Rossa, oltre ad essersi presentata col “puma rovesciato” sin dall’inizio della stagione '90-'91, era scesa in campo con quell’assurdo marchio anche in numerose stagioni precedenti, verosimilmente a partire dal 1979.
Era l’epifania del vuoto assoluto, uno squarcio nella mia esistenza, un naufragio metafisico e fisico-chimico. Il cervello non riusciva a metabolizzare quell’immagine, incominciavo a domandarmi: “E adesso? Quid me continebit?”. Sarei lentamente imploso. Sarei rimasto soffocato da un conato di vomito, prima o poi. Borbottavo per strada, da solo, in preda a complicate elucubrazioni, azzardando scenari inquietanti e l'esistenza di regie occulte. Il disinteresse generale verso l’arcano mi disgustava. Non comprendevo come mai sui social non si discutesse solo ed esclusivamente del “puma rovesciato”. Gli auguri di Natale iniziavano ad apparirmi una pleonastica perdita di tempo. Mi distoglievano dall’obiettivo.

Gli amici, che avevo gettato nella melma di questa inchiesta sin dalle sue fasi embrionali, manifestavano un interesse tiepido, fingevano di comprendere i miei tormenti ma, seppur apparentemente appassionatisi alla vicenda, iniziavano a guardarmi con sospetto, a trattarmi con accondiscendenza, a riempirmi la schiena di pacche intrise di pietà. La deriva ad un passo. Le feste natalizie dei mie cari rovinate dalla mia assenza, dalla mia incapacità di vedere oltre il balzo di uno stupido puma stilizzato. Arrivai perfino a provare una certa invidia per il gallego e per la sua risposta tanto epidermica e superficiale quanto appagante e risolutiva. La sua capacità di elaborare la propria teoria, di assimilarla, renderla pubblica ed andare oltre. A me, invece, non era concessa la pace, un destino faustiano non lasciava spazio alla serenità. Immerso nel pantano. Nella melassa fino al collo.

Proseguivo, dunque, per la mia strada. Mi pareva inconcepibile che un colosso del genere potesse essersi rivelato tanto superficiale nel proprio approccio estetico sebbene riuscissi ad immaginare senza troppa fatica un’asimmetria informativa tra centro e periferia, un’incomprensione linguistica, un black-out tipografico o una distorsione interpretativa nella Serbia dei primi eighties, orfana di Tito, in una squadra destinata ad essere il canto del cigno di una nazione tanto ricca di talento quanto povera di impegno, una nazione cicala di vita e di storia, che ha scelto di sacrificare l’unione e la forza per la distruzione e la morte. Samo Sloga Srbina Spasava. 4 “esse” svogliatamente immolate sull’altare del nichilismo, del torpore. Solo l’unità salva il serbo. E chi avrebbe salvato il sottoscritto?
All’orizzonte si profilava l’ipotesi-ammutinamento della divisione serba di Puma. L’imminente smembramento della regione avrebbe certamente agevolato l’apostasia tessile, un vago ed ermetico humour anticonformista di una delle nazioni più hippy della storia.

(Un’edizione limitata forse? E per chi? E perché? Una inevitabile fase di assestamento stilistico?)

Dovevo indagare più a fondo gettandomi nel ridicolo, rovistando tra le immondizie della vita, proprio come si proponeva di fare Marco Cocci negli ultimi fotogrammi di Ovosodo. Dovevo setacciare siti web coreani. Dovevo assolutamente chiedere alla mia collega di Düsseldorf di tradurre in tedesco l’email che avevo in mente di scrivere al quartier generale per chiedere spiegazioni a distanza di oltre 30 anni dagli eventi. Dovevo venire deriso da qualche stagista tedesco ventiquattrenne della divisione marketing. Dovevo consultare siti specializzati in storia di uniformi calcistiche. Dovevo contattare degli sconosciuti paranoici e complottisti sui social e setacciare scrupolosamente la loro aneddotica. Dovevo visitare il sito web della WIPO, l’organizzazione mondiale della proprietà intellettuale, per studiare a fondo storia e aspetto dei marchi depositati negli ultimi 50 anni dalla Puma.
Ormai disperato, interrogavo persino El Señor Dionigi, esperto di diritto d’autore e proprietà intellettuale: “Col-tuo-marchio-puoi-farci-quello-che-ti-pare-anche-se-non-lo-depositi-in-ogni-sua-forma”. 
Risposta orribile, il bicchiere d’acqua salata offerto al pellegrino intento ad attraversare il deserto.

Il Genio custodisce gelosamente il segreto del "puma rovesciato"


Cosa me ne frega di un codicillo giuridico sul marchio di fronte alla mia ossessione? Di fronte al mio obiettivo ultimo? Avevo senz’altro sbagliato ad interpellarlo. Me ne ero pentito perché mi offriva una soluzione tristemente asettica rispetto ad un interrogativo che aveva scosso profondamente la mia stabilità mentale, che aveva contaminato la mia vita pubblica e privata, oltre che i miei rapporti con i prodotti delle multinazionali.
Non a caso, proprio in quei giorni arrivavo alla soluzione finale. Non avrei più comprato alcun articolo d’abbigliamento sportivo commercializzato da multinazionali, in particolare da Puma. Avrei certamente continuato a consumare quelli in mio possesso, ma non avrei più contribuito ad alimentare la loro sussistenza economica, così da non metterli più in condizione di propinarmi il loro fluido mortale.
Stella Rossa, Feyenoord, Bruges, Monaco 1860, Borussia Mönchengladbach, Fortuna Düsseldorf, Werder Brema, Austria, Kuwait, e chissà chi altri. Più o meno dal 1979 al 1990. Undici anni di schizofrenia estetica. Undici anni di esperimenti, e comunque di rottura con la tradizione. Undici anni di puma orientati ad est senza per questo dover essere filostaliniani. E venti, forse trenta anni di domande rimaste parcheggiate sul bordo di una carreggiata in periferia, senza risposta. Trent’anni di assoluta indifferenza rispetto a quello sconvolgente dettaglio.

(Il puma è un felino? E' una specie? E' parente del giaguaro?)

Stilata la provvisoria lista di squadre col “puma rovesciato”, tentavo di individuare un filo (culturale, geografico, politico, geopolitico) che legasse tra di loro le varie esperienze. La Stella Rossa, Jugoslavia. Savicevic e Stojkovic. Il Feyenoord e il Bruges, Olanda e Belgio. La Germania, addirittura con 4 squadre di club. La nazionale austriaca. Nessuna apparente connessione. Di certo, i 4 casi tedeschi mi suggerivano di concentrare ogni sforzo sulla Germania, era evidente lo “squilibrio” tra questo Paese ed il Resto del Mondo. L’influenza della casa madre, quindi. La vicinanza geografica. Follia teutonica. L'unica cosa che riuscivo faticosamente a partorire era un ossimoro.
Il Kuwait al Mondiale ’82, poi, mi disturbava profondamente. Essere costretto ad osservare la maglia blu elettrico con quel grosso puma bianco, così nitido, quasi provocatorio nella sua sproporzione rispetto allo stemma della federazione, mi mandava in bestia. Non comprendevo perché proprio loro potessero essere stati resi depositari di un mistero così enorme. Proprio  loro, al Mondiale di Spagna, con i loro baffetti e le loro espressioni più incuriosite che concentrate. Dei sempliciotti allo sbaraglio. Non me ne capacitavo. Perché proprio club tedeschi, la nazionale austriaca..e il Kuwait. 
Fantasticavo sul destino di quelle ormai mitiche casacche. Dove sarebbero state custodite nel 2015? Quei calciatori in pensione continuavano certamente a mostrarle con orgoglio ai loro nipotini senza capire, senza porsi alcuna domanda, scioccamente, superficialmente. “Ce-le-hanno-date-così”. Fine della storia.
Pensavo ai francesi e agli inglesi che, dopo uno scambio di maglia con Kuwait dopo la partita del girone eliminatorio, si ritrovavano benedetti e messi in guardia, senza alcun merito particolare, dall'enorme e regale puma rovesciato, dall’Acolnahuacatl azteco, la divinità col compito di tener lontani i vivi dal mondo dei morti.

(Sarebbe possibile una cosa del genere oggi? Un'abiura visiva tanto sfacciata verrebbe compresa e accettata? Si griderebbe allo scandalo? E quale impatto sui fatturati?)


Ancora, azzardavo una quantificazione globale dei “puma rovesciati” esistenti sul pianeta Terra: 10.000 maglie stampate nella storia? 5.000? O forse 50.000? Di certo un’inezia rispetto ai grandi numeri oggi sfornati impietosamente dalle aziende situate ai margini delle bidonville del sudest asiatico e che con le loro colle tossiche infettano le vie respiratorie degli ignari figli dell'Indocina.
Quello strano puma era diventato, in pochi giorni, incontestato simbolo di Purezza, di Liberazione.


Conseguenze di un banale “puma rovesciato” privo di apparente giustificazione: 
(i) squadre con lo stesso sponsor tecnico che si affrontavano a loghi invertiti. Lothar Matthaus e il suo rivale del Monaco 1860. Un puma a sinistra e l’altro inspiegabilmente a destra;

(ii) giocatori della stessa squadra fasciati in una maglia con loghi differenti. Lo strano caso del Monaco1860: portieri col puma a sinistra, giocatori col puma a destra;

(iii) in alcune situazioni-limite, direi il Bruges, la dissociazione direzionale tra logo sulla maglia e logo sul calzoncino;

(iv) talvolta, il felide comicamente appeso per la coda e col muso all'ingiù.


(Perché questo vilipendio? Perché tanta mutabilità? Perché tanta sciatteria?) 


Parallelamente alla ricerca, percorrevo un involontario percorso di meditazione e di contemplazione. Osservavo quel logo con attenzione per la prima volta in vita mia. Quel puma, trent’anni fa, era davvero un puma, i contorni del carnivoro più definiti rispetto ad oggi. La “vita” più sottile rispetto al “busto”. Un aspetto sinuoso, fiero, regale. Una colonna vertebrale realisticamente incurvata verso la testa. Un animale affamato e violento. Così diverso rispetto al quel puma pigro e ormai appagato, spalmato quotidianamente sui pettorali di Balotelli e soci.
Più mi soffermavo a rimuginare sulla banalità, sulla meschinità e sulla futilità del dettaglio, più mi sentivo pago, sazio. La scarsezza di informazioni e di interpretazioni mi esaltava più che demoralizzarmi. La completa irrilevanza storica e culturale del dettaglio mi acquietava, gratificandomi al contempo. Finalmente un nonsense in questa esistenza. Finalmente un mistero leggero leggero, a mia esclusiva disposizione e su cui mai nessuno (o quasi) aveva mai soffermato la propria attenzione. Una specie di vezzo e di culto privato allo stesso tempo.

Non avevo, però, la presunzione di considerarmi il depositario esclusivo di questo segreto giacché, presto o tardi, sarebbe stato aperto un nuovo thread su qualche forum kuwaitiano e la verità sarebbe venuta a galla, con buona pace dei paranoici visionari appassionati di iconografia sportiva del nostro tempo. Ero consapevole che il destino del “puma rovesciato” era segnato per sempre. Il mistero sarebbe stato prima o poi svelato. E un epilogo del genere sarebbe stato pienamente comprensibile, vista la mole di dati ed informazioni quotidianamente alla mercè di chiunque, in uno col disgusto tutto occidentale per le cose non intellegibili e che tali a lungo non devono rimanere. Gli scomparsi di 'Chi l'ha Visto' che vengono trascinati a forza nelle loro originarie abitazioni, e forse anche bacchettati per il disturbo arrecato. E che non succeda più.
Ma una punta d’orgoglio c’era, un orgoglio alimentato dalla circostanza che le rarissime domande poste sui forum rimanevano sempre senza risposta, un pò come accade proprio a 'Chi l'ha visto', dove ci bombardano per mesi sui dettagli - anche quelli più intimi - di una sparizione e poi, quando lo sventurato viene agguantato, si decide di andare avanti, di non sviscerare nulla, nè le ragioni del gesto, nè l'indole del fuggitivo. "E-stato-ritrovato-ieri-sera-alla-stazione". Fine. Il prossimo grazie. E' quindi la vita stessa a rimanere senza risposta.
E infatti, questa vicenda, come la vita, è senz'altro caratterizzata dall’incapacità di gioire silenziosamente dinnanzi all'incanto dei misteri così come a volte ci vengono presentati, senza doverli per forza svelare e profanare, a causa della connaturata impossibilità di godere al pensiero di restare senza soluzioni.

Dopo tutto, “Gone Girl” mi era piaciuto proprio perché, per qualche ora, mi aveva donato l’illusione della sparizione perfetta e definitiva, senza un apparente motivo, da accettare così per come era e anzi, quasi da agognare.

* * *
L’uomo occidentale è complesso, mi dicevo, un impasto di realtà e sogno, di fuga e ritorno, l’eterno duale che lo abita, una dicotomia ambulante. Cosa è, in fondo, l’anima dell’uomo se non una contraddizione inspiegabile, come due agili puma che saltano in direzione opposta, senza incontrarsi mai.